Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Archivi Mensili: dicembre 2008

Paolo, datemi pace!

Bene, dopo le polemiche paurose (ma tutto sommato stimolanti) di questi giorni, ora è il caso di passare ad altro, almeno per me.
Altro si fa per dire, perché sempre di musica si tratta.
Nella vita sono un inguaribile pessimista e di ciò mi sono grati, come potete immaginare, amici e parenti, che dovrebbero chiamarmi come un famoso giocatore di basket americano che approdò a Trieste mi pare nel 1981: Marvin Barnes, detto Bad News.
Certo io non ho il suo talento, ma in quanto a combinare guai… (strasmile)
Quando vado in teatro invece, nonostante alcuni mi abbiano detto e scritto che sono troppo cattivo nelle recensioni, cerco di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno.
Allora, questa piccola composizione che vedete qui sotto e sul cui valore artistico e creativo v’invito cortesemente a sorvolare, rappresenta il mio 2008 dal lato musicale.

Albero di Natale.

Sono 20 (mi pare) libretti di sala di allestimenti operistici. Spesso ho visto anche i secondi cast e ad alcune recite sono tornato per piacere personale, per cui ho calcolato che ho passato una sessantina di serate a teatro, quest’anno.
Il miglior augurio che posso fare a me stesso è di passarne almeno altrettante l’anno prossimo e di continuare qui la mia divulgazione semiseria dell’opera lirica.
Spero di avere l’opportunità di scrivere ancora su Rotocalco e Stanze all’aria, due posticini tranquilli e a misura d’uomo.
Voglio lasciare un saluto particolare a Bea, perché insieme abbiamo fatto una cosa bella, e un altro a Marina, perché mi ha ispirato un’altra cosa bella. (loro sanno di che parlo, non siate curiosi!)
A tutti voi invece, che mi seguite con una costanza che non finisce di sorprendermi, auguro serenità, salute e di non incontrarmi mai di persona, ché si perde tutta la poesia, poi. (strasmile)
Soprattutto mi auguro di non sentirmi mai dire la frase che dà il titolo al post, tratta da quella Francesca da Rimini che purtroppo a Trieste è stata sospesa per i noti tagli del Governo al FUS. (e non dico altro, ok)
All’anno prossimo, se dio vuole, come dice sempre una mia carissima amica.
Ciao a tutti.

Uto Ughi e Giovanni Allevi, parte seconda: la risposta di Allevi.

Com’era prevedibile e auspicabile, Giovanni Allevi ha risposto a Uto Ughi.

La querelle sembra destinata a continuare, anche se a me sembra che entrambi i contendenti usino un linguaggio eccessivamente retorico e magniloquente.

Certo, se Ughi è stato molto violento e chiaro, pure Allevi non scherza e la butta un po’ sul patetico. [il richiamo all’autografo è infantile, diciamolo, sembra melodramma puro (strasmile)]

Personalmente mi dà molto fastidio il tono da salvatore del mondo e profeta che Allevi si autoconferisce.

Boh. Vedete voi.

Uto Ughi e Giovanni Allevi.

Quando ho finito di leggere lo sfogo-intervista di Uto Ughi su “La Stampa”, mi sono posto qualche riflessione.
La prima cosa che mi sono chiesto è stata: “Da che parte sto?”
La risposta è né con Ughi né con Allevi.
Se non ci sono questioni personali che non conosco, ed è bene ipotizzarlo perché non sarebbe la prima volta che occasioni pubbliche sono sfruttate per dipanare affari privati, l’attacco di Ughi a Allevi è esagerato, livoroso, ma anche, in qualche modo, giustificato.
Allevi è un musicista che ha un seguito formidabile, mi si dice. Io lo conosco poco e perciò non me la sento di formulare giudizi su di lui.
Una circostanza però appare evidente.
In un’occasione speciale come il concerto di Natale al Senato della Repubblica, non è Allevi che deve essere il protagonista.
Mi sembra sia una scelta dettata solo da motivi di bassa opportunità fatta da una classe politica che della cultura musicale vera non conosce nemmeno l’esistenza.
È la stessa classe politica della programmazione sistematica dei tagli alla cultura e a tutto ciò che non può garantire un immediato ritorno in termini di voti e consenso.
Però è giusto anche sottolineare, come fa Uto Ughi, che Allevi non rappresenta la musica italiana, né quella passata né quella futura.
Ughi poi, per avvalorare le proprie ipotesi, tira in ballo anche Andrea Bocelli, e qui, almeno secondo me, sbaglia e di molto.
Bocelli, sulla cui autentica passione per la musica lirica non nutro alcun dubbio, è per certi versi estremamente più dannoso di Allevi, perché agli occhi del pubblico incompetente (che non è un insulto, io sono incompetente come pochi nella Pittura o nella Scultura) è un cantante lirico e, infatti, ha cantato e canterà in teatri d’opera. Ma Bocelli non può e non deve esibirsi in teatro, perché non è un cantante lirico, non ne ha le caratteristiche, al di là di una voce genericamente impostata, come può avere un qualsiasi benemerito corista d’oratorio.
Per farsi sentire negli spazi di un teatro ha bisogno di un microfono e se non lo usa succede come nel recente allestimento della Carmen a Roma, dove è stato subissato di fischi perché la sua voce non si percepiva, coperta dall’orchestra e dai colleghi cantanti.
Allevi è un fenomeno musicale di massa transitorio e come tale viene sfruttato, all’insegna del panem et circenses, non fa certo parte di un progetto virtuoso e ambizioso di ampio respiro.
È legittimo che Allevi piaccia a molti, è invece strumentale la volontà di eleggerlo a musicista di riferimento storico culturale.

Giacomo Puccini per tutti noi.

Oggi, ovunque nel mondo ed evidentemente non in Italia, si ricorda la nascita di Giacomo Puccini.
Nacque a Lucca, il 22 dicembre 1858.
 
 
Non aspettatevi da me una dotta disquisizione sull’Arte del Maestro, non sono il tipo e non sono all’altezza.
E poi, sono proprio in occasioni come queste che credo si debba fare divulgazione, magari non troppo semiseria, raccontando esperienze personali e non sciorinando dati tecnici o tecnicistici.
Allora, partendo dal presupposto che Puccini è uno dei Compositori più capaci di giungere al cuore degli appassionati, voglio rivelare qui sul blog qual è il momento che più mi emoziona della sua musica.
È l’ultima parte della terza scena del terzo atto di Tosca.
La riporto integralmente, comprese le indicazioni del libretto, perché non c’è modo migliore per farla apprezzare a chi vuole lasciarsi trasportare in questo mondo magico.
 
 
Tosca – Cavaradossi
 
(Tosca che in questo frattempo è rimasta agitatissima,
vede Cavaradossi che piange: si slancia presso a lui,
e non potendo parlare per la grande emozione
gli solleva con le due mani la testa, presentandogli in pari tempo il salvacondotto:
Cavaradossi, alla vista di Tosca, balza in piedi sorpreso,
legge il foglio che gli presenta Tosca)
 
 
 
CAVARADOSSI
(legge)
Franchigia a Floria Tosca…
… e al cavaliere che l’accompagna.
 
TOSCA
(leggendo insieme a lui con voce affannosa e convulsa)
… e al cavaliere che l’accompagna.
(a Cavaradossi con un grido d’esultanza)
Sei libero!
 
CAVARADOSSI
(guarda il foglio; ne vede la firma)
(guardando Tosca con intenzione)
Scarpia!…
Scarpia che cede? La prima
sua grazia è questa…
 
TOSCA
E l’ultima!
 
(riprende il salvacondotto e lo ripone in una borsa)
 
CAVARADOSSI
Che dici?
 
TOSCA
(scattando)
Il tuo sangue o il mio amore
volea… Fur vani scongiuri e pianti.
Invan, pazza d’orror,
alla Madonna mi volsi e ai Santi…
L’empio mostro dicea: già nei
cieli il patibol le braccia leva!
Rullavano i tamburi…
Rideva, l’empio mostro… rideva…
già la sua preda pronto a ghermir!
"Sei mia!" – Sì. – Alla sua brama
mi promisi. Lì presso
luccicava una lama…
Ei scrisse il foglio liberator,
venne all’orrendo amplesso…
Io quella lama gli piantai nel cor.
 
CAVARADOSSI
Tu!?… di tua man l’uccidesti? – tu pia,
tu benigna, – e per me!
 
TOSCA
N’ebbi le man
tutte lorde di sangue!
 
CAVARADOSSI
(prendendo amorosamente fra le sue le mani di Tosca)
O dolci mani mansuete e pure,
o mani elette a bell’opre e pietose,
a carezzar fanciulli, a coglier rose,
a pregar, giunte, per le sventure,
dunque in voi, fatte dall’amor secure,
giustizia le sue sacre armi depose?
Voi deste morte, o man vittoriose,
o dolci mani mansuete e pure!…
 
TOSCA
(svincolando le mani)
Senti… l’ora è vicina; io già raccolsi
(mostrando la borsa)
oro e gioielli… una vettura è pronta.
Ma prima… ridi amor… prima sarai
fucilato – per finta – ad armi scariche…
Simulato supplizio. Al colpo… cadi.
I soldati sen vanno… – e noi siam salvi!
Poscia a Civitavecchia… una tartana…
e via pel mar!
 
CAVARADOSSI
Liberi!
 
TOSCA
Chi si duole
in terra più? Senti effluvi di rose?!…
Non ti par che le cose
aspettan tutte innamorate il sole?…
 
CAVARADOSSI
(colla più tenera commozione)
Amaro sol per te m’era morire,
da te la vita prende ogni splendore,
all’esser mio la gioia ed il desire
nascon di te, come di fiamma ardore.
Io folgorare i cieli e scolorire
vedrò nell’occhio tuo rivelatore,
e la beltà delle cose più mire
avrà sol da te voce e colore.
 
TOSCA
Amor che seppe a te vita serbare,
ci sarà guida in terra, e in mar
nocchier…
e vago farà il mondo riguardare.
Finché congiunti alle celesti sfere
dileguerem, siccome alte sul mare
a sol cadente,
(fissando come in una visione)
nuvole leggere!…
(rimangono commossi, silenziosi:
poi Tosca, chiamata dalla realtà delle cose, si guarda attorno inquieta)
E non giungono…
(si volge a Cavaradossi con premurosa tenerezza)
Bada!… al colpo egli è mestiere
che tu subito cada…
 
CAVARADOSSI
(triste)
Non temere
che cadrò sul momento – e al naturale.
 
TOSCA
(insistendo)
Ma stammi attento – di non farti male!
Con scenica scienza
io saprei la movenza…
 
CAVARADOSSI
(la interrompe, attirandola a sé)
Parlami ancora come dianzi parlavi,
è così dolce il suon della tua voce!
 
TOSCA
(si abbandona quasi estasiata, quindi poco a poco accalorandosi)
Uniti ed esulanti
diffonderem pel mondo i nostri amori,
armonie di colori…
 
CAVARADOSSI
(esaltandosi)
Armonie di canti diffonderem!
 
TOSCA e CAVARADOSSI
(con grande entusiasmo)
Trionfal, di nova speme
l’anima freme in celestial
crescente ardor.
Ed in armonico vol
già l’anima va
all’estasi d’amor.
 
TOSCA
Gli occhi ti chiuderò con mille baci
e mille ti dirò nomi d’amor.
 
Qui Franco Corelli e Leontyne Price, in un’infuocata recita al Metropolitan di New York, il 7 aprile 1962, da “Amaro solo per te”
Buon ascolto.
 
 
 
 

O don fatale!

Siamo tutti logorroici, io per primo.
Se poi pensiamo al duplice significato di lògos , pensiero e parola, dovremmo fare ammenda pubblica e dichiarare che il collegamento cervello-bocca è spesso accidentato.
Ma se sovente non pensiamo a quello che diciamo o parliamo senza pensare, la nostra attenzione dovrebbe essere ancora maggiore quando scriviamo, perché purtroppo ne rimane testimonianza inequivocabile: un don fatale, quello della scrittura, come la bellezza per Eboli.
Io credo che la logorrea sia una malattia contagiosa e che invisibili untori ci abbiano appestato mentre, ignari, stavamo dormendo.
I più malati poi fanno i politici di professione.
Ecco, io interpreto l’evidente disaffezione alla politica come una fuga dalle parole malate, di chi spera ancora di poter guarire da un male che non perdona.
Una risata vi seppellirà disse qualcuno.
Non è un caso, credo, che la risata sia provocata da una battuta, che deve essere per sua natura concisa , altrimenti non funziona.
Una persona spiritosa è quasi sempre intelligente, perché vede la realtà da una prospettiva diversa, o perlomeno inconsueta.
È per questo che i politici, malati terminali di logorrea, temono gli umoristi e li censurano, perché sanno che una battuta di spirito azzeccata può seppellirli per sempre.
Il mondo della lirica è visto, dagli inesperti, come un luogo serioso e noioso.
In realtà anche noi melomani ogni tanto ci dilettiamo in qualche battuta, e spesso qui sul blog ne ho riportata qualcuna.
Provo allora a sintetizzare, con un po’ d’ironia, la morale che si può dedurre dalla trama di alcune opere liriche famose, che quasi sempre finiscono con omicidi, suicidi, stragi o tutti questi disastri insieme. (strasmile)
Alcune battute, diciamo così, sono mie, e si riconosceranno facilmente perché non fanno ridere, altre me le rivendo, perché le ho sentite in giro.
 
L’Orfeo: mai guardarsi indietro.
Don Giovanni: chi dice donna, dice danno.
La Traviata: ma guarda quella puttana, sta morendo e canta ancora.
Rigoletto: chi cazzo ha detto che i gobbi portano fortuna?
Il trovatore: gli zingari sono sempre stati un problema.
Otello: mai fidarsi di un razzista.
Un ballo in maschera: a carnevale, ogni scherzo vale.
Macbeth: questi fantasmi!
La Boheme: L’Arte non solo non paga, ma si rischiano pure malattie.
La sonnambula: sì come no, raccontala a un altro.
Madama Butterfly: I treni non sono puntuali, ma anche le navi non scherzano.
Carmen: le more mantengono ciò che le bionde promettono.
Tosca: la burocrazia uccide.
 
 
È un giochetto che si può fare anche con i romanzi o i film, i contributi sono ben accetti.
Ecco, ora che ho lasciato testimonianza inequivocabile della mia stupidità, auguro a tutti una serena settimana. (smile)
 
 

Don Carlo di Verdi: cast alternativi.

Mi è stato chiesto da più persone, in privato, di indicare un cast per un Don Carlo(s) all’altezza della prima alla Scala di Milano.
Devo fare subito un paio di riflessioni, che forse appariranno banali agli appassionati ma non lo sono certo per i lettori meno esperti.
Per cominciare io sono dell’opinione che il cast che si esibisce attualmente a Milano non sia affatto male, pur nel rimpianto di non aver potuto sentire Giuseppe Filianoti quale Don Carlo e con l’unica eccezione negativa e legata al personaggio del Grande Inquisitore di Anatoli Kotscherga.
Poi, di che Scala stiamo parlando?
Perché, il Teatro alla Scala di Milano, per come è fissato nella memoria delle persone normali, cioè quelle che non sanno di musica lirica, non esiste più da un pezzo. È morto e sepolto, distrutto dall’incompetenza e dalla incapacità di programmare dei dirigenti che si sono avvicendati al comando del teatro milanese negli ultimi, diciamo, 25 anni.
La Scala non è più un teatro di riferimento nel panorama operistico attuale; ormai è diventato come un calciatore una volta famoso per straordinari meriti sportivi e ora ridotto a qualche comparsata nel reality più becero. Vive (?) di gloria e ricordi.
Gli artisti più affermati cantano in altri teatri: Zurigo, Vienna, Parigi, Londra, solo per citare i primi che mi sovvengono.
Gli spettacoli migliori, in Italia, si vedono in provincia o comunque in teatri dal prestigio meno universalmente riconosciuto: era bellissima La Rondine di Puccini eseguita a Trieste, per esempio, oppure l’Elektra di Richard Strauss alla Fenice di Venezia o a Firenze.
Potrei fare molti altri esempi.
Ora che ho chiarito questo punto, posso anche passare al toto Don Carlo ideale.
Le mie scelte sono ovviamente dettate dal gusto personale e dal mio desiderio, quando vado a teatro, di sentire un cantante e un interprete, e non un mero esecutore di note sul pentagramma.
Inoltre escludo i protagonisti in scena in questi giorni, evidentemente.
Allora.
 
Don Carlo: Marcelo Alvarez, Fabio Armiliato, Jonas Kaufmann e Roberto Alagna se cantasse con la sua voce e non con quella di una caricatura mal riuscita di Franco Corelli.
Elisabetta: Nina Stemme, Giovanna Casolla, Karita Mattila, Irina Makarova.
La Principessa Eboli: Violeta Urmana, Marianne Cornetti, Daniela Dessì (sentire il suo CD di arie verdiane, grazie!), Kate Aldrich.
Rodrigo: Carlos Alvarez, Peter Mattei, Angelo Veccia.
Filippo II: Kwangchul Youn,René Pape, Roberto Scandiuzzi se ce la fa ancora.
Il Grande Inquisitore: uno qualsiasi dei bassi qui sopra.
Direttore: Jeffrey Tate, Antonio Pappano, Zubin Mehta, Riccardo Muti.
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino.
 
Ecco, nel ricordarvi che sono ripresi gli appuntamenti con il Rotocalco di Fabrizio Rusconi e che qui c’è il mio contributo, auguro a tutti un sereno fine settimana.
 
 

Saper vorreste, di che si veste…

Non l’ho mai fatto, ma visto il clamoroso boom di visite di questi ultimi giorni, ringrazio di cuore tutti i miei lettori.
È incredibile che un blog artigianale che si occupa di musica lirica, scritto sì con passione ma nei ritagli di tempo e senza alcuna continuità, possa essere così seguito.
Come premio allego una mia foto recente, nella quale mi si vede nell’esercizio delle mie finzioni, poco prima cioè che iniziasse l’Otello al Teatro dell’Opera di Roma.
Nel frattempo, ho scritto una cosina per Stanze all’aria, così sono contenti pure quelli che amavano il "vecchio" Amfortas.
 
 
 
 
 

Recensione semiseria dell’Otello al Teatro dell’Opera di Roma.

La notizia rilevante è che dopo quarant’anni a Roma si rivede l’Otello di Verdi.
Quella volta il Moro fu interpretato da Mario Del Monaco, e probabilmente Silvana Pampanini era presente alla prima, come era inequivocabilmente presente anche sabato scorso la sua statua di cera semovente.
Non mi soffermo troppo sui dettagli gossipari della prima romana, ma una circostanza, almeno, la devo sottolineare: Renato Balestra ‘n se po’ vede’.
Ci dovrebbe essere una campagna di prevenzione anti lifting a livello nazionale, come si fa per gli incidenti stradali:
“Guardate che se vi fate il lifting vi ridurrete così!”
E sotto la foto di Balestra. (strasmile, e giuro che dal vivo è molto peggio)
Ingorgo clamoroso al guardaroba: dame, damine, damazze, damone e lacchè, potentati, finti potentati, quasi ministri e probabili futuri inquisiti tutti in fila per deporre l’ombrello e il cappotto, il cappello e la mantella: un delirio.
Due romane veraci, molto spiritose e altrettanto incasinate dovevano, nell’ordine: tenere a bada la folla, scrivere la ricevuta dell’avvenuto pagamento barrando una casella (cappotto, cappello ecc), far di conto, consegnare la contromarca e appendere i vestiti.
Mission impossible!
All’ennesimo “avoja” “ma che stai a di’ “bella pe’ te” qualche nobildonna era un po’ ingrugnita, ma io mi sono divertito da morire, specialmente quando un coglionazzo, perché per favore che nessuno cerchi di trovargli scuse, ha cercato di pagare il guardaroba (nel suo caso 2 euro) con una banconota da 500.
“Ao’ Cla’, allora ce stanno davero!” ha detto una delle due ragazze. (ultrasmile)
Ma vengo subito alle cose semiserie.
La prima sensazione è stata che tra il direttore, Riccardo Muti, e la compagnia di canto ci fosse la stessa differenza che c’è tra la Juventus e (non me ne voglia nessuno) una squadra di semiprofessionisti o poco più.
Muti ha una sua visione chiara dell’Otello e la sviluppa con determinazione: teatro lirico drammatico, che si esprime con tinte orchestrali forti e precise, specchio dei sentimenti violenti dei protagonisti.
Straordinari, in questo senso, molti momenti: la tempesta iniziale, il “fuoco di gioia”, l’accompagnamento al duetto del primo atto, il “Credo” di Jago, il monologo del terzo atto di Otello, il Preludio del quarto atto.
Ma potrei citare tanti altri passaggi entusiasmanti.
Sorprendente, mi hanno detto alcuni autoctoni, il livello artistico e la compattezza raggiunti dall’orchestra del teatro di Roma, e qui non ci sono dubbi, il merito può essere solo del direttore.
Alla fine si è goduto un clamoroso trionfo.
Il cantante più atteso era Alexandrs Antonenko, nel ruolo del titolo. Che dire?
Non ha cantato male, assolutamente, però Otello è altra cosa. Va sottolineato a suo merito che è stato meglio di due tenori più quotati che ho sentito recentemente in questa parte (Ian Storey e Stephen Young) e che è migliorato rispetto alla sua esibizione al Festival di Salisburgo.
L’accento giusto però non c’è, mentre appare evidente il tentativo di risolvere il personaggio flettendo i muscoli (le corde vocali, in questo caso); chiaro che in questo modo la parte più schiettamente lirica non esce e così lo splendido duetto “Già nella notte densa” scivola via senza emozioni, complice anche l’inerzia interpretativa del soprano.
Il lato drammatico ne risente a sua volta, perché non è credibile un valoroso condottiero che è solo incazzato e non umanamente ferito dal presunto tradimento della moglie.
La voce è piccolina e non particolarmente gradevole (vorrei dire senescente, ma forse è un giudizio troppo severo), inoltre, il fraseggio almeno perfettibile, la dizione approssimativa e ho notato anche qualche piccolo pasticcio con il testo.
Molto buoni, peraltro, gli acuti, scomodissimi nell’Otello verdiano per la collocazione atipica. (il canto non è mai sfogato, non c’è una naturale salita all’acuto)
Il soprano Marina Poplavskaja, al contrario di Antonenko, non riesce a fornire spessore drammatico a Desdemona, in quanto le manca l’ampia cavata per cantare credibilmente frasi come “E son io l’innocente cagion di tanto pianto!”, per esempio.
Pure lei ha una voce piccola, seppur gradevole, e inoltre gli acuti appaiono metallici e forzati, stridenti, i gravi spesso intubati; il fraseggio è abbastanza curato ed è buona la recitazione e la presenza scenica.
Ha cantato molto bene la “Canzone del Salice” nel quarto atto ma, insomma, credo che di Desdemone a questo livello, appena sufficiente, ce ne siano molte.
Ho rilevato (non solo io, tutti) anche un piccolo incidente vocale: ha sporcato un acuto in chiusura dell’opera, anche se va detto che cantava in una posizione non comoda per esigenze sceniche.
Mi è piaciuto abbastanza il baritono Giovanni Meoni nel ruolo di Jago, perché almeno ha capito la psicologia del personaggio. Da qui a renderlo efficacemente ce ne passa, però le intenzioni interpretative corrette c’erano.
Non ha uno strumento adeguato, però: la voce è anonima, il volume appena discreto, la capacità di modulare limitata da un registro grave non straordinario, mentre gli acuti ( finale del “Credo”) sono quasi tenorili.
Jago, personaggio diabolico, pronuncia molte mezze frasi per volgere a suo favore la situazione, è ammiccante, subdolo, freddo: ecco, in questo canto tipicamente di conversazione l’artista mi è piaciuto perché è stato incisivo e presente.
Deludente il Cassio di Roberto De Biasio, che ha una voce bellissima ma era un po’ stranito, non so.
Brava Barbara Di Castri nei panni di Emilia, accorata e partecipe.
Sufficienti le caratterizzazioni di Antonello Ceron (Roderigo), Giovanni Battista Parodi (Lodovico), Paolo Battaglia (Montano) e Fabio Tinalli ( Araldo).
Buona la prestazione del Coro del Teatro di Roma, preparato da Andrea Giorgi e meritevole d’elogio anche il Coro di Voci Bianche diretto da José Maria Sciutto.
L’allestimento di Stephen Langridge è, a mio parere, molto bello.
Tradizione con la giusta dose di modernità, senza stravolgere il libretto e, finalmente, senza quei trasporti temporali calamitosi ai quali ormai sembra ci si debba abituare per forza.
Il regista legge il dramma come una storia di personaggi emarginati: Otello è straniero e di colore, Desdemona ha rinunciato ai suoi privilegi sposandolo, Jago ha aspirazioni di comando inibite dalla sua appartenenza a una classe sociale inferiore. Solo Cassio è inserito a pieno titolo nella società veneziana dell’epoca, e l’invidia per la sua condizione privilegiata sarà la scintilla che farà scoppiare il devastante incendio dei sentimenti.
Le scene, di George Souglides, sono magnifiche, i costumi di Emma Ryott eleganti e di ottimo gusto, le coreografie di Philippe Girardeau funzionali allo spettacolo ma non invadenti.
Ottime, infine, le luci di Giuseppe Di Iorio, specialmente nel quarto atto.
Successo pieno per tutti i cantanti, con il trionfo di cui ho già detto all’inizio di Riccardo Muti.
Ora, mi permetto una piccola divagazione personale.
Per me Roma è una città ostile, troppo grande, troppo rumorosa, troppo…tutto.
Io sono un provincialotto timido che sta bene a casa sua, schiavo delle abitudini e via così piangendosi addosso inutilmente.
Margot e il suo definitivamente adatto QuasiAdatto mi hanno ospitato a casa loro e mi fatto sentire a casa mia placando le mie ansie.
Grazie.
Inoltre, sono stato molto felice di conoscere personalmente Giorgia, fotografa professionista ( smile)e ragazza simpaticissima.
Buona settimana a tutti.
(non so collocare le foto nel post, accontentatevi!)

Recensione del Don Carlo alla Scala: de minimis non curat praetor.

Ribadisco il mio no comment.
Per le valutazioni e una riflessione sull'(s)oggettività della percezione artistica nel caso della musica lirica, rimando i curiosi a questo post di Daland.

Il titolare di questo blog, dopo aver visto come i tenutari della Scala hanno gestito il caso del tenore Filianoti dal punto di vista umano, ha deciso che per protesta non recensirà il Don Carlo inaugurale.
A presto, con la recensione dell’Otello a Roma.
 
 
tenutàrio: tenutàrio

(f. –a; pl. m. –àri), s. m., nel linguaggio giuridico, che è possessore di un bene
nell’uso com. chi tiene una casa da gioco o altro locale spec. malfamato.

Pillole di Otello: Jago, il mio gemello.

Come giustamente diceva gabrilu in un commento all’ultimo post sull’Otello, Jago è personaggio fondamentale sia nell’opera verdiana sia nel dramma teatrale originale di Shakespeare.
Peraltro anche il librettista Arrigo Boito aveva le idee chiare sulla connotazione psicologica di Jago.
Aggiungo che l’opera, per lungo tempo, ha rischiato d’intitolarsi Jago e non Otello.
Allora, forse vale la pena conoscere, almeno in sintesi, le opinioni di questi illustri personaggi.
Cominciamo da Boito.
 
“Jago è l’invidia. Jago è uno scellerato. Jago è un critico. Nella lista dei Personaggi lo caratterizza così: Jago è uno scellerato, e non aggiunge una parola di più. Jago sulla piazza di Cipro si definisce così: I am nothing if not critical. Fa il male per il male.
Il più grossolano errore, l’errore più volgare nel quale possa incorrere un artista che s’attenta d’interpretare codesto personaggio è di rappresentarlo come una specie di uomo demone! È di mettergli in faccia il ghigno mefistofelico, è di fargli fare gli occhiacci satanici.
Ogni parola di Jago è da uomo, da uomo scellerato, ma da uomo.
Cinzio Giraldi, l’autore della novella da dove Shakespeare trasse il suo capolavoro, dice di Jago: un alfiero di bellissima presenza, ma della più scellerata natura che mai fosse uomo del mondo.
Spigliato e gioviale con cassio; con Roderigo, ironico; con Otello apparisce bonario, riguardoso, devotamente sommesso; con Emilia (la moglie, specifica Amfortas) brutale e minaccioso; ossequioso con Desdemona e con Lodovico.
 
Parafrasando Dave Letterman, che non perde l’occasione per autoflagellarsi , dico anch’io: “ E’come avere un gemello!” (strasmile)
 
Ecco che ne pensava Verdi, di questo piccolo Amfortas.
 
“Ma se io fossi attore ed avessi a rappresentare Jago, io vorrei avere una figura piuttosto magra e lunga, labbra sottili occhi piccoli vicino al naso come le scimmie, la fronte alta che scappa indietro, e la testa sviluppata di dietro; il fare distratto, nonchalant, indifferente a tutto, incredulo, frizzante il bene e il male con leggerezza come avendo l’aria di pensare a tutt’altro di quel che dice”
 
Cioè, sono proprio io eh?
 
Un contributo decisivo lo diede anche un pittore, Domenico Morelli che disse a Verdi d’aver trovato “un prete che pare proprio lui”.
Verdi, che non vedeva precisamente con favore i preti, rispose: “Bene, benone, benissimo, benissimissimo! Jago con la faccia da galantuomo! Hai colpito! Oh lo sapevo bene, ne era sicuro. Mi par di vederlo questo prete, cioè questo Jago con la faccia da uomo giusto!
Questo Jago è Shakespeare, è l’umanità, cioè una parte dell’umanità: il brutto.”
 
 
Peraltro, questo personaggio canta una delle pagine più terribili della lirica tout court, qui sotto il testo, così potete farvene un’idea più precisa.
Credo in un Dio crudel che m’ha creato
simile a sè e che nell’ira io nomo.
Dalla viltà d’un germe o d’un atòmo
vile son nato.
Son scellerato
perchè son uomo;
e sento il fango originario in me.
Si! questa è la mia fè!
Credo con fermo cuor, siccome crede
la vedovella al tempio,
che il mal ch’io penso e che da me procede,
per il mio destino adempio.
Credo che il guisto è un istrion beffardo,
e nel viso e nel cuor,
che tutto è in lui bugiardo:
lagrima, bacio, sguardo,
sacrificio ed onor.
E credo l’uom gioco d’iniqua sorte
dal germe della culla
al verme dell’avel.
Vien dopo tanta irrision la Morte.
E poi? E poi? La Morte è’ il Nulla.
È vecchia fola il Ciel.

 

 

Qui Tito Gobbi, Jago controverso, ma sicuramente tra i più efficaci interpreti di sempre.