Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Recensione seria di Mefistofele al Teatro La Fenice di Venezia. La musica salverà il mondo? No.

Opera sostanzialmente ormai quasi sconosciuta grazie alla lungimiranza delle direzioni artistiche dei teatri che ci propongono sino alla nausea Traviate e Bohème, Mefistofele è una perla della cultura italiana in toto e dovrebbe essere frequentata al pari di altri capolavori. Ed è così per molti motivi di cui il primo è probabilmente che l’opera, tratta dal Faust di Goethe, è uno dei simboli di una temperie trasversale devastante, quella della “scapigliatura”, che sconquassò le acquisite certezze dell’establishment culturale nella seconda metà dell’Ottocento e di cui ancora oggi si percepiscono le conseguenze.
Perciò grazie allo staff del Teatro La Fenice per aver riproposto – dopo più di cinquant’anni – il capolavoro di Arrigo Boito.
Definire tormentata la genesi di Mefistofele è davvero sottile eufemismo perché, dopo il fiasco della prima del 1868, il compositore rimaneggiò completamente il proprio lavoro che purtroppo nella forma originale è andato perduto, forse distrutto da Boito stesso. Il gioco evidentemente valse la candela, in quanto nel 1875 l’opera rivisitata, a Bologna, ottenne un franco successo.
I grandi capolavori si distinguono perché sono senza tempo e parlano al pubblico di tutte le epoche e, in questo senso, Mefistofele è il paradigma dell’opera d’Arte tout court.
La lotta tra il Bene e il Male è ovunque, nella cronaca di ogni giorno, nelle guerre acclarate o sottotraccia, nel labirinto inestricabile dei rapporti personali, nei femminicidi, nel razzismo, nel girone infernale del Silos di Trieste, nello stupro della Natura.
Lo spettacolo è firmato per la regia da Moshe Leiser e Patrice Caurier e, nonostante qualche criticità nel Prologo che mi è sembrato prolisso e statico a dispetto dello spunto creativo, il duo francese centra l’obbiettivo con un allestimento sfolgorante, a tratti barbarico, spesso sopra le righe e temperato da squarci quasi minimalisti.
In un teatro abbandonato, in pieno clima urbex, un Mefistofele annoiato dopo aver fatto una doccia si mette a guardare la televisione dove passano le consuete scene di guerre, sermoni religiosi e amenità varie.
La sua diabolica attenzione viene catturata dal mite e rassegnato Faust, che filosofeggia sulla vita e sulla morte studiando il violoncello. Decide quindi di tentarlo con la promessa di una vita straordinaria e rutilante, piena di emozioni forti e proibite e lo inizia alla droga più pesante.
Da questo momento in poi lo spettacolo decolla, anche grazie alle scenografie – dello stesso Leiser – e soprattutto all’impianto luci rutilante di Christophe Forey, oltre che ai costumi fantasmagorici di Agostino Cavalca. Buone e funzionali allo spettacolo le proiezioni di Etienne Guiol e le coreografie di Beate Vollack.
La scena del Sabba è risultata efficacissima ma la regia non ha mancato di caratterizzare con puntualità anche i singoli personaggi, avvalendosi di una scenotecnica realizzabile grazie all’avanzata tecnologia del palcoscenico del teatro lagunare.
Una riflessione personale sul finale, che sembra quasi suggerire che la musica (e l’Arte in generale) potrebbe salvare il mondo: no, non è così è un’impostura della gente plebea.

Nicola Luisotti, alla testa di un’Orchestra della Fenice in serata eccellente in tutte le sezioni, lavora in simbiosi con la regia. L’interpretazione ha un passo teatrale incalzante, con qualche saltuario eccesso di decibel – ma stiamo parlando del Mefistofele, che è opera di eccessi – ma anche con la dovuta attenzione ai momenti di raccoglimento, che non sono pochi, in cui l’accompagnamento ai cantanti è delicato e amorevole. Perciò dinamiche segnatamente contrastate, agogiche forse un po’ pigre in qualche occasione, ma la narrazione teatrale alla fine è sembrata efficace e scorrevole.
Alex Esposito si conferma ottimo cantante e attore consumato, per quanto la voce manchi di quel timbro e colore da basso puro che in questa parte aiuterebbe a tratteggiare meglio la tenebrosa ambiguità del ghiribizzoso personaggio. L’artista però è di primo piano e il fraseggio, le nuance interpretative e la dinamicità in scena contribuiscono a far sì che il suo Mefistofele emozioni e arrivi al pubblico, che infatti lo ha premiato con un trionfo.
Piero Pretti è stato adeguato nei panni di Faust sia dal lato scenico, che lo voleva un po’ dimesso, sia da quello vocale. La scrittura della parte risente probabilmente dell’originaria stesura per baritono, perciò è impegnativa e onerosa in quanto gravita parecchio sul passaggio e gli acuti sono scomodi. Nonostante ciò le arie sono state eseguite con proprietà, pertinenza stilistica e smalto.
In crescendo la prova di Maria Agresta la quale, dopo una sortita prudente, è risultata emozionante e coinvolta nella scena del carcere in cui ha connotato il personaggio di tutta la drammaticità necessaria e arricchendo di tensione emotiva le due difficili arie del terzo atto.
Buona anche la prestazione di Maria Teresa Leva nei panni di Elena, in cui ha potuto evidenziare il bel colore ambrato della voce.
Hanno ben completato il cast Kamelia Kader (Marta/Pantalis) ed Enrico Casari (Wagner/Nereo).
Eccellente il rendimento del Coro in un’opera che lo vede protagonista al pari dei solisti e bravissimi anche i ragazzi del Coro di voci bianche.
Teatro esaurito da mesi e pubblico che ha tributato un notevole successo a tutta la compagnia artistica e in particolare ad Alex Esposito.

Mefistofele Alex Esposito
Faust Piero Pretti

Margherita

Maria Agresta
Marta Torbidoni
(20/4)

Marta/Pantalis Kamelia Kader
Elena Maria Teresa Leva
Wagner/Nereo Enrico Casari

Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
direttore Nicola Luisotti
maestro del Coro Alfonso Caiani

coro voci bianche Piccoli Cantori Veneziani
maestro del Coro Diana D’Alessio
altro maestro del Coro Zoya Tukhmanova

regia Moshe LeiserPatrice Caurier
scene Moshe Leiser
costumi Agostino Cavalca
light designer Christophe Forey
video designer Etienne Guiol
coreografia Beate Vollack

“Parole&Musica attraversano i confini”: una nuova rassegna dedicata al Lied a Trieste

Trieste è una piccola città ma è ricchissima, da sempre, di iniziative culturali ad ampio spettro.
Sono frequenti le occasioni in cui ci sono diversi eventi concomitanti e bisogna a malincuore fare una scelta.
Vale anche per la musica colta – ammesso che l’aggettivo sia pertinente – perché oltre alle istituzioni più note come il Teatro Verdi e la Società dei Concerti operano sul territorio numerose associazioni culturali che allestiscono serate di ottimo livello dedicate alla musica da camera, alla musica antica e quant’altro.
È il caso dell’Associazione Friedrich Schiller, con la direzione artistica di Elia Macrì, che propone in queste settimane “Parole&Musica attraversano i confini”: una nuova rassegna dedicata al Lied e non solo che calza perfettamente alla vocazione mitteleuropea del capoluogo regionale, da sempre crocevia di culture di confine. Alla manifestazione, che si svolgerà in sei appuntamenti sino a giugno inoltrato,  si affianca anche un concorso dedicato alla musica liederistica che vedrà in giuria, tra gli altri, Fabio Nieder e Salvatore Sciarrino. Lo stesso Macrì è intervenuto all’inizio per declinare le aspettative e la mission dell’associazione.
Per chi scrive è stata una grande emozione tenere a battesimo un progetto lungimirante e ben strutturato, che promuove un’Arte, quella del Lied, che pur essendo di provenienza tedesca ha molte affinità elettive con l’immaginario collettivo delle nostre terre.
Il programma era molto interessante e prevedeva l’esecuzione di brani di Robert Schumann, Josef Rheinberger e Johannes Brahms, affidati a due artisti che fanno parte della fondazione triestina – Benjamin Bernstein, prima viola dell’Orchestra del Verdi e il contralto Anna Katarzyna Ir artista del Coro – e la pianista Natalia Morozova.
Il concerto, che si è svolto nell’Auditorium Marco Sofianopulo del Museo Revoltella perché la Sala Beethoven è momentaneamente inagibile, è principiato con il Märchenbilder op.113 di Schumann.
Strutturata in quattro brevi movimenti, la pagina musicale si snoda con leggerezza in un continuo dialogo tra il suono caldo e avvolgente della viola e gli spesso delicati interventi del pianoforte, in un susseguirsi di atmosfere cangianti e oniriche che si compenetrano con dolcezza.
A  seguire è entrata in scena il contralto Anna Katarzyna Ir, che è stata protagonista di un piccolo tour de force in cui ha cantato ancora Schumann (Widmung), i Fünf Lieder op.4 di Rheinberger e dello stesso compositore Gesänge altitalienischer Dichter, alternando quindi la lingua tedesca a quella italiana tra microclimi psicologici anche assai diversi tra loro sulle liriche, tra gli altri, di Heine. Bellissima, in particolare, l’esecuzione dell’eterea Sapphische Ode di Brahms.
Ancora Brahms è stato protagonista nel finale del concerto, prima con la Sonata per viola e pianoforte op.120 n.2  – ricca di malinconici chiaroscuri – e poi con i Zwei Gesänge op.91 per contralto, viola e pianoforte.
Gli esiti artistici della serata sono stati ottimi e sembra quasi inopportuno sottolineare come i protagonisti siano stati all’altezza dell’impegno. Mi limito a segnalare il legato, la concentrazione e la compostezza di Benjamin Bernstein, il passionale pianismo di Natalia Morozova e il bellissimo colore della voce di Anna Kataryna Ir, che hanno tutti raccolto un meritatissimo successo e alla fine hanno concesso anche un bis, eseguendo Morgen! di Richard Strauss.
Di là di ogni altra considerazione è stata una serata emozionante, un viaggio seguito con attenzione dal pubblico in una sala che ha presentato qualche criticità dal punto di vista dell’acustica, almeno dalla mia posizione. Il che mi suggerisce una domanda che resterà senza risposta: oltre che investire nel turismo – mi si perdoni – straccione, vedremo a Trieste una sala da concerto decente, un giorno?

ViolaBenjamin Bernstein
PianoforteNatalia Morozova
ContraltoAnna Katarzyna Ir
  
Robert SchumannMärchenbilder op.113
Robert SchumannWidmung
Josef RheinbergerFünf Lieder op.4
Josef RheinbergerGesänge altitalienischer Dichter
Johannes BrahmsSapphische Ode op 94
Johannes BrahmsSonata per viola e pianoforte op 120 n.2
Johannes BrahmsZwei Gesänge op.91
  
Direzione artistica Elia Macrì

Un Nabucco interminabile ottiene un buon successo al Teatro Verdi di Trieste

Nabucco, notoriamente, è l’opera che diede la svolta alla carriera di Giuseppe Verdi ed è una delle più autenticamente popolari del Maestro.
Opera risorgimentale, che negli anni è diventata simbolo senza confini di liberazione dei popoli oppressi, Nabucco è un lavoro in cui i contrasti laceranti tra pubblico e privato si compenetrano nel contesto di un conflitto che è religioso e politico.
Giancarlo Del Monaco, regista di questa produzione che proviene da Zagabria, sceglie di evidenziare la parte più squisitamente politica ambientando la vicenda durante le Cinque giornate di Milano.
Le scenografie di William Orlandi sono imponenti e quasi intimidatorie, mentre i costumi sono sembrati pertinenti ma un po’ dimessi e l’impianto luci – di Wolfgang von Zoubek  – piuttosto piatto e privo di cromatismi che avrebbero, forse, ravvivato un allestimento che ha sofferto di una spossante staticità accentuata da due intervalli e tre cambi scena che hanno ucciso la continuità della narrazione e assassinato l’incalzante drammaturgia teatrale.
C’è poi l’annosa questione del coro Va pensiero, ieri bissato a furor di…Daniel Oren, che sostanzialmente ha incitato il pubblico a replicare il famoso coro. Gli applausi, meritatissimi, dopo la prima esecuzione sarebbero stati più che sufficienti. Il bis ha solo stremato ulteriormente pubblico e compagnia artistica senza aggiungere nulla alla tensione emotiva della serata.
Daniel Oren sul podio dell’Orchestra del Verdi, quindi, un connubio artistico complessivamente felice nel passato e – dopo qualche problema risolto non senza difficoltà – rinnovato negli ultimi anni.
Anche ieri la direzione di Oren è sembrata di ottimo livello sia nell’accompagnamento ai cantanti sia nella gestione delle problematiche dinamiche della partitura, che alterna momenti di raccoglimento ad altri di infuocata tensione. Trovare un equilibrio non è facile e, nonostante qualche episodico eccesso di decibel, l’interpretazione del maestro israeliano è stata efficace. L’Orchestra del Verdi ha risposto benissimo alle sollecitazioni del podio con un suono genuinamente verdiano in cui archi e legni si sono distinti in modo particolare.
Roman Burdenko è stato protagonista di una prova più che buona e ha tratteggiato in modo efficace il Re di Babilonia, connotandolo di tutti quei turbamenti e quelle esuberanze caratteriali che caratterizzano il personaggio. Fraseggio curato, attenzione alla parola scenica e – da non sottovalutare – uno strumento vocale omogeneo in tutti i registri, acuti compresi.
Maria José Siri, che nel finale è stata sostituita per un’improvvisa indisposizione da Olga Maslova – in teatro faceva caldissimo – ha interpretato Abigaille con la consueta solidità vocale e acuti ragguardevoli, anche se da un soprano del suo livello ci si aspetterebbe un fraseggio più mobile.
Rafal Siwek è stato uno Zaccaria di grande umanità al quale è però mancata quella autorevole ieraticità che caratterizza il personaggio.
Carlo Ventre, Ismaele, ha affrontato con slancio una parte tenorile ingrata e poco remunerativa perché non ha grandi arie o melodie accattivanti, ma ne è uscito con dignità.
Elmina Hasan è stata bravissima nei panni di Fenena, anche se nella bellissima aria Oh, dischiuso è il firmamento è sembrata un po’ intimidita.
Buono il rendimento di Cristian Saitta (Gran Sacerdote di Delo) ed efficace Christian Collia nei panni di Abdallo; completava il cast Elisabetta Zizzo (Anna).
Eccellente – e non solo nel Va pensiero –  il Coro del Verdi, preparato da Paolo Longo.
Teatro sostanzialmente esaurito, ed è sempre una bella notizia. Pubblico partecipe che ha tributato un franco successo a tutta la compagnia, manifestando particolare calore per Roman Burdenko e Daniel Oren.
Segnalo che giovedì 28 marzo alle 20 è stata programmata last minute un’esecuzione della Messa di Requiem verdiana.

NabuccoRoman Burdenko
AbigailleMaria José Siri
ZaccariaRafal Siwek
IsmaeleCarlo Ventre
FenenaElmina Hasan
Gran Sacerdote di BeloCristian Saitta
AbdalloChristian Collia
AnnaElisabetta Zizzo
  
DirettoreDaniel Oren
Direttore del CoroPaolo Longo
  
RegiaGiancarlo Del Monaco
Scene e costumiWilliam Orlandi
Impianto luciWolfgang Von Zoubek
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
Civica Orchestra di fiati “Città di Trieste”

Recensione di Anna Bolena di Gaetano Donizetti al Teatro Verdi di Trieste: un cast omogeneo onora la sfortunata regina Anna

Primo titolo dell’anno nuovo, Anna Bolena è tornata al Teatro Verdi di Trieste nella stessa produzione del 2012 firmata per la regia dal grande Graham Vick – ora purtroppo scomparso – e ripresa anche questa volta da Stefano Trespidi.
Gli esiti artistici sono stati complessivamente migliori in quest’ultima occasione, mentre nel 2012 brillò solo, lucentissima, la stella di Mariella Devia.
Per quanto riguarda l’allestimento non ho molto da aggiungere a quanto scrissi a suo tempo, anche se onestamente devo dire che negli anni lo spettacolo si è un po’ rivalutato, probabilmente perché la compagnia artistica più omogenea e una direzione più appropriata lo rendono più scorrevole.
Resta però, a mio parere, una regia irrisolta, che punta troppo sullo sfarzo – qualche volta di gusto discutibile – di scene e costumi e palesando una staticità di fondo che contraddice il tumulto di sentimenti dei protagonisti.
Le opere di Donizetti sono difficilissime da dirigere, abbondano i concertati, la gestione ritmica è complessa, l’accompagnamento ai cantanti deve essere espressivo e l’equilibrio sonoro bilanciato; inoltre, deve uscire la tinta dell’opera che in questo caso è un caleidoscopio di cromatismi dallo spettro molto ampio. Anna Bolena è poi un’opera lunga, ha obbiettivamente qualche momento in cui la tensione emotiva tende a smorzarsi.
Francesco Ivan Ciampa, con la sua lettura meditata e al contempo rovente del quale amo anche la sobrietà sul podio, è riuscito a calibrare tutte queste suggestioni in modo esemplare alla testa di un’Orchestra del Verdi in splendida serata in cui tutte le sezioni hanno brillato e concorso al favorevole esito della recita.
Come dicevo sopra la compagnia artistica era omogenea ed equilibrata e, a partire dalla protagonista, tutti hanno dato un contributo prezioso alla buona riuscita complessiva della serata.
Salome Jicia ha vestito i panni di Anna Bolena e lo ha fatto con pertinenza stilistica e vocalità adatta, per quanto nel primo atto qualche acuto sia uscito un po’ schiacciato. Il fraseggio e l’attenzione alla parola scenica però non sono mai mancati e dopo l’intervallo la sua prestazione è stata splendida e trascinante ed è culminata nel lungo finale in cui il soprano ha dato il meglio di sé sia dal lato vocale sia da quello attoriale.
Il pubblico, giustamente, l’ha premiata con applausi anche a scena aperta.
Molto brava anche Laura Verrecchia, anche lei artefice di una prova in crescendo dopo un inizio un po’ titubante probabilmente dovuto all’emozione della prima. Giovanna Seymour è forse il personaggio dell’opera più complesso psicologicamente, attanagliata da un lacerante disagio che si presenta nei duetti con Enrico e Anna all’inizio dei due atti in cui il mezzosoprano ha dato il meglio di sé.
Marco Ciaponi ha dato un’interpretazione da manuale di Riccardo Percy, superando con (apparente) facilità i numerosi scogli della difficilissima parte. Il tenore ha molte frecce al suo arco in questo repertorio: dizione chiara, voce non enorme ma squillante, facilità nella salita agli acuti e compostezza scenica. Accorata e partecipe l’interpretazione della meravigliosa “Vivi tu”, una delle arie più belle per tenore protoromantico.
Autorevole e al contempo autoritario, sprezzante e austero, Riccardo Fassi ha dato vita a un credibile ed eloquente Enrico VIII grazie a una presenza soggiogante e alla voce da basso di buon volume, ben timbrata e gradevole.
Veta Pilipenko ha tratteggiato con intelligenza la parte en travesti dell’ingenuo Smeton, figurando bene anche dal punto di vista scenico.
Bravi anche i coprotagonisti: Andrea Schifaudo è stato un Hervey di lusso, sonoro e dalla bella dizione; buona anche la caratterizzazione un po’ rude di Nicolò Donini di Rochefort.
Ottima la prova del Coro, in particolare nella sezione femminile.
Teatro non esattamente esaurito, probabilmente anche a causa del freddo pungente acuito dalla amatissima bora. Il pubblico ha però apprezzato lo spettacolo e ha manifestato approvazione con lunghi applausi a tutta la compagnia decretando un calorosissimo successo agli interpreti principali.

Anna BolenaSalome Jicia
Giovanna di SeymourLaura Verrecchia
Lord Riccardo PercyMarco Ciaponi
Enrico VIIIRiccardo Fassi
SmetonVeta Pilipenko
Lord RochefortAndrea Schifaudo
Sir HerveyNicolò Donini
  
DirettoreFrancesco Ivan Ciampa
  
Direttore del CoroPaolo Longo
  
RegiaGraham Vick ripresa da Stefano Trespidi
Scene e costumiPaul Brown
  
  
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste

Die Zauberflöte di Mozart raccoglie un buon successo al Teatro Verdi di Trieste grazie a una compagnia artistica omogenea e a un piacevole allestimento di Ivan Stefanutti.

Dopo la burrascosa produzione del 2017 che scatenò l’ira del solitamente sopito pubblico triestino, è tornata al Teatro Verdi una produzione di Die Zauberflöte molto rassicurante ed educata, che ha ricevuto notevoli consensi dagli spettatori.
L’opera di Mozart si presta a mille interpretazioni tanto è ricca di molteplici situazioni esplicite e reconditi sottotesti e il regista Ivan Stefanutti , che firma anche scene e costumi, sceglie la via della contaminazione tra culture diverse – un puzzle che profuma di esotismi orientali –  in cui si compenetrano fiabesche realtà e sfumate suggestioni oniriche accentuate dall’impianto luci di Emanuele Agliati, che valorizza scene e costumi.
Ne esce un allestimento di un certo pregio, in cui i costumi fantasmagorici hanno un’inusitata rilevanza per la narrazione e in qualche modo assolvono alla distinzione di rango tra i personaggi popolari, quelli più marcatamente bizzarri e stravaganti e gli altri che appartengono a una nobiltà di censo o di ieratica sacralità.
Lo spettacolo soffre di una certa staticità soprattutto nelle masse – il solito coro spesso schierato e immobile – ma le interazioni tra i protagonisti sono messe in luce con garbo e professionalità.
Manca, per scelta registica, una chiara rappresentazione della simbologia massonica, che chi conosce la trama e la genesi dell’opera intuisce a momenti ma che probabilmente non sarà percepita dalla maggioranza delle persone. Non è un male, nel senso che si tratta di un’opzione più volte percorsa nella storia interpretativa dell’opera che forse rende più lineare l’azione, anche se affiora qua e là qualche momento di stanchezza, soprattutto nella chiusura del primo atto.
La scelta di tradurre in italiano i dialoghi – Die Zauberflöte è un Singspiel, come è noto – non è proprio filologicamente ineccepibile ma la buona capacità di pronuncia di quasi tutti gli interpreti contribuisce a renderla accettabile.
L’interpretazione di Beatrice Venezi è sembrata in linea con la regia, nel senso che ha puntato al sodo senza troppi fronzoli ma anche senza troppe sfumature, una direzione di discreta routine che comunque mi è sembrata procedere priva di intoppi e concentrata soprattutto sulla gestione ritmica.
Certo, Mozart pretenderebbe qualche scelta agogica e dinamica più marcata, cosa che probabilmente avverrà nelle prossime recite perché le “prime”, notoriamente, sono l’ultima delle prove. Buona la prestazione dell’Orchestra del Verdi in tutte le sezioni, ma mi piace rimarcare l’ottimo rendimento dei legni. Anche il Coro si è portato con la consueta professionalità.
Tutta la compagnia di canto ha ben figurato sia per pertinenza stilistica sia per coinvolgimento emotivo e attoriale ma il soprano Darija Auguštan (Pamina) si è resa protagonista di una prestazione brillante. Intonazione perfetta, ottima pronuncia, voce gradevole che sale ai moderati acuti della parte con grande facilità e scioltezza, circostanze favorite da una tecnica vocale di vecchia scuola in cui l’emissione del suono è fluida perché tutta in avanti, sul fiato.
Paolo Nevi, che nella Manon Lescaut aveva palesato un volume non debordante, mi è sembrato più in forma nei panni di Tamino. Quello che è mancato, almeno ieri sera e comunque nell’ambito di un rendimento positivo, è stata una maggiore attenzione alla parola, nel senso che il personaggio è uscito monodimensionale nel fraseggio, privo di quella fierezza nobile e distaccata che caratterizza il tenore amoroso mozartiano.
Grintosa e aggressiva – come è giusto – Nicole Wacker quale sulfurea Regina della Notte. Il soprano ha cantato con buoni esiti artistici la sua parte che prevede due arie temibili e notissime al pubblico, raccogliendo applausi a scena aperta e un bel successo personale alla fine.
In parte anche Vincenzo Nizzardo, che di Papageno ha colto il lato schiettamente popolare sia dal punto di vista vocale sia da quello altrettanto importante della disinvoltura scenica.
Bravo anche Alessio Cacciamani, Sarastro di grande civiltà vocale e scenica, che ha cesellato un personaggio che deve sprigionare autorevolezza e umanità al contempo.
Il tenore Marcello Nardis, Monostatos, è uno di quegli artisti che impreziosiscono le produzioni teatrali perché caratterizza sempre con proprietà i personaggi che gli vengono affidati: anche ieri è stato così a riprova di una costanza di rendimento che ormai prosegue da anni.
Nella piccola parte di Papagena si è ben disimpegnata Chiara Maria Fiorani, efficace anche come spiritosa caratterista.
Gradevoli le prestazioni delle Tre Dame (Francesca Bruni, Eleonora Filipponi, Antonella Colaianni) e dei Tre Geni (Caterina Trevisan, Francesca Clemente, Marina Lombardi) e di buona routine tutti gli altri coprotagonisti che trovate in locandina.
Teatro affollato, spettatori contenti e prodighi di applausi per tutta la compagnia artistica, più volte chiamata al proscenio.

PaminaDarija Augustan
TaminoPaolo Nevi
Regina delle NotteNicole Wacker
SarastroAlessio Cacciamani
PapagenoVincenzo Nizzardo
PapagenaChiara Maria Fiorani
MonostatosMarcello Nardis
OratoreLiu Ytian
Prima DamaFrancesca Bruni
Seconda DamaEleonora Filipponi
Terza DamaAntonella Colaianni
Primo sacerdote/second armigeroViktor Shevchenko
Secono sacerdote/primo armigeroGianluca Moro
Tre geniCaterina Trevisan, Francesca Clemente, Marina Lombardi
Primo schiavoGianluca Di Canito
Secondo SchiavoLuigi Silvestre
Terzo schiavoFrancesco Paccorini
  
DirettoreBeatrice Venezi
Direttore del CoroPaolo Longo
  
Regia, scene e costumiIvan Stefanutti
Impianto luciEmanuele Agliati
  
  
Coproduzione Teatri di opera Lombardia, Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, Opera Carolina
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste



Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Die Zauberflöte di Mozart al Teatro Verdi di Trieste

Dunque, giovedì prossimo 7 dicembre il Teatro Verdi accoglie Die Zauberflöte (Il flauto magico) di Mozart. Dico, Wolfgang Amadeus Mozart, uno dei più grandi geni della storia dell’umanità, colto in questo caso nella sua ultima composizione teatrale. Perciò, dopo essermi genuflesso più volte, oso scrivere qualche sintetica e informale nota per chi verrà in teatro e magari non conosce molto di questo straordinario capolavoro.
Il flauto magico appartiene al genere musicale dello Singspiel, una forma teatrale tedesca e austriaca di origine popolare che prevedeva oltre al canto anche dialoghi parlati.

Ci sono nel teatro lirico molti altri esempi di Singspiel, lo stesso Mozart per esempio scrisse Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio). Altri esempi celebri sono il Fidelio di Beethoven e Der Freischütz (Il franco cacciatore) di Carl Maria von Weber.

Nel Flauto magico convivono felicemente molte suggestioni e le interpretazioni e le letture possono essere diverse e, a mio parere, tutte plausibili. Per molti è l’opera massonica per antonomasia, disseminata com’è di simboli esoterici: numeri (il tre, a partire dagli accordi iniziali, è una costante), il passaggio dal buio alla luce, la presenza delle prove dell’acqua e del fuoco e tanto altro ancora.

Personalmente amo considerare quest’opera come una fiaba per adulti mascherata da una semplicità empatica e colorata, un viaggio un po’ accidentato nell’inconscio e quindi estremamente personale, intimo, in cui come nei corsi d’acqua carsici ogni tanto riaffiora in superficie qualche ricordo che magari scompare subito dopo. Un viaggio iniziatico alla scoperta di noi stessi, se mi concedete la metafora azzardata.

La trama dell’opera si trova facilmente, anche sulla benemerita Wikipedia.

I tanti personaggi dell’opera parlano, dal punto di vista musicale, lingue differenti. Sono cioè caratterizzati da stili diversi che ne fotografano il lignaggio e la provenienza sociale. Inoltre, nel corso della narrazione succede che in qualche modo il nostro parere sul loro operato cambi, trasformando i buoni in cattivi e viceversa. Insomma anche in questo caso l’apparenza inganna. A seguire un breve cenno ai principali protagonisti dell’opera.

Papageno e Papagena sono di estrazione popolare e il loro stile è appunto quasi folcloristico, sanguigno nei versi, nelle intemperanze caratteriali e nelle melodie. Tamino e Pamina sono due innamorati ed esprimono sempre un canto amoroso e ispirato a una dignitosa sensibilità e sensualità, scevra di eccessivi languori larmoyant.

Sarastro non a caso è affidato alla voce di un basso profondo, perché deve esprimere autorevolezza, ieraticità in un ambito quasi oratoriale, da musica sacra e solenne. Monostatos è vicino agli stilemi di un carattere buffo, che sembra stridere con gli altri personaggi.

La Regina della notte (Königin der Nacht) è, forse, la protagonista più ambigua, vero motore della vicenda, che si esprime con un canto tipico dell’opera seria del periodo. Dominio dei soprani di coloratura, la parte richiede oltre che virtuosismo un accento fiero, dizione scandita, temperamento sulfureo.
l grande genio di Mozart riesce a far convivere tutte queste particolarità rendendole omogenee, liquide, filanti. Lo fa anche attraverso l’orchestra e con l’uso di strumenti come il Glockenspiel che, lo scrivo per i profani, ricorda tanto il suono dei carillon.

Gioverà ricordare che l’autore del libretto, Emanuel Schikaneder, fu anche il creatore di Papageno della prima assoluta che si svolse a Vienna, il 30 settembre 1791.
Per la buona riuscita artistica dell’opera mi pare indispensabile che i cantanti siano anche disinvolti in scena, mobili nel fraseggio ma anche buoni attori.

Il direttore d’orchestra ha un compito arduo, risolvere il problema del suono orchestrale che deve essere sempre trasparente ma mai lezioso, anodino. La musica esprime una vitalità prorompente che non può essere compromessa da clangori e allo stesso tempo restare virile e incisiva.

La regia…beh…si valuterà sul campo e cioè in teatro. Non esistono regie moderne o tradizionali, ma solo regie intelligenti o stupide. Al Teatro La Fenice ne vidi una splendida versione, per esempio.

Se potessi esaudire un desiderio, vorrei che a Trieste succedesse ciò che accadde in Germania, dopo il debutto dell’opera. La Zauberflöte uscì dai teatri e il popolo si impadronì delle sue melodie, improvvisando per strada le scene più famose o cantando le arie anche in modo sgangherato, chissenefrega.

Oddio, nella Trieste di oggi sarebbe un problema, ma non stiamo a sottilizzare.

Nel caso qualcuno volesse provarci, beh, credo che potrei essere un Papageno formidabile e, forse, anche una pittoresca Regina della notte (strasmile).

Un saluto a tutti, alla prossima!

Les Contes d’Hoffmann Di Jacques Offenbach al Teatro La Fenice di Venezia: serata straordinaria grazie a una compagnia artistica eccezionale e alla regia di Damiano Michieletto.

Jacques Offenbach ha avuto una vita difficile ma non tanto quanto la genesi della sua opera più conosciuta, Les Contes d’Hoffmann, capolavoro assoluto del teatro lirico.
La vicenda è un mix di alcuni brevi novelle di E.T.A. Hoffmann che si può tranquillamente definire come un pazzo visionario il quale, per molti aspetti, ha visto davvero avanti nel tempo. Lo si identifica come scrittore romantico a ragione, perché le poderose inquietudini del Romanticismo grondano dalle parole e dai personaggi che animano le sue storie.
Dal mio punto di vista tutte le versioni del libretto dell’opera riescono a cogliere la temperie del protoromanticismo e non ha fatto eccezione quella proposta ieri a Venezia, che era un ponderato packaging funzionale alla narrazione di Damiano Michieletto. Tagliati i dialoghi parlati, escluse arie famose come Scintille, diamant – apocrifa e anche se i puristi storceranno il naso a me sarebbe piaciuto ascoltarla dallo straordinario Alex Esposito – ed esclusa anche l’aria di Giulietta nel terzo atto.
Le questioni filologiche però mi lasciano freddo, perché ciò che importa è che lo spettacolo funzioni e – Santo Cielo! – qui più che funzionare mi ha fatto saltare dalla sedia.
La compagnia artistica era omogenea, equilibrata e di alto livello e anche se Frédéric Chaslin, sul podio di un’eccellente Orchestra del Teatro La Fenice, ha fatto sentire qualche pesantezza di troppo – soprattutto nel primo atto, mentre nel secondo e nel terzo dinamiche e agogiche sono risultate meno arrembanti – alla fine la direzione non è andata in conflitto con la regia, circostanza tutt’altro che trascurabile.
Protagonista assoluto Alex Esposito che – letteralmente – ha fatto il diavolo a quattro, sconquassando il pubblico con il suo impeto attoriale e il brillante rendimento vocale. Una prova maiuscola, che gli spettatori hanno premiato con un’ovazione formidabile. Insinuante, sulfureo, rapace, ipercinetico, Esposito ha caratterizzato i suoi diavolacci con sopraffina curiosità intellettuale e capacità di eloquenza che è propria solo dei grandi artisti.
Nei panni dello sventurato Hoffmann, Ivan Ayon Rivas non gli è stato da meno e anzi ha rilanciato con una prova vocale notevolissima in cui declamato, acuti, disinvoltura scenica e pertinenza stilistica hanno contribuito a rendere credibilissimo il personaggio.
Olympia è stata interpretata dal soprano Rocío Pérez la quale, pur nel singolare contesto scenico, è parsa brillante e attendibile in una parte inquietante e clamorosamente attuale – si pensi all’abuso della AI e ai deep fake –  come quella della bambola meccanica.
Carmela Remigio ha colorato di mille sfaccettature Antonia, forse il personaggio più malinconico dell’opera, con la classe artistica che la contraddistingue da sempre. La voce, calda, sensuale e solare al contempo, è sembrata perfetta per delineare la sfortunata parabola del personaggio.
Veronique Gens, dalla figura elegantissima, ha interpretato con un minimo di distacco e freddezza una Giulietta che forse meriterebbe qualche slancio passionale meno evanescente, ma è stata comunque protagonista di una prova positiva.
Bravissime anche Paola Gardina (La Muse) e Giuseppina Bridelli (Nicklausse) entrambe nei panni di due personaggi sfuggenti, dalle personalità difficilmente decifrabili.
Il tenore Didier Pieri si è disimpegnato con elegante disinvoltura nei suoi quattro personaggi, sfoggiando una voce leggera, tipica del caratterista, ma piacevole nel timbro.
I coprotagonisti, che sono sempre fondamentali nella buona riuscita di uno spettacolo, sono stati tutti bravissimi: Federica Giansanti (La Voce), Christian Collia (Nathanaël), François Piolino (Spalanzani), Yoann Dubruque (Hermann/Schlemill) e Francesco Milanese (Luther/Crespel). Ottimo il rendimento del Coro, impegnatissimo anche dal lato scenico oltre che impeccabile vocalmente.
La regia di Damiano Michieletto meriterebbe una recensione a parte perché è difficile condensare in poche righe le innumerevoli suggestioni che si sono dipanate nell’arco della serata.
A mio parere un’opera come Les Contes, che sfugge qualsiasi presunta tradizione interpretativa, esige un allestimento fuori dagli schemi e sopra le righe che ne esalti il valore anarchico in senso lato e ne innervi l’irrequietezza intellettuale.
L’idea fondante è quella di descrivere la vita di Hermann dalla primissima adolescenza alla maturità attraverso gli innamoramenti, le infatuazioni e le relative sanguinose delusioni, tutte viste attraverso uno straordinario prisma onirico che ne distorce e riflette gli esiti. Intorno al protagonista, in una sorta di multiverso parallelo, si muovono personaggi fantastici che appartengono al mondo dei bambini e agli incubi degli adulti. Un’irrealtà quasi felliniana in cui grottesco, macabro e reale si compenetrano e si contaminano.
Per realizzare questo straordinario caleidoscopio di sentimenti, situazioni e personaggi il regista si affida al suo storico team di collaboratori e il risultato è sorprendente per spessore intellettuale e appagamento sensoriale. Le scene di Paolo Fantin sono stupende, ricchissime di particolari e impreziosite da un impianto luci (Alessandro Carletti) che meriterebbe un Oscar per come ricrea attorno ai personaggi un mondo parallelo fatto di ombre (il primo atto), di figure distorte e capovolte (l’atto di Antonia), di atmosfere cangianti per carattere, personalità e temperamenti (il terzo atto). Bellissimi i costumi di Carla Teti, che dà fondo a tutta la sua creatività per mettersi al servizio dell’idea registica.
Fondamentali le coreografie di Chiara Vecchi, che sono non solo piacevoli ma funzionali alla narrazione quando non addirittura rivelatrici. Il secondo atto, in questo senso, è davvero da ricordare anche per l’apporto formidabile di alcune bambine ballerine di bravura sbalorditiva.
Nello spettacolo colpisce come non ci sia mai un attimo di sosta e di come sia dinamico e allo stesso tempo ricco di trovate provocatorie che però mai neanche sfiorano alcuna volgarità.
Dopo i trionfali applausi finali, un paio di scarpette rosse ha fatto riferimento alla terribile vicenda – l’ultima di tante, forse nel momento che scrivo la penultima – di Giulia Cecchettin.
Alla serata era presente il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sommerso di applausi al pari di tutta la compagnia artistica.

Chi ha paura dei migranti? La Piazza della Libertà a Trieste, un breve reportage per riflettere.

L’argomento “migranti” suscita sempre reazioni scomposte in un senso o nell’altro. Credo sia una delle situazioni di cui si parla di più e si conosce di meno. Una specie di corto circuito della comunicazione e dell’informazione.
Grazie a Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, fondatori dell’organizzazione di volontariato Linea d’ombra, ho potuto vivere più da vicino la situazione drammatica di queste persone. Ciò significa che ho speso molte ore tra i “terribili migranti” i quali, in realtà, sono giovani che scappano da guerre, carestie, torture, drammatiche conseguenze del cambiamento climatico, miseria. Cercano – pensate un po’ – una vita migliore di quella che il destino sembra aver deciso per loro.


Passano per Trieste ma la stragrande parte di loro considera la nostra città una tappa e nulla di più, perché la loro meta sono altri paesi.
La mia, più che una presa di posizione dichiarata – che è comunque evidente – vuole essere una testimonianza, perché gran parte dei triestini e non solo si esprime sulla questione senza cognizione di causa. Le fonti di informazione sono i relata refero che arrivano nei modi più impensabili e spesso artatamente orientati.
Dal momento che amo la fotografia, che è una forma di comunicazione come le parole che state leggendo, ho pensato di raccontare per immagini (poche, sobrie, severe) cosa succede nella “piazza del mondo” e cioè Piazza della Libertà a Trieste. E anche di far vedere i volti di coloro che passano parte della parabola della vita in quella piazza, sia tra i migranti sia tra chi cerca di dare loro un sostegno. Nel linguaggio fotografico questo è un reportage e le foto andrebbero viste nell’ordine in cui le vedete pubblicate, ma ha poca importanza.Racconto un episodio. Una sera stavo parlando con un ragazzo afgano, Amir. Il suo inglese era peggiore del mio, quindi più che parlare cercavamo di capirci in qualche modo, usando anche il linguaggio del corpo. A un certo punto mi ha chiesto di scattargli una foto e io, ingenuamente, dopo averlo fatto, gli ho chiesto dove potessi mandargliela. Mi ha risposto “da nessuna parte, volevo solo che restasse a qualcuno una traccia della mia esistenza e del mio passaggio qui, perché non so che ne sarà di me.”
Subito dopo molti altri ragazzi afgani e pakistani mi hanno chiesto la stessa cosa e io, che come chi mi conosce sa bene, non sono proprio un cuore tenero mi sono commosso. Commosso nel senso che mi sono messo a pensare, cosa che non molti fanno.
Nell’ormai famigerato Silos non sono andato, ma può essere che nei prossimi mesi lo faccia; devo sentirne l’urgenza bruciante, come è stato per le foto che pubblico oggi.
Una circostanza credo sia indiscutibile e cioè che i volontari di Linea d’ombra, che sono affiancati da varie altre associazioni, fanno del Bene, con la maiuscola.
Alla fine mi sono convinto che noi, anche se dubito che siamo ancora in tempo, dobbiamo combattere la sostituzione etica, non la sostituzione etnica. Dobbiamo lottare per far sì che il nostro essere uomini abbia l’unico significato possibile: aiutare i nostri simili.
Grazie a Lorena Fornasir e grazie a Veronica Vaglica.

PS
Mentre le foto sono state pensate e hanno ormai un paio di mesi, le parole sono state scritte di getto, quindi è probabile che il testo cambi o si trasformi, o non so.




Manon Lescaut di Puccini inaugura la stagione lirica del Teatro Verdi di Trieste. La regia di Guy Montavon deraglia nell’ultimo atto.

Dopo la sospensione per sciopero del vernissage, la pomeridiana di ieri è stata la prima occasione utile per ascoltare e vedere Manon Lescaut di Puccini, che ha aperto la stagione del Teatro Verdi di Trieste da cui mancava dal 2007.
C’era molta curiosità nell’aria perché da qualche tempo giravano voci su di una regia, nella migliore delle ipotesi, stravagante.
L’allestimento, proveniente da Montecarlo dove ottenne a suo tempo un successo clamoroso (con Anna Netrebko nei panni della protagonista), è il classico esempio di teatro di regia riuscito male proprio nella concezione drammaturgica.
Voglio dire che, piaccia o meno la trasposizione temporale, i caratteri dei personaggi sono perfettamente riconoscibili e coerenti con il libretto sino al terzo atto compreso, quando il regista Guy Montavon si inventa una specie di MacGuffin teatrale che trasforma a proprio uso e consumo Geronte – il personaggio più realistico e attuale dell’opera, ché di vecchi potentati che si attorniano di giovani ragazze la cronaca e la storia è piena – in un killer psicopatico. A scatenare la follia è il fatto che Des Grieux distrugge una sua presunta opera d’arte e cioè libera la povera Manon che nel secondo atto era stata trasformata in una specie di statua vivente, con un procedimento che richiamava qualcosa di perfidamente trasversale tra la Body art e il Body painting in salsa new age.
Per questo motivo,  il santone Geronte trasforma la compagnia di strampalati che lo segue come una setta in una scombinata giuria popolare che decide di condannare a morte Manon, la quale non vedrà mai alcuna nave e tanto meno deserti ma solo una tetra prigione adiacente a una stanza dalla quale Des Grieux osserva impotente il suo martirio.
Ecco, tutta questa parte che ho descritto affannosamente è insensata perché non c’entra nulla col livre abominable di Prévost né, tantomeno, con la Manon Lescaut di Puccini.
Spiace sottolinearlo perché sino a quel momento regia e messinscena erano singolari ma tutt’altro che sgradevoli: scenografie sfarzose e ben realizzate, luci splendide, controscene curate e approfondite le interazioni tra i personaggi. Un’altra criticità dell’allestimento sono le due lunghe pause per i cambi scena che, unite all’intervallo, rendono la serata estenuante e, soprattutto, spezzano in modo irreparabile la tensione emotiva della narrazione teatrale e musicale. Il pubblico si distrae in queste circostanze e infatti a un certo punto una inviperita Gianna Fratta ha fulminato con lo sguardo un paio di signore in prima fila che non volevano saperne di farle cominciare l’Intermezzo.

Gianna Fratta, appunto, la quale ha dato un’interpretazione al calor bianco della partitura pucciniana, sottolineandone la sensualità e la crudezza che grondano da ogni nota. Non è, appunto, la Manon di Puccini un’opera da sdilinquimenti e smancerie – lo è la Manon di Massenet – bensì una storia di amore, lacrime e dolore. Emozioni violente che si sono espresse anche con qualche decibel di troppo, soprattutto negli interventi del Coro, peraltro in ottima forma. L’inizio del secondo atto, con quella atmosfera fintamente raffinata, in cui gli echi della musica settecentesca sono artatamente involgariti sino al pacchiano, mi è sembrato un momento di grande musica.
L’Orchestra del Verdi, che ha il sound pucciniano nel DNA, si è espressa al meglio e mi piace sottolineare la bellissima prestazione dei legni, senza ovviamente voler togliere nulla alle altre sezioni.
La compagnia di canto mi è parsa, nel complesso, modesta dal punto di vista vocale e ottima da quello attoriale.
Unica eccezione Lana Kos, che di Manon Lescaut forse non ha il peso vocale in senso stretto, ma sopperisce con la tecnica alle parziali mende di volume. La voce è gradevole, ben proiettata negli acuti che passano la densa orchestra pucciniana e il fraseggio attento e partecipe che esalta quel canto di conversazione che è il marchio di fabbrica di Puccini. Inoltre l’interprete è accorata, vivace, attenta: la sua Manon è decisamente di buon livello e ha conquistato il pubblico triestino che l’ha premiata con un trionfo.
Roberto Aronica è stato un Des Grieux credibile scenicamente ma altalenante nel rendimento vocale, pur senza che ci siano inconvenienti particolari. Dopo un inizio piuttosto contratto, il tenore si è rinfrancato e nel lungo duetto del secondo atto si è espresso al meglio. È rimasta però una sensazione di incompiutezza, perché al suo cavaliere è mancata quella passionalità rovente che il personaggio pretenderebbe.
Viscido e opportunista al punto giusto il Lescaut di Fernando Cisneros, che vanta una voce di buon volume ma gestita in modo un po’ troppo grossier per quanto il personaggio non sia proprio un uomo da raffinatezze. Impeccabile, invece, la sua prestazione attoriale.
Matteo Peirone ha tratteggiato un Geronte in linea con le direttive della regia, ma spesso la voce non ha passato l’orchestra, almeno dalla mia posizione, circostanza che vale anche per il flebile Edmondo di Paolo Nevi.
Brava Magdalena Urbanowicz nei panni del musico e di routine gli interventi di Nicola Pamio e Giuseppe Esposito che hanno contribuito alla tutto sommato buona riuscita della recita.
Il pubblico, numeroso, ha apprezzato con moderazione la serata, applaudendo tutta la compagnia artistica e riservando grandi applausi per Lana Kos e Gianna Fratta.
I responsabili della regia non si sono presentati al proscenio, probabilmente perché dopo lo sciopero la prima ufficiale, quella con i carabinieri, le autorità, l’inno e i critici seri è stata spostata a mercoledì 8 novembre.

Manon LescautLana Kos
Il Cavaliere Renato Des GrieuxRoberto Aronica
LescautFernando Cisneros
Geronte di RavoirMatteo Peirone
EdmondoPaolo Nevi
Un musicoMagdalena Urbanowicz
Il Lamionaio/Maestro di BalloNicola Pamio
L’osteGiuseppe Esposito
  
DirettoreGianna Fratta
Direttore del coroPaolo Longo
  
Regia e luciGuy Montavon
SceneHank Irwin Kittel
CostumiKristopher Kempf
  
Orchestra e Coro del Teatro Giuseppe Verdi di Trieste



Trieste – Teatro Verdi: Secondo concerto della stagione sinfonica e chiusura del Festival di Trieste/Il Faro della musica

Si è chiusa ieri la manifestazione Il Festival di Trieste/Faro della musica con un ultimo concerto inserito nella stagione sinfonica del Teatro Verdi di Trieste.
Organizzato in sinergia con La Società dei concerti, il Festival – lo si può già affermare senza esitazioni – è stato un enorme successo. Le motivazioni sono molteplici e indiscutibili: qualità intrinseca delle serate proposte, artisti famosi e soprattutto bravi, folta partecipazione del pubblico composto per quota parte più che significativa da giovani.
Tutte le realtà culturali e istituzionali coinvolte, le maestranze, gli sponsor, i dirigenti possono andare fieri di questa prima edizione e pensare con serenità alla prossima del 2024.
Nel concerto di chiusura protagonista è stato Mozart, colto in tre brani per pianoforte e orchestra composti tra il 1782 3 il 1786, tutti interpretati da Angela Hewitt nella doppia veste di direttore e solista al pianoforte, un monumentale e meraviglioso Fazioli.
I concerti hanno una matrice comune e cioè sono stati tutti scritti e pensati nel periodo viennese di Mozart dopo la rottura con Salisburgo. Non solo, Mozart li eseguiva personalmente per un pubblico ristretto di nobili e personalità altolocate nei salotti più in vista della città.
L’esprit salottiero è molto evidente nei due concerti eseguiti nella prima parte della serata, iniziata per motivi misteriosi con qualche minuto di ritardo: il Rondò per pianoforte e orchestra in re maggiore, K 382 e il Concerto per pianoforte n. 23 in la maggiore, K 488.
Entrambi i brani hanno caratteristiche che sono tipicamente mozartiane e cioè la brillantezza, il brio e l’agilità screziata qua e là da riflessivi ripiegamenti che si manifestano con melodie scopertamente liriche e accattivanti. Si pensi all’Adagio del secondo concerto ma non solo. C’è poi il dialogo incessante e ripetuto tra legni e archi, che si rincorrono e si completano tratteggiando quell’atmosfera di spensierata gioia tipica di un empatico disimpegno acclarato nelle intenzioni ma rigorosissimo dal lato musicale. Non a caso sono due tra i concerti più eseguiti di Mozart, perché all’ascolto appaiono come gemme purissime.
L’Orchestra del Verdi, ovviamente in formazione cameristica e con una distribuzione che prevedeva numerosi aggiunti giovani, è stata – di là di qualche comprensibile imperfezione – all’altezza di cotanta creatività, dialogando con pertinenza stilistica e suono cristallino con la solista.
Di tinta diversa invece è il Concerto per pianoforte n. 20 in re minore, K 466 e lo si capisce già dalla tonalità minore che indirizza a un’atmosfera più raccolta, meno esuberante ed esteriore di cui già la lunga e severa introduzione orchestrale è presaga.
La cantabilità è più accentuata, la valenza emotiva guarda quasi al teatro musicale e il dialogo con l’orchestra sembra se non corrusco, almeno più seriamente rigoroso. L’energia e la tensione sono più alte che nei due concerti della prima parte e il carattere è generalmente più marcato, nonostante la distensiva oasi del secondo movimento per la quale, sia detto per inciso, chi scrive non spenderebbe parole che facciano pensare a un pre Romanticismo.
Anche in questo caso l’orchestra è stata eccellente in tutte le sezioni.
Resta da considerare la prestazione di Angela Hewitt e non posso che sottolineare quanto sia stata ottima sia come direttore sia come solista.
La Hewitt ha carattere, dolcezza e luminosità di tocco, è consumata artista che accompagna con una mimica un po’ d’antan ma efficace la musica ed è raffinata nel gesto, sempre delicato e garbato, quasi fragile e al contempo capace di improvvise e robuste accensioni passionali. Inoltre è elegante sul palco da brava rappresentante di quella vecchia scuola che oggi si rimpiange quando si assistono a esibizioni sbracate ed ipercinetiche di pianisti, anche bravi, che mentre si esibiscono recitano per la grande platea dei social.
Successo al calor bianco, teatro affollato bis e acclamazioni. Tutto meritato.

Wolfgang Amadeus MozartRondò per pianoforte e orchestra in re maggiore, K 382
Wolfgang Amadeus MozartConcerto per pianoforte n. 23 in la maggiore, K 488
Wolfgang Amadeus MozartConcerto per pianoforte n. 20 in re minore, K 466
  
Direttore e pianoforteAngela Hewitt
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste