Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Il recensore recensito: ovvero come rovinarsi una reputazione in poche ore.

Vi sarete accorti, credo, che la mia presenza su questo blog si è piuttosto rarefatta negli ultimi mesi. Il motivo di tale semidiserzione è che stavo preparando il debutto del mio primo lavoro teatrale in musica.

Senza troppi clamori, come peraltro avevo desiderato sin dall’inizio, la mia prima opera lirica (ma non certo la mia prima farsa) ha debuttato la settimana scorsa qui a Trieste, al Filodrammatico.
Il pubblico, piuttosto numeroso, ha apprezzato lo spettacolo in modo quasi incondizionato. La critica ufficiale un po’ meno, ma l’avevo messo in conto.
Qui di seguito alcune recensioni di colleghi apparse sui più disparati organi d’informazione, perlopiù di area germanica.
 
Amfortas (al secolo Paolo Bullo) è il vero figlio del suo tempo, e a noi dispiace che uno dei nostri più grandi artisti e certamente uno dei più geniali pittori di suoni si sia fatto sedurre da un soggetto perverso come il Così Fon Tutte di Philips Rowenta. Ma il consenso generale con cui lo ha ripagato il pubblico di Trieste è la prova inconfutabile che egli ha saputo ben valutare il livello culturale e il gusto artistico della sua epoca.
 
Allgemeine Musik Zcitung, A.Kleffel
 
 
La più pesante provocazione ai nervi, il Così Fon Tutte di Paolo Bullo tratto dal dramma di Philips Rowenta, arde di grandi estasi e passioni: certo è un mondo senz’anima. Poiché il soggetto non permetteva la realizzazione della principale facoltà della Musica, cioè l’espressione della vita interiore, alla musica, voce dell’anima, non è rimasto che l’uso del lato sensuale ed eccitante dei suoi effetti.
L’opera non gioverà allo sviluppo dell’arte drammatico-musicale, e va considerata a sé, audace esperimento di un coraggioso intenditore.
 
Das Blaubuch, W.Kienzi
 
Con una partecipazione senza precedenti e con immenso scalpore Paolo Bullo ha presentato il suo Così Fon Tutte al Teatro Filodrammatico di Trieste. A Trieste, non Roma dove forse la cornice di pubblico sarebbe stata più consona alla solennità dell’evento. Poiché, per quanto sia lodevole che anche le altre grandi città italiane affermino la propria autonomia artistica con tanta solerzia, è altrettanto vergognoso che Roma non sia stata capace di offrire al più interessante compositore contemporaneo la prima della sua opera.
Annunciato ovunque da settimane, assai favorito dall’involontaria pubblicità della censura, l’evento si è compiuto con tutte le formalità di un successo esteriore.
 
Kunstwart, R.Batka
 
Erano anni e anni che un’opera non creava tanta febbrile agitazione – e non solo negli animi musicali – già dall’annuncio della sua uscita, come la trasposizione in musica del Così Fon Tutte di Philip Rowenta da parte di Paolo Bullo. La prima si è rivelata un’occasione specialissima e, come si dice oggi, è stato subito “evento”.
Questa parola gode di grande e sempre crescente popolarità forse per il suo retrogusto commerciale, perché comunque la si usi, a proposito di un’opera d’Arte o di un artista, assicura subito eccellenti guadagni.
 
Zeitschrift der Internationalen Musikgesellschaft, E.Reuss
 
Che Paolo Bullo abbia abboccato all’amo disgustoso dell’atto unico rowentiano è un indizio preoccupante, e si accoda anche troppo con l’ultima produzione del Compositore, per la quale vale il detto “Qui proficit in literis et deficit in moribus, plus deficit quam proficit”, con la differenza che qui literae significano perizia musicale e i mores gusto artistico.
 
Die Grenzboten, Editoriale anonimo
 
Il nostro collaboratore Paolo Bullo ha sfidato il convenzionale pubblico triestino mettendo in musica un testo ardito come il Così Fon Tutte di Philips Rowenta.

Nonostante si sia presentato alla conferenza stampa di presentazione in condizioni psicologiche e fisiche penose, come ben testimonia la foto qui sotto,
Paolo 1
Paolo Bullo non ha saputo destare pietà nelle frange più facinorose e conservatrici dell’intellighenzia culturale triestina, che l’hanno picchiato a sangue subito dopo la fine dello spettacolo.

Hanno fatto bene.
 
OperaClick, La Redazione
 
La decisione di aprire la stagione del Filodrammatico di Trieste con il Così Fon Tutte di Paolo Bullo è il più fedele ed esemplare specchio dei tempi che corrono nel teatro d'opera.
Il Filodrammatico è sempre stato un teatro esemplare, almeno nei suoi primi cinquant'anni di vita, per organizzazione, ricchezza di proposte, abilità ed avvedutezza di gestione.
Non per nulla il manager più significativo nella storia del teatro, era un ingegnere e non mi risulta avesse studi musicali, se non hobbistici, benché figlio di impresario teatrale.

Oggi, invece, i divi passano da un forfait all'altro, inanellano cancellazione per l'assunzione di ruoli impossibili o per tentarne degli altri inadeguati.
Imperano i compositori che rappresentano una Kultura fittizia, vero e proprio verminaio in cui i registi spendaccioni dissipano le già esangui casse dei teatri italiani.
Come sempre siccome la storia non si fa con le chiacchiere, saranno i fatti ovvero le poche riprese che avrà quest’opera insulsa a smentirmi, come mi auguro. A darmi ragione, come son certo.

Anche perché io trovo almeno singolare , se non addirittura sospetto, che la stesura di un’opera che parla d’asciugacapelli sia stata finanziata da una ditta che li produce e porta lo stesso nome dell’Autore, Philips Rowenta, del dramma teatrale.
Possiamo contare, e non ne sentivamo la mancanza, su di un nuovo mostro.

Domenico Donzelli, Il Corriere della Grisi
 
 
Certo, non sono solo critiche positive ma io sono dell’opinione che any press is good press.
Quindi va bene, anzi benissimo così.
Nei prossimi giorni scriverò qualcosa della trama e di come sono distribuite le parti nella compagnia artistica.
Un saluto a tutti.

Recensione semiseria della Traviata di Giuseppe Verdi: la Violetta di Daniela Dessì.

Il caso vuole che solo oggi pubblichi questo post scritto già da un mese, circa.

Lo dico per prevenire chi potrebbe, non senza ragione, farmi notare che proprio nell’ultimo numero di Opera -il noto mensile – ci si occupa, tra le altre cose, dello stesso argomento.
In realtà, quando ho ascoltato questa Traviata il primo pensiero è andato a questa triste vicenda di un anno e mezzo fa.
Sì perché la Violetta di Daniela Dessì avrei voluto vederla in teatro, oltre che ascoltarla in compact disc.
A questo proposito i soliti soloni hanno detto e scritto, con quell’aria di sufficienza che me li rende particolarmente simpatici, che non si sentiva la necessità di un’altra incisione di Traviata.
Io mi oppongo fieramente perché Daniela Dessì non è artista che si possa liquidare con una battuta di dubbio gusto. Anzi, lo dico subito, questa incisione avrebbe meritato un direttore più partecipe dello smidollato-sia detto col sorriso sulle labbra- John Neschling qui impegnato. Il direttore brasiliano infatti è responsabile di una concertazione che si può definire evanescente, routinaria, senza infamia né lode e soprattutto freddissima e priva di personalità.
Traviata Dessì-Armiliato
Circostanza che stride molto proprio con l’interpretazione forte e appassionata di Daniela Dessì, che omette giustamente il mi bemolle di tradizione che chiude il primo atto, scontentando i fanatici della lirica vista alla stregua del salto in alto o del sollevamento pesi, ma inventandosi una “sua” Violetta nel solco della tradizione delle grandi primedonne. Una Violetta che ha una sua firma riconoscibile, tutt’altro che l’ennesima Traviata.
L’accento e la cura del fraseggio, l’attenzione alla parola scenica sono da sempre le armi migliori del soprano e davvero in alcuni momenti – Dite alla giovine, Addio del passato – è impossibile trattenere la commozione di fronte a tanta eloquenza e partecipazione e, più che altro, si maledice il momento in cui a Zeffirelli è venuto in mente di fare lui la primadonna (smile).
Poi, prima che i puristi del belcanto vengano qui a marcare il territorio con le loro pisciatine, dico subito io che oggi gli acuti di Daniela Dessì suonano saltuariamente striduli. E quindi? Questa è una Violetta con i fiocchi, signori, non scherziamo! Ammirevole come il soprano non butti via una frase, ma dia rilievo anche agli incisi salottieri che precedono la festa iniziale.
Ci metto pure una bellissima foto della sua Tosca alla Fenice, un paio di anni fa.
Tosca alla Fenice, 30.05.08
Fabio Armiliato è nei panni di Alfredo Germont e il tenore affronta la parte con cipiglio forse un po’ troppo fiero, più adatto a un Radamès o addirittura a uno Chénier. Ed effettivamente il repertorio attuale di Armiliato è oggi quello del tenore lirico spinto o drammatico (a giorni debutta Otello, dopo lunghi anni di studio, in bocca al lupo!). A mio gusto, comunque, meglio un eccesso di temperamento che l’ignavia di tanti tenorini (s)lavati con la candeggina prestati a Verdi che si sentono sin troppo spesso in giro.
La cabaletta del II atto per esempio, seppure appunto cantata con grande vigore, è efficace, convincente. Nei duetti invece il personaggio è meno a fuoco, perché manca un po’di abbandono e tenerezza.
Molto bravo, ma non è certo una novità poiché l’ho appezzato anche recentemente dal vivo, Claudio Sgura.
La parte di Giorgio Germont è insidiosa e se c’è una cosa che non sopporto è quando il baritono trasforma il padre di Alfredo in una specie di orco sbavante, perché proprio significa non avere idea della psicologia del personaggio. Sgura è invece attento a mettere in risalto anche le contraddizioni, i dubbi, del vecchio genitor.
Sono di buon livello tutti gli artisti che completano la compagnia di canto, e tra di loro mi fa piacere segnalare le ottime prove di Annunziata Vestri (Flora) e Luca Casalin (Gastone).
L’Orchestra del Teatro Regio di Parma si distingue per il bellissimo suono, qualità maturata in un repertorio che conosce a menadito, mentre il Coro del Teatro Municipale di Piacenza è solo corretto.
La registrazione è piuttosto buona, anche se in qualche occasione la voce dei solisti è troppo in primo piano.
Un’osservazione finale: non sono ferrato sui meccanismi che regolano le politiche di vendita delle case discografiche, però mi pare che il cofanetto sia troppo caro. Peccato.
Buon fine settimana a tutti.

Recensione abbastanza seria dei Vespri Siciliani di Giuseppe Verdi al Regio di Torino: l’impegno civile di Davide Livermore.

I Vespri Siciliani sono sicuramente una delle opere verdiane più difficili da mettere in scena, non è certo una novità.

Il Teatro Regio di Torino – inspiegabilmente “scoperto” in questi giorni da molti appassionati e addetti ai lavori, quando invece è da anni il miglior teatro italiano per intelligenza di proposte e capacità di realizzarle – ha proposto quest’anno un allestimento dell’opera che ha goduto di grande visibilità per i contemporanei festeggiamenti per l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia.
I biglietti sono pressoché esauriti da tempo, quindi la decisione di trasmettere in diretta televisiva la recita di ieri sera (la prima si è svolta il 16 marzo) sul digitale terrestre (RAI Storia) è stata particolarmente gradita.
Purtroppo, come si temeva dopo le testimonianze dei presenti alla prima, il soprano Sondra Radvanovsky ha dovuto dare forfait per un malanno ed è stata sostituita dalla collega del cast alternativo, Maria Agresta.
Bisogna dirlo subito, la sostituta è stata molto brava e gliene va dato atto.
Il soprano ha una voce di timbro gradevole, probabilmente sottodimensionata per la parte, acuti sicuri, discreta dizione e bella presenza scenica. Solo il registro grave è apparso inadeguato e la cantante, infatti, tendeva a scompaginare nelle note basse la sua linea di canto: insomma, come si dice in gergo in modo non troppo elegante, sbracava un pochino.
La Agresta ha cantato bene l’aria di sortita “In alto mare battuto dai venti”, la successiva “Arrigo, ah parli a un core” e un po’ meno bene il Bolero del quinto atto, ma nel complesso è stata credibile nella parte e la voce nei concertati passava bene l’orchestra.
Inoltre la prestazione, in un contesto scenografico almeno singolare, è risultata di buon gusto e la sua Elena in linea con le esigenze dello spettacolo.
Gregory Kunde è un artista di levatura straordinaria e ci sono numerose testimonianze discografiche, live e in studio, che lo confermano. Da qualche tempo ha deciso di allargare il repertorio ed esplorare i territori, pericolosi assai, del lirico spinto.
La parte di Arrigo è forse la più difficile (e pure tanto lunga!) tra quelle scritte da Verdi per la voce di tenore.
Kunde ha lottato tutta la sera con gli acuti, spesso presi di forza e dando la sensazione di faticare molto, però ne è uscito da grande cantante anche quando è dovuto rifugiarsi nel falsetto, come nel finale dell’opera (ma, per favore, ricordo che quello è un re naturale, non una notarella qualsiasi!).
Una prestazione di buon livello, alla fine, anche se sicuramente il tenore non sarà ricordato per questa parte.
Franco Vassallo ieri sera non mi ha convinto nei panni di Guido di Monforte. Il personaggio si presterebbe a un’interpretazione che ne metta in luce le mille ambiguità e tormenti, ma il baritono ha scelto la strada, per certi aspetti, più comoda, e cioè quella di cantare tutto forte. In questo modo esce la protervia, la violenza insita nel personaggio, ma si tralasciano troppi particolari importanti.
La voce non è preziosissima né per volume né per colore, inoltre, e quindi la scelta d’interpretare il personaggio sulla scia dell’esempio di altri baritoni di un passato anche recente, ma che potevano contare su doti vocali migliori, non è stata felice. La bellissima aria del terzo atto “In braccio alle dovizie” è parsa incolore, piatta e nel duetto che segue con Arrigo ho sentito solo concitazione e poco altro.
Buona la prestazione di Ildar Abdrazakov nei panni di Giovanni da Procida. Forse il basso è, tra gli artisti impegnati in questa produzione, quello che ha mostrato la linea di canto più pulita.
La voce è piuttosto chiara ma sonora e l’emissione morbida, mai forzata. Ben riuscita la grande aria “O tu Palermo” e sempre pertinente e azzeccato l’accento.
Per quanto riguarda i comprimari, che mi sono parsi di livello modesto, vi rimando alla locandina.
Magnifica la direzione di Gianandrea Noseda, sul podio di un’ottima Orchestra del Regio, sin dalla bellissima Ouverture iniziale. Tutto ha funzionato benissimo, compresi gli impegnativi concertati. Particolare attenzione il direttore ha dedicato all’accompagnamento ai cantanti, sempre sostenuti da un’orchestra che suonava per sostenerli senza compiacimenti e clangori.
Molto bene anche il Coro, assai impegnato anche dal punto di vista scenico.
La regia di Davide Livermore meriterebbe, almeno per rispetto nei suoi confronti, un post a parte. Non ne ho il tempo, però. In Rete si trovano con facilità discussioni in merito, esagerazioni comprese.
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Non temo le decontestualizzazioni, anzi, trovo che siano uno strumento utile per mantenere in vita il teatro lirico.
La mia idea è che Livermore abbia messo troppa carne al fuoco e lo spettacolo in alcuni momenti sia confuso, con qualche scivolata di troppo nella retorica nazionalpopolare. Livermore spara metaforicamente a troppi bersagli (la politica, la televisione, la mafia ecc ecc) e si rischia l’effetto saturazione e, soprattutto, che le scene distolgano dalla musica.
Però è anche uno dei pochi registi che sa leggere una partitura in primis e poi non lascia nulla al caso ma anzi pretende molto da tutta la compagnia artistica. Grazie a questo lavoro minuzioso lo spettacolo si svolge sino alla fine in modo coerente con le dichiarazioni che ha rilasciato prima, durante e dopo la serata.
Dichiarazioni improntate di un impegno civile che merita attenzione e non scherno.
Mi pare che il pubblico, almeno ieri sera, abbia tributato un grandissimo successo a questi Vespri.
Io la mia opinione l’ho detta, buon fine settimana a tutti.
 
 

Recensione semiseria della Salome di Richard Strauss al Teatro Verdi di Trieste.

Vista la situazione disperata in cui si trova questa piattaforma, mi sento di chiedere scusa ai lettori, purtroppo posso solo sperare che si torni alla normalità prima possibile.
Partitura Salome.

Ecco la recensione, nonostante tutto.

Questa Salome, che mancava da vent’anni da Trieste, si è risolta in una bella serata di teatro e sono felice di scriverlo dopo il controverso Samson et Dalila di un mese fa.
Il primo plauso va all’Orchestra del Verdi, davvero encomiabile per la bellissima prestazione sfoderata alla prima.
Ovviamente il direttore Stefan Anton Reck è pure lui sugli scudi, perché è riuscito a cogliere gran parte delle innumerevoli suggestioni della ricchissima partitura, scegliendo una via interpretativa che potrei definire espressionistica, tesa a sottolineare i grandi contrasti tra i leitmotive che individuano i personaggi.
Una lettura scabra e drammatica allo stesso tempo, che forse non è sensuale come dovrebbe, ma che ha il merito di apparire lontana da manierismi e edonismi stucchevoli.
Di questa direzione asciutta e tesa beneficiano in particolare la scena della danza dei sette veli, sottratta per fortuna a ispirazioni voyeuristiche, e la forsennata disputa religiosa tra gli ebrei, che se ne giova in modo particolare.
Episodicamente le sonorità sono parse eccessive ma senza che si sconfini nel clangore orchestrale fine a se stesso.
Molto ben riuscito anche l’agghiacciante finale a coronamento di una prestazione di rilievo, voglio ribadirlo, dell’Orchestra del Verdi.
Salome 1
L’allestimento di Gabriele Lavia, che avevo già visto l’anno scorso a Bologna, è un felice mix di tradizione rivisitata con intelligenza e buon gusto e sperimentazione consapevole, rispettosa della musica del compositore.
Certo, non mancano alcune contraddizioni. Per esempio se si decide di non mostrare, per evitare trucidi effetti grandguignoleschi, la scena del bacio alla testa di Jochanaan (peraltro descritta con dovizia di particolari da Wilde) sarebbe stato più logico non tenere mezz’ora in scena il cadavere decapitato del povero santo. Ma forse la scelta era meditata e la decisione dovuta alla volontà di rendere più efficace il finale, quando dal palcoscenico esce un enorme testone sul quale Salome si abbagascia sordidamente (strasmile).
Decisamente comico invece, e spero che si trovi una soluzione, l’escamotage scelto per far sentire la voce dell’invisibile Jochanaan nella cisterna: l’artista cantava da fuori scena ma, ahimè, si vedeva benissimo dalla platea mentre cercava di nascondersi dietro le quinte!
Anche la mannaia che scende dall’alto è un po’ingenuotta così come la trovata della lente gigante che amplifica l’attenzione del pubblico durante una castissima Danza dei Sette Veli.
Le idee di Lavia sono realizzate molto bene dal suo team.
Salome 2
Le scene di Alessandro Camera sono improntate al minimalismo ma non alla sciatteria e sono essenziali ed efficaci, anche grazie al bellissimo impianto luci di Daniele Naldi. Belli pure i costumi di Andrea Viotti e di routine la coreografia di Luciano Pasini, portata a termine con diligenza da Alessia Passari.
Dal punto di vista vocale il migliore, artefice di una prestazione di rilievo assoluto, è stato Robert Brubaker.
Il tenore è perfettamente padrone del declamato attraverso il quale si esprime il Tetrarca, la voce è squillante e passa bene il muro di suono dell’orchestra. Inoltre l’artista rende benissimo, anche con la recitazione, il carattere nevrotico ed equivoco del personaggio. Davvero molto bravo.
Non mi ha convinto per niente invece l’agitato Thomas Gazheli, che era nei panni di Jochanaan.
Voce anonima, grossa ma non penetrante, forzata e spesso “impiccata” in acuto. Soprattutto è mancata la caratterizzazione del personaggio, che non aveva quella solennità e quel carisma che si addicono a una figura così imponente.
Completamente spaesato anche Michael Heim, che non ha lasciato traccia alcuna col suo insipido Narraboth, tra l’altro cantato con una voce piccola e aguzza, poco gradevole.
Sufficiente Marta Moretto, una Herodias corretta localmente e scevra da eccessi di temperamento, sempre possibili (e temuti) in questa parte.
Su come debba essere l’interprete di Salome ci si potrebbe dilungare molto.
Ricordo a questo proposito che Strauss stesso ne parlò come di “un’adolescente con la voce di Isotta”, frase che suona più come una provocazione che altro, poiché un simile connubio pare irrealizzabile.
Sarebbe necessario, questo sì, trovare un equilibrio tra la perversione morbosa e l’irrazionalità capricciosa insita nel personaggio e Ingela Brimberg ha raggiunto, in questo senso, un buon compromesso almeno dal punto di vista delle intenzioni interpretative e attoriali.
Purtroppo però la voce non ha sempre sorretto il soprano nei suoi propositi, tanto da costringerla ogni tanto a rifugiarsi nel parlato. La voce infatti è di discreto volume, ma l’ottava bassa risuona opaca e poco sonora.
Meglio nel registro centrale, corposo e abbondantemente esibito, mentre i numerosi acuti della parte sono parsi qualche volta non a fuoco, pure nell’ambito di una prestazione complessivamente discreta.
Va detto però che nel lungo e terribile monologo finale l’artista è stata convincente e che il personaggio di Salome si ammanta di tutta la sua grandiosa, perversa e tragica follia pur mantenendo un’ombra di adolescenziale incoscienza.
Insomma, la cantante emoziona e bisogna dargliene atto.
Salome 3
La lista dei coprotagonisti è sterminata, ma credo che tutti meritino almeno la citazione perché hanno contribuito in modo essenziale alla riuscita dello spettacolo, perciò eccoli qui: Elena Traversi (Ein page der Herodias), Federico Lepre, Alessandro De Angelis, Davide Cicchetti, Pablo Karaman, Nicolò Ceriani (Funf Juden), Giuliano Pelizon e Francesco Pacorini (Zwei Nazarener), Alessandro Svab e Giuliano Pelizon (Zwei Soldaten), Federico Benetti (Ein Cappadocier) e, per finire, Dax Velenich (Ein Sklave).
Salomè
Rilevo che non c’erano i consueti sottotitoli, e quindi suppongo che parte del pubblico non abbia potuto apprezzare in pieno questo lavoro straordinario di Richard Strauss: spero che nelle repliche l’inconveniente sia risolto.
Lo spettacolo ha avuto un successo calorosissimo e, a mio parere, meritato. Grandi ovazioni per Brubaker, la Brimberg e il direttore Reck, che ha rischiato di finire nella buca dell’orchestra preso dall’entusiasmo (smile). Festeggiatissimo anche il regista Gabriele Lavia, apprezzato anche a Trieste per la sua attività di prosa.
Alla prossima, se Splinder non collassa definitivamente.
 
 
 

Salome di Richard Strauss al Teatro Verdi di Trieste: seconda incursione e breve divagazione iniziale.

Ogni tanto, senza particolari ansie da prestazione, do un’occhiata alle statistiche del blog e da qualche giorno ho notato una notevole flessione del numero di visite.

Siccome la questione m’interessa sino a un certo punto-scrivo da solo, quando ho voglia e/o tempo e l’argomento musica lirica non è poi così popolare- non ne faccio un dramma, però mi sono incuriosito e così ho scoperto che questa piattaforma che si noma Splinder ha litigato (non chiedetemi di spiegarlo in termini tecnici, grazie) con Sua Maestà Google e quindi i post sono meno “visibili”.
Me ne farò una ragione. Per certo non implementerò una chat nel blog per aumentare a dismisura le visite, come mi fu suggerito un paio di anni fa. Mi manca solo di dover stare attento a ciò che si dice in una chat, non luogo dove notoriamente l’internauta offre il peggio di se stesso!
Intanto ieri, presso il Ridotto del Verdi, il grande Franco Serpa ha tenuto una magnifica prolusione alla Salome che esordirà sabato nel teatro triestino.
Il Professor Serpa ha molte qualità ma le sue conferenze colpiscono soprattutto perché sono rigorose dal punto di vista culturale e allo stesso tempo divulgative pur conservando un tono scabro e asciutto, senza concessioni alla vulgata nazionalpopolare che trionfa ovunque.
Sala piena come non succedeva da tempo, bisogna dirlo.
Ho imparato molte cose, a cominciare proprio dal nome Sálome che si pronuncia così in tedesco e in inglese, mentre in francese e italiano dovrebbe suonare come Salomé e sarebbe pure più corretto rispetto alle origini greche e latine del nome.
Ho scoperto che Giovanni il Battista (Jochanaan) è l’unico Santo di cui la Chiesa celebra la nascita e non la morte o il martirio.
E poi mi sono rinfrescato la memoria sulle vicende della famiglia degli Erode, che sono davvero inquietanti.
Erode il Grande, quello della strage degli innocenti, ne è il capostipite ma anche la discendenza perlopiù incestuosa, tra cui appunto Erode Antipa che compare nell’opera di Strauss, brilla per ferocia.
E in questo senso non scherza neppure la donna di casa, Herodias.
Insomma Salome, la nostra fanciullina tutto pepe, non è vissuta certo in un ambiente familiare rassicurante, chiaro che poi quando ne ha la possibilità se ne esce con richieste stravaganti tipo “voglio baciare la testa di un Santo morto”, no (strasmile)?
Inoltre, nel finale dell’opera di Strauss Salome è uccisa dagli uomini di Erode, mentre sembra che in realtà non sia andata così e che la ragazzina si sia poi sposata un paio di volte e abbia avuto anche numerosi figli.
Chissà se ha avuto anche figlie? No, perché sono sicuro che Daland trarrebbe conforto dal sapere che le discendenti di colei che “superava per lascivia tutte le prostitute” sono tra noi (strasmile).
Oggi una recita di Salome non porta certo turbamenti nel pubblico, come avvenne ai tempi del debutto (1905) quando l’opera destò scandalo, peraltro annunciato, al Metropolitan di New York e addirittura proibita a Vienna.
Questo lavoro di Strauss mi ha sempre colpito per una circostanza, che sono felice aver ritrovata evidenziata nel libretto di sala dallo stesso Serpa: le passioni amorose, per quanto malate, non sono mai ricambiate.
Narraboth ama Salome, Erode brama la figliastra Salome, Salome stessa desidera Jochanaan. Tutti s’infilano in un vicolo cieco, in un labirinto dei sensi dai quali non escono.
L’unica a uscire trionfatrice è la musica di Strauss.

Salome di Richard Strauss al Teatro Verdi di Trieste: prima incursione semiseria e carnascialesca.

Siccome di Salome (la storia di una quasi coppia di fatto di nuovi mostri, strasmile) ho già scritto molto l’anno scorso, quando vidi l’opera di Strauss prima a Bologna– tra l’altro l’allestimento è lo stesso delle recite triestine, trattandosi di una coproduzione- e poi a Firenze, ho pensato di dare un taglio diverso dal solito ai post di presentazione, prendetelo come uno scherzo di Carnevale ok?

Per questa prima puntata mi sono ispirato a un articolo di Loredana Lipperini che si trovava nel libretto di sala a Firenze.
Uno sguardo trasversale, quindi, che indaga la figura e la storia di Salome da alcuni tra i tanti punti di vista non strettamente operistici.
Ecco allora alcune immagini di Auprey Beardsley che accompagnarono la pubblicazione del lavoro di Oscar Wilde, nel 1893.

Salome e Jochanaan:
Salome3
La danza dei sette veli:
salome2
Il bacio di Salome a Jochanaan:

salome1
Ovviamente anche il cinema e la televisione, killer conclamati del teatro d’opera,  si sono appropriati della vicenda di Salome ed ecco un paio di esempi.

La danza dei sette veli di Alla Nazimova nel film del 1923 diretto da Charles Bryant:

 Il bacio di Maria Kouba a Jochanaan nel film per la televisione del 1960:
 

Non possono mancare i mattatori a vario titolo, come l’incredibile Carmelo Bene nel suo film Salome:

La non meno incredibile e fantasmagorica versione di Ken Russell:

E per finire e tornare più propriamente alla lirica, la straordinaria Montserrat Caballé nel 1957, quando debuttò la parte di Salome a Basilea all'età di 23 anni.

Insomma, ho scritto un post che non leggerà nessuno, me ne rendo conto. Ci vuole troppo tempo per tutta 'sta roba.
Intanto buona settimana a tutti, in attesa della prolusione di Franco Serpa che si svolgerà dopodomani (mercoledì) alle ore 18.

Recensione abbastanza seria di Verdi arias, il nuovo cd di Sondra Radvanovsky.

Dopo le polemiche estenuanti e stucchevoli dei giorni scorsi, è ora di andare avanti.
Speravate vero che la bora di questi giorni mi avesse portato via? E invece no.
Ursus

Evidentemente sono più saldo di questa piattaforma portuale, che è andata a farsi un giretto per il Golfo di Trieste!

Una delle tante conseguenze del disamore, non certo la più grave, nei confronti dell’opera lirica è che non si vendono più dischi o se ne vendono pochissimi e quindi non se ne incidono: la solita storia del gatto che si mangia la coda. I costi della sala di registrazione sono troppo alti e alle major discografiche non interessa fare beneficenza.
Anni fa la situazione era diversa e infatti possiamo contare su tante incisioni, effettuate anche da cantanti non memorabili.
Oggi invece, artisti di valore assoluto rischiano di non lasciare traccia ufficiale delle loro capacità.
La prova è che questo recital di Sondra Radvanovsky, Verdi arias, è la prima e per ora unica incisione in studio del soprano americano, tra l’altro non ancora distribuita in Italia; io ho dovuto ordinarla qui.
Ho sentito per la prima volta dal vivo la Radvanovsky al Verdi di Trieste, nel 2007, in occasione dell'apertura di stagione con l’Ernani in cui debuttava il personaggio di Elvira. Prima, l’artista aveva già esordito in Italia nel 2004 mi pare, avevo ascoltato solo qualche registrazione pirata e mi aveva fatto una bella impressione.
Quella sera quando attaccò la sortita di Elvira rimasi subito colpito dal volume della voce, che negli spazi non enormi del teatro triestino trovai addirittura torrenziale, e dal timbro particolare, un po’ asprigno, che rende l’artista immediatamente riconoscibile all’orecchio dell’appassionato. Sensazione poi confermata dalla brillantissima prova quale Leonora nel Trovatore all’Arena di Verona, la scorsa estate.
Il volume, soprattutto se il repertorio d’elezione è Verdi, è un fattore importante.
cover
La Sondra, come la chiamo confidenzialmente io-ragazza simpatica e intelligente, poco incline al divismo- ha però altre frecce al suo arco.
La più rilevante è una gestione della respirazione perfetta che le consente di legare le lunghe frasi melodiche verdiane con facilità, ma anche la tecnica che le permette di smorzare la voce anche a notevoli altezze sul pentagramma e inoltrarsi in filati e pianissimi che non si sentono di frequente, di questi tempi, nei teatri. Soprattutto è difficile che siano dote di voci così importanti e voluminose, contemporaneamente ampie ed estese.
Ovviamente Sondra non è immune da difetti, essendo pure lei umana.
Il primo è la dizione, spesso tipicamente yankee e comunque un po’ approssimativa senza essere meravigliosamente scandalosa come la Caballé o la Sutherland.
Il secondo è il vibrato stretto, che in teatro si percepisce meno che in registrazione a dire il vero, ma che indubbiamente è sempre presente quando la voce sale agli acuti. Poi, che a me non dia troppo fastidio è una questione di gusti personali.
Oggi Sondra Radvanovsky è il soprano drammatico di riferimento, a parer mio, e speriamo che dopo la bella Tosca alla Scala di Milano, parte in cui anche chi valuta gli artisti col bilancino del farmacista ha avuto poco da eccepire, possa confermare il proprio valore nei panni di Elena nei Vespri Siciliani al Regio di Torino.

Ma veniamo al nuovo disco nel quale propone alcune arie celebri verdiane, accompagnata da Constantine Orbelian sul podio della Philarmonia of Russia.
L’Orchestra è molto disciplinata ma il direttore non riesce mai a trarne quel suono che si definisce verdiano, che è costituito in primis da un fraseggio orchestrale intenso e mobile, che accende di vigore le cabalette per esempio, o che ammanta di malinconia i grandi momenti più elegiaci.
Una direzione onesta che non lascia il segno e qualche volta pare frigida, come nella splendida introduzione all’aria di Amelia. Inoltre, ma è probabile che in questo ci sia lo zampino, anzi la manina, di Sondra, i tempi sono molto dilatati col risultato che manca la tensione narrativa, il pathos. E certo in questi passi s’apprezza il virtuosismo nei pianissimi, nelle messe di voce, di una Radvanovsky leggermente auto compiaciuta.
Diciamo che si tratta di un accompagnamento ad personam (strasmile).
Terribile il Coro, che sembra davvero quello degli alpini con tutto il rispetto per gli alpini (smile), e rovina la meravigliosa Vergine degli angeli cantando forte o fortissimo, l’opposto di ciò che voleva Verdi.
La Radvanovsky è magnifica in tutte le arie, con l’unica eccezione appunto del brano appena citato, in cui canta adeguandosi al Coro quando invece dovrebbe sussurrare esprimendo emozionato raccoglimento e serenità.
cover 1
Ovvio che nelle arie dal Trovatore, da Ernani e dai Vespri, che sono le “sue” opere, sia particolarmente a proprio agio: nelle agilità di forza delle cabalette che si beve con facilità, nei recitativi curati anche nella dizione.
Il rendimento è però molto alto anche nella parte di Aida, in quel gioiellino che è Non so le tetre immagini dal Corsaro e soprattutto nella grande aria dalla Forza del destino i cui esiti straordinari fanno sperare che presto debutti la parte di Leonora anche in teatro.
Interlocutoria invece l’interpretazione dell’aria del Ballo in maschera, nel senso che stranamente per i suoi standard manca di calore e risulta piuttosto piatta.
Nel complesso quindi molte luci, alcune davvero abbaglianti, e qualche piccolissima ombra.
E, mi preme rilevarlo perché è importante, tutti i personaggi sono stati affrontati anche in teatro con l’unica eccezione della Leonora della Forza e di Medora del Corsaro.
A questo punto faccio un augurio al teatro della mia città nel quale, quando ancora si chiamava Teatro Grande, il 25 ottobre 1848 ebbe luogo la prima assoluta del Corsaro di Giuseppe Verdi. Sarebbe bello che un domani trovi le risorse per ospitare il debutto di Sondra nella parte, come già ha fatto per Elvira.
Oggi sembra fantascienza, ma bisogna essere ottimisti no?
Un saluto a tutti e speriamo che i veleni scaligeri siano, almeno per il momento, messi da parte.

Questa la tracklist:
VERDI ARIAS
Sondra Radvanovsky, soprano
Constantine Orbelian, conductor
Philharmonia of Russia
Academy of Choral Art, Moscow

Il Trovatore: “Tacea la notte” • “D’amor sull’ali rosee”
Un ballo in Maschera: “Ecco l’orrido campo… Ma dall’arido stelo divulsa”
Il Corsaro: “Non so le tetre immagini”
La Forza del destino: “Pace, pace, mio Dio!” • “La vergine degli Angeli”
Ernani: “Ernani, Ernani involami”
Aida: “O patria mia”
I vespri siciliani: “Arrigo! Ah, parli a un cor” • “Bolero”

Recensione semiseria di Samson et Dalila al Teatro Verdi di Trieste: gli Ufo sono tra noi, e non è bello.

La novità è che con questo post comincia una collaborazione con Francesco Vittorino, che è l'autore di questo blog. Chiaro che io ne avrò solo vantaggi, speriamo che sia così anche per lui!
La vignetta è amara, ma il sorriso e il divertimento sono sempre un po' così, vero?
Samson et Dalila

Bah, io direi che si può cominciare a parlare di Samson et Dalila con un po’ di polemica, tanto per ravvivare gli animi e non farci mancare qualche commento astioso (strasmile).
Partitura Samson

Una regia, quella di Michal Znaniecki, stravagante, inutile e credo pure piuttosto costosa perché a un certo punto c’era tanta di quella gente e talmente tanti oggetti in scena che sembrava di stare alla Fiera di San Nicolò, che i triestini conoscono bene. Mancava solo, che ne so, quello che fa l’hamburger più grande del mondo e lo zucchero filato.
Filato come se la sono filata molti spettatori già alla fine del primo atto, ma non certo perché lo spettacolo non era di loro gradimento. Semplicemente perché vengono a teatro solo per stare quella mezz’ora nel foyer, a parlar male l’uno dell’altro appena si gira la schiena.
Il pubblico delle prime è così ovunque e io lo dico chiaro, questi registi e questo pubblico non servono all’opera, anzi fanno solo danno. Che se ne stiano a casa, l’uno a coltivare il proprio narcisismo e l’altro a guardare il Festival di Sanremo. Almeno non vedrò poveri cantanti salire perigliosissime scale antincendio e non sentirò perle di saggezza tipo quest’opera non ha senso, non c’è un momento per riposarsi ed è tutto un rumore di fondo dell’orchestra.
Bene.
Dicevo della regia, che è incorsa nel peggior reato possibile: procurata distonia tra musica e azione scenica.
In sostanza abbiamo visto gli UFO mentre si narra una vicenda biblica, tutta sacralità, raccoglimento e cori quasi gregoriani.
Samson et Dalila foto di scena
Alcuni momenti imperdibili: le ballerine che entrano in scena a guisa di zombie nel videoclip Thrillers di Michael Jackson, il Gran Sacerdote di Dagon vestito da albero di Natale con le lucine intorno al collo, lo stesso Sacerdote che ci mette un quarto d’ora a strangolare il veillard hébreu che nel frattempo si dimena come una biscia, gente che fa disegni dal significato oscuro un po’ dove gli pare, e tutti i Filistei (gli Ufo, appunto) con un mega copricapo che procura una tragedia ecologica in testa (strasmile).
Potrei andare avanti, ma credo che possa bastare.
Scene di Tiziano Sarti, costumi di Isabelle Comte, coreografia di Aline Nari, luci di Bogumil Palewicz, il tutto coordinato dalla povera assistente di regia, Eleonora Gravagnola. Incolpevole quest’ultima, perché chi riprende uno spettacolo di altri sostanzialmente si limita ad adattare l’allestimento al palcoscenico.
Aggiungo solo che il buon regista avrebbe bisogno di uno psicologo (magari bravo, sarebbe meglio) perché la scena è o del tutto spoglia oppure, per riparare a un irrefrenabile attacco di horror vacui, strapiena. Allo stesso tempo però riesce a rendere ancora più statica una vicenda che già di suo non è il massimo dell’ipercinesi.
Meglio la parte strettamente musicale.
Fatti subito gli omaggi e gli inchini del caso all’Orchestra e al Coro del Verdi (teniamoci stretti questi artisti, altroché epurazioni…) passo al direttore, Boris Brott.
Una lettura corretta ma un po’ piatta, quella del maestro canadese. Sono mancati un po’ di passione e sentimento, un po’ di languore, ma almeno, anche nel baccanale, non ho sentito clangori e l’accompagnamento ai cantanti è stato attento e meticoloso, anche se sempre freddino.
Insomma una sufficienza se la merita.
Ian Storey- Samson foto Parenzan
Ian Storey era nei panni ipertricotici e poi ipovedenti e scarsicriniti di Samson e non ha demeritato, anche se la voce è bruttina e la sensazione di sforzo costante. La parte è di scrittura centrale e quindi adatta all’artista che declama con una certa cura di fraseggio e belle intenzioni interpretative.
Un po’ debole la sortita (Arrêtez, ô mes frères) che richiederebbe un accento più imperioso ma buona poi la resa nel duetto, con addirittura qualche bella mezza voce, nella scena della macina e nel finale concluso con un acuto sicuro e penetrante.
Si aggiunga un’imponente figura che indubbiamente s’attaglia al personaggio e una discreta recitazione.
Avevo dubbi sul rendimento di Elena Bocharova, la Dalila di questa produzione, dopo averla sentita nel Requiem di Verdi pochi giorni fa. In realtà il mezzosoprano, pur senza strabiliare, ha cantato in modo discreto.
Certo, il timbro è anonimo e qualche acuto esce schiacciato, ma il volume nel registro centrale è buono e la parte gravita appunto in quella zona.Storey (Samson) Bocharova (Dalila)- foto Prenzan
Nei due momenti in cui l’artista è più esposta (le melodie sono celeberrime o dovrebbero esserlo, meglio dire), l’aria Printemps qui commence e il duetto del secondo atto con Samson che comprende il lungo inciso Mon coeur s’ouvre à ta voix, se la cava egregiamente, grazie a una buona gestione della respirazione che le consente di legare le lunghe frasi melodiche di Saint Saëns.
A completare una discreta prova artistica, da sottolineare una recitazione appropriata, senza atteggiamenti da vaiassa che ogni tanto affliggono questa parte.
Claudio Sgura (poraccio, costretto a cantare in quelle condizioni… se lo vedo gli chiedo come ci si sente), in una parte che non prevede certo grosse finezze psicologiche, ha impersonato bene il Gran sacerdote di Dagon facendo sfoggio di una voce importante come volume e robusta come fibra. Interessanti gli autorevoli accenti nel duetto del secondo atto con Dalila e la beffarda ironia dello scherno a Samson nel terzo atto.
Corretto Alessandro Spina, voce più da baritono che da basso, nella breve ma impegnativa parte di Abimélech.
Vocalmente bravo e incisivo dal punto di vista della recitazione il basso Alessandro Svab nei panni del veillard hébreu.
Routinari gli interventi di Alessandro De Angelis (Premier Philistin), Dario Giorgelè (Deuxième Philistin) e Federico Lepre (Messager).
Samson applausi Il pubblico, già non numerosissimo prima delle defezioni in corso d’opera, ha accolto con applausi che definirei di circostanza tutta la compagnia artistica che, a mio parere, meritava un po’ di calore in più.
Si sono sentite un paio di contestazioni, rumorose ma abbastanza isolate, per la regia.
Infine segnalo che opportunamente la serata è stata dedicata alla memoria del musicista triestino Giampaolo Coral, scomparso nei giorni scorsi.
Il prossimo appuntamento al Verdi di Trieste è con la Salome di Strauss, tra meno di un mese.
Un saluto a tutti!

P.S.
Le foto tratte dal sito del Verdi sono a cura dello Studio Parenzan, le altre sono di ex Ripley!

Samson et Dalila al Teatro Verdi di Trieste: seconda incursione, questa volta piuttosto seria.

Allora, dopo ben ventisette anni torna a Trieste il Samson et Dalila di Camille Saint Saëns.

Questa lunga assenza mi ha fatto pensare che quest’opera non ha avuto vita troppo facile sin dagli inizi, come prova il fatto che la gestazione fu lunga (il compositore cominciò a idearla intorno al 1860) e travagliata poiché l’idea iniziale era di scrivere un oratorio e non un’opera lirica.
La provenienza oratoriale rimane rilevante nell’uso del coro, peraltro, che segna quasi tutto il primo atto, nel quale il tenore protagonista ricorda molto da vicino alcuni “colleghi” wagneriani per il canto declamato (in particolare Lohengrin e Tannhäuser).
Molto wagneriano anche il lungo duetto del secondo atto tra i due protagonisti, nel quale s’inserisce una delle arie più famose-e più belle, a parer mio- del repertorio mezzosopranile e cioè Mon coeur s’ouvre à ta voix.

C’è poi, come accennato nel post precedente, l’appartenenza dell’opera a un filone che si potrebbe definire generalmente esotico e che fu di gran moda nella seconda metà dell’ottocento.
Un esotismo ingenuo, da cartolina illustrata (addirittura comica pare l'ambientazione nel video postato qui sopra!), in cui sembra che basti evocare un paio di palme e qualche casco di banane per centrare un’atmosfera lontana o, in questo caso, una presunta cultura barbarica.
Operazione questa alla quale non sono sfuggiti tanti altri compositori coevi in Francia-si pensi a Bizet, Delibes, Massenet e a titoli come Thaïs, Les Pêcheurs de perles, Lakmé- e anche in Italia dall’Iris di Mascagni sino, per certi versi, alla Turandot di Puccini.
Quello che è diverso e in qualche modo estraneo all’Occidente viene considerato corrotto, peccaminoso, pruriginoso. L’Oriente è visto come un luogo di perdizione in cui l’uomo non riesce a dominare il suo lato animalesco e ingovernabile. Insomma un po’ come nei film western in cui ci sono “i nostri” e i selvaggi indiani.
Questa rappresentazione ferina del diverso fu poi assai utile alla politica e al colonialismo o meglio a giustificarne le nefandezze, quelle sì davvero diaboliche. Una specie d’esportazione coatta della democrazia ante litteram, della quale siamo ancora prigionieri.

Siamo tutti un po' John Wayne, qui in Occidente (smile).
Nella fattispecie a essere “diversi” sono i Filistei: la seduttrice Dalila, Abimelech, il Gran Sacerdote di Dagon.
Da un lato quindi abbiamo le melodie rassicuranti e l’aspetto nobile, sofferto e ieratico di Sansone e degli Ebrei, dall’altro le musiche sinuose e sensuali che appartengono a Dalila, quando non addirittura i tratti quasi demoniaci degli altri ministri del culto, non a caso affidati alle voci gravi maschili, come da tradizione musicale soprattutto francese.
Dalila, infatti, quando deve sedurre Sansone gli si rivolge con un linguaggio (leggi una melodia) rassicurante, del tutto diverso da quella “di conversazione” che adopera nei dialoghi con i suoi simili.
Insomma un’opera piuttosto mobile ed eterogenea, in cui gli unici momenti di stanchezza compositiva-a mio parere- si ravvisano nel Baccanale che comunque è uno dei pezzi più famosi dell’opera.
Ovviamente, per la consueta regola del nemo propheta in patria, la fatica di Saint Saëns raggiunse il successo prima all’estero: il debutto avvenne nel 1877 in Germania grazie agli auspici nientemeno che di Liszt, e poi appena nel 1890 in Francia.

A Saint Saëns va quindi il merito d’aver saputo coesistere con un certo equilibrio tutte queste pulsioni artistiche diverse in un lavoro che è per certi aspetti veramente tradizionale e allo stesso momento piuttosto all’avanguardia per i tempi.
Il compositore francese, a dimostrazione del fatto che sapeva e voleva guardare avanti, fu uno dei primi a scrivere musica per il cinema (1908, L’assassinat du Duc de Guise).
Si potrebbe dire che non si rese conto di collaborare col nemico, perché proprio il cinema è storicamente in cima alla classifica dei serial killer che hanno cercato, per ora senza riuscirci, di trucidare l’opera lirica (strasmile).
Alla prossima, buona settimana a tutti.

Samson et Dalila al Teatro Verdi di Trieste: prima incursione più semiseria del solito.

Il terzo titolo della stagione operistica del Teatro Verdi di Trieste è Samson et Dalila, di Camille Saint Saëns.

Già so che questo post piacerà (spero!) al mio amico Giuliano.
Un po’ in anticipo, la prima è il 18 febbraio, lancio il mio primo sguardo semiserio su questa coppia di fatto (ma anche di fatti, volendo, smile), che risulterà questa volta un po’ sguincio perché approfondendo l’argomento come fa (o dovrebbe fare) il bravo critico musicale mi ha incuriosito molto il rilievo che ha avuto la figura di Sansone (ma anche Dalida) negli spettacoli più popolari.
Così magari accontento anche alcuni miei lettori storici che si lamentano di non poter intervenire (smile).
Negli anni in cui Saint Saëns componeva l’opera, siamo nella seconda metà dell’ottocento e il lavoro esordì nel 1877, uno dei divertimenti più in voga tra il popolo era il circo.
Tigri, leoni, esotismi vari, si succedevano nelle tournée delle compagnie circensi più famose tra le quali spiccava quella di Phineas Taylor Barnum (The greatest show on Earth lo definiva egli stesso, con impagabile modestia, smile).
Ebbene nell’ambito di questi spettacoli non mancava quasi mai il numero “Sansone e i Filistei”, in cui il forzuto di turno tirava giù qualche tempio, qualche casa e, immagino io, visto che non credo che la sicurezza sul lavoro fosse una priorità, anche qualche bestemmia (strasmile).
Quindi se da una parte, quella del teatro lirico-frequentato dalla borghesia-, la figura di Sansone risultava drammatica e ieratica allo stesso tempo, come vedremo nei prossimi post, dall’altra-il circo, dove il pubblico era più autenticamente popolare- si assisteva a una specie di smitizzazione, per non dire ridicolizzazione, di questa nobile figura.
Peraltro, questo Sansone è davvero uno che si presta alle prese in giro, diciamolo (smile).
Qualche decennio più tardi, ad affiancare e poi superare il circo nelle preferenze del pubblico arrivò il cinema.
Ovviamente il soggetto biblico di Sansone e Dalila non poteva passare inosservato e quindi si spiega il fiorire di molti film, in Italia e non solo, sulla vicenda.
Anzi, con il primo Sansone interpretato da Luciano AlbertiniLuciano Albertini nel 1918 (famoso per un film dell’anno precedente, La spirale della morte, che doveva il titolo a un numero che l’attore acrobata eseguiva appunto in circo) si dà quasi il via a un genere, quello del forzuto più o meno mitologico: Ursus, Maciste, Ercole ecc ecc.
Pensate che solo il nostro Albertini interpretò, nell’ordine:

  1. Sansone contro i Filistei (1918)
  2. Sansone muto o Il mistero delle vetrerie (1919)
  3. Sansone e la ladra d’atleti (1919)
  4. Sansone e i rettili umani (1920)
  5. Sansone burlone (1920)
  6. Sansone l’acrobata del Kolossal (1920)

 
Speriamo che il regista del Samson et Dalila che s’allestisce a Trieste, Michal Znaniecki, non proponga un audace mix di questi film (strasmile)!
 
La prima Dalila sul grande schermo fu invece Maria Korda maria_kordaaccanto al Sansone di Alfredo Boccolini, già prestigioso interprete di Galaor contro Galaor (smile!).
Per concludere questa divertita e limitata carrellata cinematografica non si possono dimenticare i più celebrati Sansone e Dalila dello schermo, quelli che immagino siano impressi a fuoco nell’immaginario collettivo della maggioranza di tutti noi piccini, e cioè Victor Mature e Hedy Lamarr.
I due grandi divi hollywoodiani, in questo film (Samson and Delilah) agli ordini del regista Cecil Blount De Mille furono il bersaglio di una battuta di Groucho Marx, che disse testualmente:
 
 
È l’unico film che abbia visto dove le tette del protagonista sono più grandi di quelle della star.

Mature-Lamarr

 
Una sentenza, ma bisogna dire che il buon Victor Mature appare leggermente in sovrappeso, nel film…
Un saluto a tutti (strasmile).