La notizia rilevante è che dopo quarant’anni a Roma si rivede l’Otello di Verdi.
Quella volta il Moro fu interpretato da Mario Del Monaco, e probabilmente Silvana Pampanini era presente alla prima, come era inequivocabilmente presente anche sabato scorso la sua statua di cera semovente.

Non mi soffermo troppo sui dettagli gossipari della prima romana, ma una circostanza, almeno, la devo sottolineare: Renato Balestra ‘n se po’ vede’.
Ci dovrebbe essere una campagna di prevenzione anti lifting a livello nazionale, come si fa per gli incidenti stradali:
“Guardate che se vi fate il lifting vi ridurrete così!”
E sotto la foto di Balestra. (strasmile, e giuro che dal vivo è molto peggio)
Ingorgo clamoroso al guardaroba: dame, damine, damazze, damone e lacchè, potentati, finti potentati, quasi ministri e probabili futuri inquisiti tutti in fila per deporre l’ombrello e il cappotto, il cappello e la mantella: un delirio.
Due romane veraci, molto spiritose e altrettanto incasinate dovevano, nell’ordine: tenere a bada la folla, scrivere la ricevuta dell’avvenuto pagamento barrando una casella (cappotto, cappello ecc), far di conto, consegnare la contromarca e appendere i vestiti.
Mission impossible!
All’ennesimo “avoja” “ma che stai a di’ “bella pe’ te” qualche nobildonna era un po’ ingrugnita, ma io mi sono divertito da morire, specialmente quando un coglionazzo, perché per favore che nessuno cerchi di trovargli scuse, ha cercato di pagare il guardaroba (nel suo caso 2 euro) con una banconota da 500.
“Ao’ Cla’, allora ce stanno davero!” ha detto una delle due ragazze. (ultrasmile)
Ma vengo subito alle cose semiserie.
La prima sensazione è stata che tra il direttore, Riccardo Muti, e la compagnia di canto ci fosse la stessa differenza che c’è tra la Juventus e (non me ne voglia nessuno) una squadra di semiprofessionisti o poco più.
Muti ha una sua visione chiara dell’Otello e la sviluppa con determinazione: teatro lirico drammatico, che si esprime con tinte orchestrali forti e precise, specchio dei sentimenti violenti dei protagonisti.
Straordinari, in questo senso, molti momenti: la tempesta iniziale, il “fuoco di gioia”, l’accompagnamento al duetto del primo atto, il “Credo” di Jago, il monologo del terzo atto di Otello, il Preludio del quarto atto.
Ma potrei citare tanti altri passaggi entusiasmanti.
Sorprendente, mi hanno detto alcuni autoctoni, il livello artistico e la compattezza raggiunti dall’orchestra del teatro di Roma, e qui non ci sono dubbi, il merito può essere solo del direttore.
Alla fine si è goduto un clamoroso trionfo.
Il cantante

più atteso era
Alexandrs Antonenko, nel ruolo del titolo. Che dire?
Non ha cantato male, assolutamente, però Otello è altra cosa. Va sottolineato a suo merito che è stato meglio di due tenori più quotati che ho sentito recentemente in questa parte (Ian Storey e Stephen Young) e che è migliorato rispetto alla sua esibizione al Festival di Salisburgo.
L’accento giusto però non c’è, mentre appare evidente il tentativo di risolvere il personaggio flettendo i muscoli (le corde vocali, in questo caso); chiaro che in questo modo la parte più schiettamente lirica non esce e così lo splendido duetto “Già nella notte densa” scivola via senza emozioni, complice anche l’inerzia interpretativa del soprano.
Il lato drammatico ne risente a sua volta, perché non è credibile un valoroso condottiero che è solo incazzato e non umanamente ferito dal presunto tradimento della moglie.
La voce è piccolina e non particolarmente gradevole (vorrei dire senescente, ma forse è un giudizio troppo severo), inoltre, il fraseggio almeno perfettibile, la dizione approssimativa e ho notato anche qualche piccolo pasticcio con il testo.
Molto buoni, peraltro, gli acuti, scomodissimi nell’Otello verdiano per la collocazione atipica. (il canto non è mai sfogato, non c’è una naturale salita all’acuto)
Il soprano
Marina Poplavskaja,
al contrario di Antonenko, non riesce a fornire spessore drammatico a Desdemona, in quanto le manca l’ampia cavata per cantare credibilmente frasi come “E son io l’innocente cagion di tanto pianto!”, per esempio.
Pure lei ha una voce piccola, seppur gradevole, e inoltre gli acuti appaiono metallici e forzati, stridenti, i gravi spesso intubati; il fraseggio è abbastanza curato ed è buona la recitazione e la presenza scenica.
Ha cantato molto bene la “Canzone del Salice” nel quarto atto ma, insomma, credo che di Desdemone a questo livello, appena sufficiente, ce ne siano molte.
Ho rilevato (non solo io, tutti) anche un piccolo incidente vocale: ha sporcato un acuto in chiusura dell’opera, anche se va detto che cantava in una posizione non comoda per esigenze sceniche.
Mi è piaciuto abbastanza il baritono
Giovanni Meoni
nel ruolo di Jago, perché almeno ha capito la psicologia del personaggio. Da qui a renderlo efficacemente ce ne passa, però le intenzioni interpretative corrette c’erano.
Non ha uno strumento adeguato, però: la voce è anonima, il volume appena discreto, la capacità di modulare limitata da un registro grave non straordinario, mentre gli acuti ( finale del “Credo”) sono quasi tenorili.
Jago, personaggio diabolico, pronuncia molte mezze frasi per volgere a suo favore la situazione, è ammiccante, subdolo, freddo: ecco, in questo canto tipicamente di conversazione l’artista mi è piaciuto perché è stato incisivo e presente.
Deludente il Cassio di Roberto De Biasio, che ha una voce bellissima ma era un po’ stranito, non so.
Brava Barbara Di Castri nei panni di Emilia, accorata e partecipe.
Sufficienti le caratterizzazioni di Antonello Ceron (Roderigo), Giovanni Battista Parodi (Lodovico), Paolo Battaglia (Montano) e Fabio Tinalli ( Araldo).
Buona la prestazione del Coro del Teatro di Roma, preparato da Andrea Giorgi e meritevole d’elogio anche il Coro di Voci Bianche diretto da José Maria Sciutto.
L’allestimento di Stephen Langridge è, a mio parere, molto bello.
Tradizione con la giusta dose di modernità, senza stravolgere il libretto e, finalmente, senza quei trasporti temporali calamitosi ai quali ormai sembra ci si debba abituare per forza.
Il regista legge il dramma come una storia di personaggi emarginati: Otello è straniero e di colore, Desdemona ha rinunciato ai suoi privilegi sposandolo, Jago ha aspirazioni di comando inibite dalla sua appartenenza a una classe sociale inferiore. Solo Cassio è inserito a pieno titolo nella società veneziana dell’epoca, e l’invidia per la sua condizione privilegiata sarà la scintilla che farà scoppiare il devastante incendio dei sentimenti.
Le scene, di George Souglides, sono magnifiche, i costumi di Emma Ryott eleganti e di ottimo gusto, le coreografie di Philippe Girardeau funzionali allo spettacolo ma non invadenti.
Ottime, infine, le luci di Giuseppe Di Iorio, specialmente nel quarto atto.
Successo pieno per tutti i cantanti, con il trionfo di cui ho già detto all’inizio di Riccardo Muti.
Ora, mi permetto una piccola divagazione personale.
Per me Roma è una città ostile, troppo grande, troppo rumorosa, troppo…tutto.
Io sono un provincialotto timido che sta bene a casa sua, schiavo delle abitudini e via così piangendosi addosso inutilmente.
Margot e il suo definitivamente adatto QuasiAdatto mi hanno ospitato a casa loro e mi fatto sentire a casa mia placando le mie ansie.
Grazie.
Inoltre, sono stato molto felice di conoscere personalmente
Giorgia, fotografa professionista ( smile)e ragazza simpaticissima.
Buona settimana a tutti.
(non so collocare le foto nel post, accontentatevi!)
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