Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Concerto di Natale al Teatro Verdi di Trieste: poche luci e molte, troppe ombre

I concerti natalizi e di fine anno, ovunque, sono accomunati da caratteristiche simili: lo stile è nazionalpopolare, i teatri sono addobbati a festa, politici e dirigenti si esibiscono in coacervi di luoghi comuni e pagine musicali eterogenee convivono a forza in programmi insensati, il pubblico applaude più o meno coinvolto e se ne va. È stato così anche a Trieste? La risposta è ni.
Non c’era l’ombra di un politico – non è un male – non c’era alcun dirigente del teatro (male), il programma era insensato al top, il pubblico più che plaudente e stanco non c’era o quasi e quelli che c’erano hanno applaudito sì con moderazione ma anche con convinzione in alcuni casi. Il teatro era spoglio, senza decori a parte un vaso di fiori non meglio identificato a lato del palcoscenico. Ora, è pur vero che non sono un critico di addobbi natalizi e non brillo per savoir-faire, ma forse qualcosa di più si poteva fare.
Si è cominciato con una novità, o meglio, un esperimento: due brani di Giovanni Gabrieli, compositore e organista vissuto nella seconda metà del 1500 arrangiati per dodici ottoni dal Primo trombone dell’orchestra triestina: l’ottimo Domenico Lazzaroni. Risultato: rivedibile, almeno a mio gusto, che non ho colto – ignoranza mia – altro merito che l’apertura di una strada che forse potrebbe produrre risultati interessanti in altre occasioni e che è invece ampiamente percorsa in diverse realtà mitteleuropee.
L’Orchestra del Verdi, diretta fiaccamente da Jacopo Brusa, ha dato prestazioni di sé più positive. Voglio dire che se l’Intermezzo di Cavalleria annoia e non emoziona…beh, qualcosa non ha funzionato. Se L’Ouverture delle Nozze di Figaro è scivolata via piatta, al pari di una soporifera Sinfonia dal Barbiere di Siviglia qualche problema c’è stato. Sono solo esempi, ma credo che una guida più appropriata sarebbe stata utile.
C’erano poi i solisti e, spiace dirlo, il basso Viacheslav Strelkov – forse non in perfetto stato di salute, peraltro non annunciato – non è stato all’altezza di un pubblico pagante. Non ci si presenta sul palco per cantare il duettino Là ci darem la mano con lo spartito; è una mancanza di rispetto per gli spettatori di chi ha approvato una simile scelta. Sospendo il giudizio sulle altre due arie di Rossini e Mozart.
Per fortuna, subito dopo si è esibita Marina Comparato nella cavatina di Rosina e finalmente abbiamo ascoltato una cantante vera e soprattutto un’Artista in gran forma, anche se impegnata in un repertorio che ormai frequenta poco. Il mezzosoprano ha poi confermato classe e professionalità sia nella Barcarola da Les contes d’Hoffman sia nell’aria di Fenena da Nabucco, interpretate con garbo e civilissima teatralità.
Brava anche Claudia Mavilia, che ha ben impersonato Zerlina e che ha cantato diligentemente le note di Mimì, ma dell’eroina pucciniana non ha il peso vocale né la maturità artistica per affrontare la parte neanche in concerto.
Buona la prestazione di Andrea Schifaudo, accorato Nemorino e divertito Arlecchino nella Serenata da Pagliacci: voce chiara, solare, buona dizione hanno confermato un rendimento più che sufficiente.
Alla fine due bis corelliani programmati e francamente non richiesti dal pubblico ci hanno fatto ricordare, più che altro, che a Trieste non ascoltiamo il Barocco da una vita.

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Recensione semiseria e considerazioni a latere del Concerto di Capodanno al Teatro Verdi di Trieste: Freddie Mercury, perdonaci.

Ma non perdonare il nostro quotidiano, Il Piccolo, che al Concerto di Capodanno della maggiore realtà della regione ha dedicato questo importante ed esauriente articolo:

Si è rinnovato ieri anche l’appuntamento beneaugurale con il Concerto di Capodanno della Fondazione Teatro Lirico Verdi di Trieste, con l’Orchestra diretta dal maestro Fabrizio Maria Carminati, il Coro diretto dal maestro Francesca Tosi e i tecnici dell’ente . In programma le musiche di Johann Strauss.
(c’era anche una mini-foto)


Ecco, tanto per cominciare bene l’anno e visto che è stato l’articolo più letto anche nel 2019, vi allego la triste storia di Capricornina78.
E auguri a tutti (strasmile). Leggi il resto dell’articolo

Lo strano dittico Gianni Schicchi – Cavalleria rusticana al Teatro Verdi di Trieste: tè e pasticcini.

Beh, dopo aver mangiato (meglio, cercato di mangiare con un aggeggio assurdo) un dolcetto giapponese alla Cerimonia del tè, mi sono sorbito anche il dittico Gianni Schicchi/Cavalleria rusticana al Verdi.
Necessito di un digestivo Antonetto, ora (strasmile).
Serata…un po’ così, ecco.te2 Leggi il resto dell’articolo

L’amico Fritz di Pietro Mascagni al Teatro La Fenice di Venezia.

Questa volta l’orrida Venezia si è segnalata più che altro per il tasso di umidità equatoriale e per un favoloso incidente tra un americano con un trolley gigante e una mega carrozzina che menava due gemelline autoctone, che assomigliavano in modo inquietante a quelle di Shining. Le ruote dei due mezzi si sono incastrate sul pontile che porta a un vaporetto e ne è uscita una versione in realtà aumentata della prossima guerra mondiale.gemelle
Ma, per tradizione, l’apertura dei post dalla città lagunare deve aprirsi con qualche tragica notizia sui volatili, no? Ebbene questa volta i terribili gabbiani assassini devono cedere il passo alla notizia che a Trieste è in corso la rivolta delle cornacchie antropofaghe giganti. E credo che il cognome della sfortunata signora coinvolta non sia casuale. Aspettiamoci il peggio, ormai non abbiamo più scampo (strasmile).
E passiamo all’ordinaria amministrazione e cioè agli esiti artistici della serata alla Fenice. Leggi il resto dell’articolo

Recensione semiseria dell’Amico Fritz di Pietro Mascagni al Teatro Verdi di Trieste: tra mostri e apparizioni varie sono avanzate le ciliegie. Daniela Mazzucato resta la migliore in campo.

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Sì, lo so che non è un bel modo di cominciare una recensione, per quanto semiseria, di un’opera lirica.

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L’amico Fritz di Pietro Mascagni al Teatro Verdi di Trieste: le 10 cose semiserie da sapere e un ascolto un po’ stravagante.

Arrivo un po’ trafelato a scrivere qualcosa sull’Amico Fritz di Pietro Mascagni che debutterà domani al Teatro Verdi di Trieste.

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Recensione semiseria di Pagliacci e Cavalleria rusticana alla Scala di Milano: AAA tenori cercasi!

Serata dall’esito contrastato alla Scala di Milano per il dittico Cavalleria-Pagliacci.

Premetto che ho seguito l'opera in televisione, su RAI5.

La regia di entrambe le opere è stata firmata da Mario Martone che non ha lasciato certo un segno indelebile.
Pagliacci rimestati nella solita salsa vista e stravista mille volte, senza un’identità precisa, ambientati suppongo in un generico presente (c’era un’automobile in scena) e considerevolmente intristiti da costumi, a cura di Ursula Patzak, da trovarobato squallido. Luci insignificanti di Pasquale Mari e scene banali di Sergio Tramonti.
Spero che non ci sia ancora qualcuno che faccia buon viso allo stantio gioco del presunto metateatro, solo perché il tenore punta il coltello alla gola ad uno spettatore che stava in un palco vicino al proscenio.
Dal punto di vista vocale questi Pagliacci sono stati un disastro, perché a cantare discretamente sono stati in due su cinque.
Pessima, indecente, la prestazione di José Cura, il tenore che ha interpretato Canio, una sofferenza per chiunque ami la lirica. Ululati, cachinni, stonature, tutto il campionario di quello che non si vorrebbe sentire da un cantante. Una sbobba indecorosa e indigesta, sulla quale non dico nulla di più perché non vale neanche la pena che mi sprema per descriverla.
Poco meglio il soprano Oksana Dyka, che però mi ha dato al sensazione di non aver idea di cosa stesse cantando, tanto era monotona nel fraseggio e piatta nell’accento. E Nedda, al contrario, è personaggio vivo che esprime lacerazioni interiori e sentimenti forti.
Voce anonima e acuti gridati e presenza scenica tendente allo zero. Vabbè.
Ambrogio Maestri discreto Tonio sia vocalmente sia dal lato attoriale, anche se certo non si può affermare che tratteggi un personaggio memorabile. Bene il Prologo, seppure cantato tutto forte.
Forse poteva evitarci qualche effettaccio, ma in un’opera come questa ci può stare, forse.
Male anche il baritono Mario Cassi, un Silvio spesso stonato e calante, del quale si può innamorare solo una patata lessa come la Nedda di stasera. Povera, tra Canio e Silvio era messa proprio male (strasmile).
Abbastanza buona la prova di Celso Albelo quale Beppe/Arlecchino, che è parso, a confronto del resto della compagnia di canto, una specie di divinità canora.
Davvero splendida la direzione di Daniel Harding, perché ha dimostrato che si può dirigere un’opera come Pagliacci senza ricorrere a clangori e spargere retorica ridondante ad ogni nota. Anzi, proprio nei momenti più drammatici è risultato asciutto ma vigoroso e pure nell’accompagnamento ai cantanti (si fa per dire) si è dimostrato sobrio, mai prevaricante. Merito anche di un’Orchestra della Scala magnifica, che evidentemente, un po’ come tutte le orchestre, ha bisogno di una personalità forte sul podio per rendere al meglio.
Il pubblico ha contestato vivacemente tutti, prendendosela in particolare con Cura, salvando inspiegabilmente Massi e fischiando stupidamente Harding. I fischi al direttore sono stati uno scandalo vero e proprio.
Le cose sono andate meglio in Cavalleria rusticana.
In questo caso la regia di Martone e il lavoro dei suoi collaboratori (gli stessi dei Pagliacci) mi ha convinto. Molto belle le luci, appropriati i costumi, scene dignitose. Un allestimento tradizionale ma con una personalità piuttosto marcata.
Il Turiddu di Salvatore Licitra non è stato, per usare un eufemismo, particolarmente convincente. Il tenore ha una voce assai bella ma a me sembra inerte dal lato interpretativo e vocalmente sempre al limite (e qualche volta oltre) dell’urlo. Ci si potrebbe addentrare in speculazioni tecniche ma non mi pare il caso. Diciamo che per ora continua a sfruttare il capitale che madre natura gli ha regalato, con risultati alterni.
E poi, caro Salvatore, non si può dire Francoforte invece di Francofonte, dai!

Nel complesso brava Luciana D’Intino, anche se la parte di Santuzza non le si addice nonostante ce l’abbia in repertorio da molto. Spesso gli acuti erano ghermiti e la sensazione di fatica piuttosto evidente. Il personaggio però è centrato ed esce piuttosto bene.
Claudio Sgura mi è sembrato sottotono ma non ha certo sfigurato. C’è da considerare che Compar Alfio non offre il destro per particolari introspezioni, è un personaggio semplice, lineare.
Per me Elena Zilio, Mamma Lucia, era impresentabile. Nessuno nega il suo passato ma ormai può fare solo qualche comparsata che non preveda difficoltà vocali, suvvia.
Discreta Giuseppina Piunti nei panni di Lola.
Harding anche in questo caso mi è piaciuto molto, specialmente nell’Intermezzo, mentre l’Orchestra della Scala ha presentato qualche sbavatura negli archi: nulla d’irrimediabile.
Molto bene sia in Cavalleria sia in Pagliacci il Coro della Scala.
Il pubblico ha fischiato, giustamente, Licitra, e applaudito senza troppi entusiasmi il resto della compagnia di canto. Molto festeggiato pure Harding, per fortuna.
Contestata piuttosto vivacemente la regia di Martone, non so se più per i Pagliacci o per Cavalleria Rusticana.
Una piccola chiosa sulla regia televisiva: non male, però i primi piani nella lirica sono sempre a rischio. Stasera Ambrogio Maestri ha esalato un catarro di dimensioni ragguardevoli e non sono cose belle (smile).
Bene, buonanotte! 
P.S.
Scritto in fretta, segnalate errori che poi domani, anzi oggi, correggo.

Il dittico Cavalleria Rusticana e I pagliacci alla Scala di Milano: la prima salta per sciopero.

Avevo appena pubblicato il post ed ecco che sul sito della Scala è comparsa la conferma dello sciopero. Se ne riparla martedì 18, quindi.

Domenica prossima, al Teatro Alla Scala di Milano, dovrebbe  essere di scena il dittico Cavalleria Rusticana e I pagliacci, che incredibilmente manca nel teatro milanese da trent'anni.

Scrivo dovrebbe, perché le possibilità che la prima salti per sciopero (ovviamente per le note vicende dei tagli alla cultura di questo governo) è molto alta. Vi terrò aggiornati, anche perché la recita sarà trasmessa (anche in streaming? Non si sa e dopo la figura pessima della volta scorsa non mi va di fare previsioni) sul nuovo canale digitale RAI5 dalle ore 20.
Nonostante un cast non entusiasmante che si distingue solo per la presenza dell’ottimo direttore Daniel Harding (il grande ed esigente Daland, di cui mi fido ciecamente, ne dice qui assai bene), l’attesa tra gli appassionati è piuttosto alta. Insomma, sono opere popolari nella migliore accezione del termine e appartengono a quel periodo culturale noto come verismo.
I lavori sono effettivamente contemporanei, Cavalleria di Mascagni debuttò nel 1890, Pagliacci di Leoncavallo nel 1892.
Entrambi i compositori fanno parte di quella che è chiamata la Giovane Scuola, una corrente musicale che ha dominato per un decennio e che presenta alcune caratteristiche comuni e anche molti luoghi comuni, il più fastidioso dei quali è che le opere debbano essere cantate con la bava alla bocca, digrignando i denti e urlando come bestie. E in effetti molto spesso i cantanti cadono in quest’errore, con risultati rivedibili.
Una cosa è essere vigorosi, incisivi, ben altra essere sguaiati e volgari.
Per fortuna, nella discografia soprattutto, c’è sempre qualche esempio chiarificatore.
E proprio ai dischi ricorro questa volta per la mia breve presentazione delle opere in questione, non prima di farvi vedere come si presentava il Cortile delle Milizie del Castello di San Giusto nel 1937, proprio in occasione di una Cavalleria Rusticana.
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Come potete vedere, un delirio di folla tra la quale si nascondeva anche il mio papà che mi ha da poco lasciato, allora tredicenne.
Dal punto di vista discografico, dicevo, c'è un'incisione di riferimento assoluto, dalla quale non si può prescindere pur nel rispetto dei gusti personali e, guarda caso, quest'incisione porta la firma di tale Herbert von Karajan. Destino cinico e baro, quello dei direttori davvero grandi, e cioé di essere sempre una specie d'aggregante di talenti, un marchio di fabbrica di qualità.
In entrambe le opere Karajan lavora con l'Orchestra e il Coro del Teatro alla Scala di quei tempi, che erano compagini di livello stratosferico.
E allora ecco che la musica scorre carica di sensualità senza che ci sia mai neanche il sospetto di volgarità. Allo stesso tempo le pagine più patetiche non risultano mai lacrimevoli e zuccherose, ma sono sempre ammantate di una scabra dignità popolare oggi perduta, travolta dall'esibizione coatta del dolore televisivo.
Certo, in entrambe le opere va in onda l'omicidio efferato, ma quasi ce ne scordiamo.
Dopo il direttore, protagonista assoluto è il tenore Carlo Bergonzi che interpreta le parti di Turiddu e Canio e addirittura, a mio personalissimo parere, ci lascia le sue prove migliori in assoluto e lo fa proprio perché affronta personaggi che sembrano lontani dal suo repertorio d'elezione, che è quello verdiano.
La registrazione è del 1965, nel pieno della maturità dell'artista che doveva essere in un periodo di forma straordinario, come si può facilmente constatare dall'ascolto di contemporanee registrazioni dal vivo. Acuti eccellenti, dizione più a posto del solito e un fraseggio e un accento memorabili.
Nei Pagliacci poi abbiamo anche il miglior Tonio di sempre (parere mio, ovvio) e cioé uno spettacolare Giuseppe Taddei che canta un Prologo da brividi.
Bravi anche Rolando Panerai (Silvio) e Ugo Benelli (Beppe).
Ad un livello inferiore si pone la caratterizzazione di Joan Carlyle nei panni della sfortunata Nedda, ma probabilmente la prestazione impressionante degli uomini ne evidenzia i limiti d'accento.
In Cavalleria da rilevare l'eccellente prova di Fiorenza Cossotto quale Santuzza. La temperamentosa artista (spesso criticata, a ragione, per una certa tendenza a strafare) qui tratteggia un personaggio davvero magnifico, dignitoso nella certezza del tradimento ma essenziale, dal dolore trattenuto e sorvegliato e mai sfacciatamente esibito.
Rilevante anche la prestazione di Gian Giacomo Guelfi, il baritono che interpreta Compar Alfio.
Quindi, in attesa di aggiornamenti (sia per lo sciopero sia per la trasmissione via web) che vi darò in neretto all'inizio del post, ci rileggiamo per la recensione semiseria.
Buon fine settimana a tutti.

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