In attesa dei Recital di Juan Diego Flórez, della coppia Anna Netrebko&YusifEyfazov e della serata dedicata a Plácido Domingo – su quest’ultima si stanno addensando nubi minacciose, come probabilmente saprete – il Festival di Lubiana procede con appuntamenti di altissimo livello artistico. Nella grande sala del Cankarjev dom, vicina al sold out anche in quest’occasione, è stata ieri la volta della Pittsburgh Symphony Orchestra guidata dal suo direttore, Manfred Honeck, e della magnifica Hélène Grimaud al pianoforte. Il concerto è principiato con la musica di un compositore poco noto al grande pubblico, Erwin Schulhoff, del quale è stata eseguita una pagina affascinante e cioè i Cinque pezzi per quartetto d’archi nella versione per orchestra. Schulhoff, ceco nato a Praga, è stato uno dei rappresentanti di quella Entartete Musik (Musica degenerata) duramente colpita dalla follia del Nazismo di cui lo stesso compositore è stato vittima. Deportato più volte nei campi di concentramento, morì in un Lager nel 1942. Nella pagina musicale proposta, scritta negli anni Venti del secolo scorso, si riconoscono numerose suggestioni: da Berlioz a Stravinskij, da Bartók a Schönberg sino al blues e al jazz. Manfred Honeck ne ha dato un’interpretazione vigorosa e adrenalinica, che ha evidenziato la brillante ispirazione del compositore sia nelle parti più rilassate sia in quelle più scoppiettanti. Formidabile in toto l’apporto dell’orchestra, con percussioni, ottoni e legni in grande evidenza che hanno scatenato l’entusiasmo del pubblico. Hélène Grimaud, oltre che pianista di grande valore, è un personaggio a tutto tondo. Impegnata nel sociale, ecologista, l’artista francese mi è sembrata accostarsi al Concerto per pianoforte e orchestra in sol maggiore di Ravel con aristocratica timidezza, con quella scarna umiltà scevra da effetti speciali che spesso disturba le esibizioni delle star. E questa leggerezza ed eleganza è stata trasferita nell’interpretazione della pagina musicale, che vive di momenti quasi jazzistici (il Presto finale) e atmosfere rarefatte, purissime e sognanti (Adagio assai, uno degli scorci magici della serata). La grande sintonia emotiva tra solista e direttore ha poi connotato l’esecuzione di una particolare sensazione di gioia, anche grazie a una prestazione straordinaria dell’orchestra di cui è impossibile non segnalare gli interventi dell’arpa e del corno inglese. La Grimaud è parsa perfettamente a proprio agio, quasi che il concerto le fosse stato cucito sartorialmente addosso – e del resto Ravel lo pensò per una donna, la pianista Marguerite Long – dimostrando un invidiabile controllo delle dinamiche e un virtuosismo liquido e al contempo espressivo. Dopo l’intervallo il protagonista è stato Gustav Mahler con la sua Sinfonia n1 in re maggiore.
Pietra miliare del sinfonismo mahleriano, la Prima Sinfonia è percorsa da un sottile fremito d’inquietudine che s’intuisce già nel naturalismo del primo movimento, sembra quasi scomparire nell’apparente spensieratezza del Länder del secondo e riaffiora, come un fiume carsico, nella grottesca e macabra citazione di Frére Jacques del terzo per poi esplodere tragicamente nel drammatico quarto tempo. Manfred Honeck, che ha diretto a memoria, ha colto le contraddizioni e la magniloquenza della partitura, esaltandone vigorosamente sia le spigolosità sia gli sprazzi melodici in un fluire di colori e fraseggio orchestrale quanto mai lontani dalla mesta metronomicità che affligge – soprattutto nel terzo movimento – le esecuzioni di routine. L’orchestra ha dato spettacolo per la precisione delle percussioni, il legato degli archi, le good vibration degli ottoni, la morbidezza dei legni. Alla fine trionfo grandioso per Honeck e la sua spettacolare compagine, che hanno concesso anche due bis per un pubblico che non voleva saperne di andarsene.
Erwin Schulhoff
Cinque pezzi per quartetto d’archi
Maurice Ravel
Concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra
Continuano le mie trasferte al Festival di Lubiana e gli esiti artistici sono sempre felici, nonostante qualche distinguo.
Come sottolineato più volte il Festival di Lubiana, giunto alla 70esima edizione, si caratterizza sia per la presenza di noti artisti e grandi orchestre sia per l’ampia presenza sul territorio della capitale slovena anche al di fuori del circuito delle sale da concerto e dei teatri. La serata di stasera ne è stata ulteriore conferma, perché si è svolta in una chiesa, la barocca Križevniška Church (Nostra Signora dell’aiuto), gremita sino al limite della capienza da spettatori di varia estrazione sociale e culturale: si andava dal turista di passaggio al critico, dall’appassionato di musica sinfonica al giovane curioso. Un’istantanea di cosa dovrebbe essere la cultura nel suo senso più nobile, un mezzo che unisce genti diverse nel nome dell’Arte e della bellezza. La serata era dedicata a Gustav Mahler, qui colto in due tra le sue composizioni più famose e quasi coeve: il ciclo dei Rückert-Lieder e la Sinfonia n.5 in do diesis minore. Entrambe le pagine musicali erano arrangiate per orchestra da camera – circa una ventina di elementi – rispettivamente da Eberhard Kloke (Lieder) e Klaus Simon (Sinfonia). Una proposta raffinata e interessante ma che è stata proposta in modo discutibile e cioè alternando i Lieder ai movimenti della sinfonia, circostanza che ha tolto continuità di narrazione e quindi partecipazione emotiva a entrambe le composizioni. Brillante, invece, l’esecuzione da parte dell’Ensemble Dissonance, una formazione orchestrale mista che accoglie elementi di varie compagini locali, tra cui Kana Matsui che è il Konzertmeister delle due principali orchestre slovene. Sul podio c’era Jonathan Stockhammer il quale, dosando con attenzione le dinamiche considerata la particolare acustica della chiesa e l’organico ridotto, è riuscito a essere efficace sia nell’interpretazione della sinfonia sia nell’accompagnamento cameristico dei Ruckert-Lieder. Ovviamente, alcuni passaggi dell’iniziale Trauermarsch sono stati penalizzati per mancanza di…polpa orchestrale ma era inevitabile. Al contrario, l’Adagietto è uscito scandalosamente commovente anche grazie alla bravura dei professori d’orchestra che sono tutti da elogiare, con un particolare cenno di merito alle percussioni e alla tromba. Per quanto riguarda Nika Gorič, giovane artista slovena in ascesa, spendo volentieri parole di sincera ammirazione. Elegante nella figura e nel portamento, raffinata nel porgere la parola, dotata di una bella voce di soprano leggero screziata da sfumature ombrose e di acuti saldi e penetranti, è sembrata perfettamente a proprio agio nella difficile tessitura dei Lieder. Inoltre, Gorič è artista moderna, capace di accentuare e valorizzare con una mimica di classe gli alterni sentimenti del tardo romanticismo mahleriano. Alla fine successo calorosissimo per tutti, con Stockhammer e Gorič chiamati più volte alla ribalta e festeggiati anche dall’orchestra.
Questa è l’ultima recensione che firmo per La Classica Nota, una creatura che ho amato moltissimo e che mi ha dato tante soddisfazioni e anche qualche amarezza. Per fortuna la musica NON finisce mai. Sipario.
Con questo articolo rimedio, parzialmente, alla folle e criminale decisione di un oscuro censore del Piccolo, quotidiano di Trieste, di cancellare dalla Rete il blog d’autore La Classica Nota di cui ero titolare.
Per l’ultima volta chiedo scusa a tutti gli artisti e al Teatro Verdi per l’incresciosa situazione e per i perversi accadimenti.
Il prossimo post sarà finalmente normale, nel senso che parlerà di Evgenij Onegin di Pëtr Il’ič Čajkovskij, operà che aprirà la stagione lirica di quest’anno.
Ovviamente le statistiche qui, su Di tanti pulpiti, sono alle stelle. Ci tengo a sottolinearlo anche se nella contingenza è del tutto marginale. Qui ci sono anche alcune foto del Rigolettodi cui sopra, per provare a immergerci nel magico clima del teatro lirico.Leggi il resto dell’articolo
Come ho titolato, spero efficacemente, su OperaClick, ieri sera al Teatro Verdi aleggiava uno spirito ed era, indovinate un po’, quello di Jimi Hendrix!
Ora invece, mentre mi sto stendendo questa piccola introduzione alla cronaca di ieri sera, è il momento di ricordare che oggi 14 ottobre, nel 1990, ci lasciava per sempre Lenny Bernstein, che di Gustav Mahler è stato uno dei più grandi intrepreti di cui ci sia traccia.
Io continuo ad adorare entrambi questi due giganti, e spero che l’accostamento non suoni irrispettoso per nessuno dei miei happy few. Sono due delle tante facce di questo blogger che si chiama Amfortas aka Notung aka Paolo Bullo.
So che mi amate (?) anche per questo.
Un saluto a tutti!
Dopo la sosta della settimana scorsa, dovuta alla furiosa sarabanda della regata Barcolana che monopolizza la città fagocitando l’interesse per qualsiasi altro evento, al Teatro Verdi è ripresa la stagione sinfonica. E, lo sottolineo subito, teatro finalmente affollato come dovrebbe essere sempre.
Gli Angeli e demoni – tema conduttore di quest’anno – avevano per l’occasione l’aspetto sulfureo di Niccolò Paganini e quello soave di Gustav Mahler colto in una delle opere più morbide, anche se io definirei più realisticamente ambigua la sua Quarta sinfonia.
Di Paganini mi piace ricordare un’istantanea del grande Heinrich Heine il quale, nelle Florentinische Nächte, descrive così il musicista durante un’esibizione:
Dietro a lui s’agitava uno spettro, la fisionomia del quale rivelava una beffarda natura di caprone e talvolta vedevo due lunghe mani pelose (le sue, pareva) toccare le corde dello strumento suonato da Paganini. Talvolta esse gli guidavano pure la mano onde reggeva l’arco e risate belanti d’applauso accompagnavano i suoni che sgorgavano dal violino sempre più dolorosi e cruenti.Leggi il resto dell’articolo
Insomma, bella serata ma nonostante il successo e la buona partecipazione di giovani, speravo in un’affluenza più nutrita. La Juventus però ha vinto, nonostante le mie maledizioni ad Allegri che ha lasciato in tribuna Bonucci (strasmile).Leggi il resto dell’articolo
È partita col botto la Stagione sinfonica del Teatro Verdi di Trieste, e fa davvero molto piacere segnalarlo.
Come di consueto qui, su La Classica nota, potete leggere i particolari di una serata per molti versi davvero eccellente.
Felix Mendelssohn-Bartholdy e Gustav Mahler sono compositori che non deludono mai, soprattutto quando gli interpreti ricreano la magia senza tempo di pagine musicali così belle. E così difficili da eseguire, anche.
Ieri sera però gli artisti hanno dato il meglio, a partire da Gianluigi Gelmetti passando per il Coro femminile e la violinista Leticia Moreno, con un’Orchestra del Verdi in forma strepitosa a legare il tutto.
La palma del migliore va però a Stefano Furini, primo violino dell’orchestra triestina che si è reso protagonista di una prodezza inaudita.
All’inizio del bis bachiano della Moreno ha trattenuto a stento uno starnuto e, rischiando seriamente di soffocare, è restato in apnea sino alla fine del brano. A un certo punto era più rosso del fiammante vestito della violinista.
Non si diventa primi violini per niente (strasmile, ciao Stefano).
Questa volta l’orrida Venezia si è segnalata più che altro per il tasso di umidità equatoriale e per un favoloso incidente tra un americano con un trolley gigante e una mega carrozzina che menava due gemelline autoctone, che assomigliavano in modo inquietante a quelle di Shining. Le ruote dei due mezzi si sono incastrate sul pontile che porta a un vaporetto e ne è uscita una versione in realtà aumentata della prossima guerra mondiale.
Ma, per tradizione, l’apertura dei post dalla città lagunare deve aprirsi con qualche tragica notizia sui volatili, no? Ebbene questa volta i terribili gabbiani assassini devono cedere il passo alla notizia che a Trieste è in corso la rivolta delle cornacchie antropofaghe giganti. E credo che il cognome della sfortunata signora coinvolta non sia casuale. Aspettiamoci il peggio, ormai non abbiamo più scampo (strasmile).
E passiamo all’ordinaria amministrazione e cioè agli esiti artistici della serata alla Fenice. Leggi il resto dell’articolo
Ora, io già come critico musicale sono di una modestia imbarazzante e me ne rendo conto benissimo, perciò non vorrei che qualcuno dei miei happy few, leggendo le prossime righe, pensi che il mio delirio sia peggiorato ulteriormente. Sì, perché neanche in una società distopica potrebbe trovare collocazione sensata un Amfortas che (stra)parla di poesia.
Però succede che un mio amico, Roberto Corsi, sia un poeta. E succede anche che poche settimane fa mi abbia fatto un graditissimo regalo e cioè la sua ultima raccolta di poesie, intitolata Cinquantaseicozze e pubblicata dall’editore Italic Pequod. Perciò io un paio di cosine le voglio proprio scrivere. Leggi il resto dell’articolo
Da qualche tempo è abbastanza frequente leggere o sentire esclamare che una cosa, una situazione è definitiva, nel senso che dopo non si potrà far meglio, neanche provarci. Ecco, quest’artificio retorico mi torna utile per introdurre la mia umile cronaca del pomeriggio di sabato, quando, al Teatro La Fenice di Venezia, Jeffrey Tate ha diretto la Nona Sinfonia di Mahler. Leggi il resto dell’articolo
Hanno detto: