Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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La Cenerentola di Rossini ottiene un buon successo al Teatro Verdi di Trieste

La Cenerentola di Gioachino Rossini è una di quelle opere che per molti, troppi anni è rimasta nell’oblio. Sino all’inizio degli anni 50 del secolo scorso nei cartelloni dei teatri Rossini era identificato in gran parte, se non esclusivamente, con Il Barbiere di Siviglia. Si deve a un grandissimo direttore d’orchestra italiano, Vittorio Gui, la “riscoperta” del lavoro rossiniano.

Anche il Teatro Verdi di Trieste non fece eccezione: scorrendo la cronologia delle stagioni balza all’occhio un buco di settanta anni in cui questo melodramma giocoso fu assente dal palcoscenico triestino. È infatti del 1951 la prima ripresa del XX secolo, con Giulietta Simionato nei panni della protagonista. Cenerentola rimane però un titolo – rispetto ad altri – poco frequentato alle nostre latitudini, forse perché un po’ estraneo a quella sfuggente propensione del pubblico triestino per opere più vicine alla propria introversa indole caratteriale, quelle che manifestano sì grazia, ma anche una bella grattugiata di scontrosità.
Ieri, in un teatro affollato, l’opera è stata riproposta nell’allestimento che ha debuttato nel 2022 al Teatro Carlo Felice di Genova per la regia di Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi che si sono ispirati allo storico spettacolo di Emanuele Luzzati.
La dimensione fiabesca, che avrebbe dovuto essere il tratto distintivo della serata, è stata un po’ offuscata da alcune scelte registiche che sono parse gratuite: il coro maschile quasi perennemente tarantolato, per esempio, non mi pare abbia aggiunto granché all’atmosfera di fanciullesco incanto che invece suggerivano le proiezioni – episodicamente un po’ invadenti – e le scene. Altri momenti sono sembrati più riusciti, come gli slow motion ben interpretati dalla compagna artistica e la scena del temporale. Belle le luci, costumi giustamente colorati e fantasiosi ma un po’ anonimi. In linea con la tradizione più nota il lavoro di regia sugli interpreti a conferma di un allestimento gradevole ma che non decolla mai davvero né offre spunti di riflessione particolari.
Brillante la direzione di Enrico Calesso, che ha interpretato la partitura con stile, eleganza e una sobrietà di fondo che ha esaltato sia il brio scoppiettante sia il malinconico abbandono che pervadono il capolavoro rossiniano in cui convivono felicemente un personaggio di opera seria, Angelina, e opera buffa.
La narrazione teatrale ne è uscita pulita, omogenea, e ha permesso di apprezzare sin dall’inizio – penso alla bellissima Sinfonia d’apertura – il virtuosismo dell’Orchestra del Verdi che ha dato esempio preclaro di cosa significhi il crescendo rossiniano.
Detto dell’ottimo rendimento del Coro, molto impegnato anche dal lato scenico, la compagnia di canto è sembrata di buon livello.
Laura Verrecchia, nei panni della protagonista Angelina, ha confermato tutte le qualità già ampiamente note al pubblico triestino che l’ha apprezzata di frequente negli ultimi anni.
Le armi vincenti sono state la voce di bel colore ambrato e il fraseggio vario e mobile, che le ha consentito di tratteggiare una protagonista convincente senza scadere in manierismi zuccherosi. Il mezzosoprano ha risolto senza troppi problemi anche il difficile rondò finale Nacqui all’affanno ed è sembrata disinvolta nella recitazione, improntata a un’introversa sobrietà appropriata al personaggio.
Ottimo il rendimento di Dave Monaco nella parte di Don Ramiro, che è caratterizzata da una scrittura vocale molto acuta e richiede la capacità di spiegare la voce a slanci quasi eroici in alternanza a improvvise parentesi elegiache: paradigmatica, in questo senso, l’aria Sì ritrovarla io giuro nel secondo atto, applaudita a scena aperta dal pubblico.
Carlo Lepore è stato convincente come Don Magnifico, del quale ha saputo restituire l’originaria provenienza dalla commedia dell’arte napoletana. Disinvolto dal lato scenico, Lepore ha anche una voce sonora di bel timbro e ha affrontato con sicurezza l’arduo sillabato rossiniano.
Bravo Giorgio Caoduro, che ha tratteggiato con arguzia lo spassosissimo Dandini, uno dei personaggi più divertenti dell’opera italiana. Il baritono, in una parte di tessitura piuttosto alta, ha cantato con pertinenza stilistica e grande civiltà vocale, evitando quegli eccessi interpretativi che con la musica di Rossini c’entrano nulla.
Alidoro è il protagonista occulto dell’opera ed è stato ben interpretato da Matteo D’Apolito, che ne ha esaltato l’umanità e l’autorevolezza.
A completare il cast Carlotta Vichi e Federica Sardella che erano le due insopportabili e viperine, ma divertenti, sorelle Tisbe e Clorinda.
La serata è stata apprezzata dal pubblico che ha applaudito spesso a scena aperta e alla fine ha tributato un grande successo a tutta la compagnia a artistica.

AngelinaLaura Verrecchia
Don RamiroDave Monaco
DandiniGiorgio Caoduro
Don MagnificoCarlo Lepore
AlidoroMatteo D’Apolito
TisbeCarlotta Vichi
ClorindaFederica Sardella
  
DirettoreEnrico Calesso
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaPaolo Gavazzeni e Piero Maranghi
Scene e costumi ispirati all’allestimento di Emanuele Luzzati 
Costumi ripresi daNicoletta Ceccolini
Contributi videoGiuseppe Ragazzini
  
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste




Recensione seria di Mefistofele al Teatro La Fenice di Venezia. La musica salverà il mondo? No.

Opera sostanzialmente ormai quasi sconosciuta grazie alla lungimiranza delle direzioni artistiche dei teatri che ci propongono sino alla nausea Traviate e Bohème, Mefistofele è una perla della cultura italiana in toto e dovrebbe essere frequentata al pari di altri capolavori. Ed è così per molti motivi di cui il primo è probabilmente che l’opera, tratta dal Faust di Goethe, è uno dei simboli di una temperie trasversale devastante, quella della “scapigliatura”, che sconquassò le acquisite certezze dell’establishment culturale nella seconda metà dell’Ottocento e di cui ancora oggi si percepiscono le conseguenze.
Perciò grazie allo staff del Teatro La Fenice per aver riproposto – dopo più di cinquant’anni – il capolavoro di Arrigo Boito.
Definire tormentata la genesi di Mefistofele è davvero sottile eufemismo perché, dopo il fiasco della prima del 1868, il compositore rimaneggiò completamente il proprio lavoro che purtroppo nella forma originale è andato perduto, forse distrutto da Boito stesso. Il gioco evidentemente valse la candela, in quanto nel 1875 l’opera rivisitata, a Bologna, ottenne un franco successo.
I grandi capolavori si distinguono perché sono senza tempo e parlano al pubblico di tutte le epoche e, in questo senso, Mefistofele è il paradigma dell’opera d’Arte tout court.
La lotta tra il Bene e il Male è ovunque, nella cronaca di ogni giorno, nelle guerre acclarate o sottotraccia, nel labirinto inestricabile dei rapporti personali, nei femminicidi, nel razzismo, nel girone infernale del Silos di Trieste, nello stupro della Natura.
Lo spettacolo è firmato per la regia da Moshe Leiser e Patrice Caurier e, nonostante qualche criticità nel Prologo che mi è sembrato prolisso e statico a dispetto dello spunto creativo, il duo francese centra l’obbiettivo con un allestimento sfolgorante, a tratti barbarico, spesso sopra le righe e temperato da squarci quasi minimalisti.
In un teatro abbandonato, in pieno clima urbex, un Mefistofele annoiato dopo aver fatto una doccia si mette a guardare la televisione dove passano le consuete scene di guerre, sermoni religiosi e amenità varie.
La sua diabolica attenzione viene catturata dal mite e rassegnato Faust, che filosofeggia sulla vita e sulla morte studiando il violoncello. Decide quindi di tentarlo con la promessa di una vita straordinaria e rutilante, piena di emozioni forti e proibite e lo inizia alla droga più pesante.
Da questo momento in poi lo spettacolo decolla, anche grazie alle scenografie – dello stesso Leiser – e soprattutto all’impianto luci rutilante di Christophe Forey, oltre che ai costumi fantasmagorici di Agostino Cavalca. Buone e funzionali allo spettacolo le proiezioni di Etienne Guiol e le coreografie di Beate Vollack.
La scena del Sabba è risultata efficacissima ma la regia non ha mancato di caratterizzare con puntualità anche i singoli personaggi, avvalendosi di una scenotecnica realizzabile grazie all’avanzata tecnologia del palcoscenico del teatro lagunare.
Una riflessione personale sul finale, che sembra quasi suggerire che la musica (e l’Arte in generale) potrebbe salvare il mondo: no, non è così è un’impostura della gente plebea.

Nicola Luisotti, alla testa di un’Orchestra della Fenice in serata eccellente in tutte le sezioni, lavora in simbiosi con la regia. L’interpretazione ha un passo teatrale incalzante, con qualche saltuario eccesso di decibel – ma stiamo parlando del Mefistofele, che è opera di eccessi – ma anche con la dovuta attenzione ai momenti di raccoglimento, che non sono pochi, in cui l’accompagnamento ai cantanti è delicato e amorevole. Perciò dinamiche segnatamente contrastate, agogiche forse un po’ pigre in qualche occasione, ma la narrazione teatrale alla fine è sembrata efficace e scorrevole.
Alex Esposito si conferma ottimo cantante e attore consumato, per quanto la voce manchi di quel timbro e colore da basso puro che in questa parte aiuterebbe a tratteggiare meglio la tenebrosa ambiguità del ghiribizzoso personaggio. L’artista però è di primo piano e il fraseggio, le nuance interpretative e la dinamicità in scena contribuiscono a far sì che il suo Mefistofele emozioni e arrivi al pubblico, che infatti lo ha premiato con un trionfo.
Piero Pretti è stato adeguato nei panni di Faust sia dal lato scenico, che lo voleva un po’ dimesso, sia da quello vocale. La scrittura della parte risente probabilmente dell’originaria stesura per baritono, perciò è impegnativa e onerosa in quanto gravita parecchio sul passaggio e gli acuti sono scomodi. Nonostante ciò le arie sono state eseguite con proprietà, pertinenza stilistica e smalto.
In crescendo la prova di Maria Agresta la quale, dopo una sortita prudente, è risultata emozionante e coinvolta nella scena del carcere in cui ha connotato il personaggio di tutta la drammaticità necessaria e arricchendo di tensione emotiva le due difficili arie del terzo atto.
Buona anche la prestazione di Maria Teresa Leva nei panni di Elena, in cui ha potuto evidenziare il bel colore ambrato della voce.
Hanno ben completato il cast Kamelia Kader (Marta/Pantalis) ed Enrico Casari (Wagner/Nereo).
Eccellente il rendimento del Coro in un’opera che lo vede protagonista al pari dei solisti e bravissimi anche i ragazzi del Coro di voci bianche.
Teatro esaurito da mesi e pubblico che ha tributato un notevole successo a tutta la compagnia artistica e in particolare ad Alex Esposito.

Mefistofele Alex Esposito
Faust Piero Pretti

Margherita

Maria Agresta
Marta Torbidoni
(20/4)

Marta/Pantalis Kamelia Kader
Elena Maria Teresa Leva
Wagner/Nereo Enrico Casari

Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
direttore Nicola Luisotti
maestro del Coro Alfonso Caiani

coro voci bianche Piccoli Cantori Veneziani
maestro del Coro Diana D’Alessio
altro maestro del Coro Zoya Tukhmanova

regia Moshe LeiserPatrice Caurier
scene Moshe Leiser
costumi Agostino Cavalca
light designer Christophe Forey
video designer Etienne Guiol
coreografia Beate Vollack

“Parole&Musica attraversano i confini”: una nuova rassegna dedicata al Lied a Trieste

Trieste è una piccola città ma è ricchissima, da sempre, di iniziative culturali ad ampio spettro.
Sono frequenti le occasioni in cui ci sono diversi eventi concomitanti e bisogna a malincuore fare una scelta.
Vale anche per la musica colta – ammesso che l’aggettivo sia pertinente – perché oltre alle istituzioni più note come il Teatro Verdi e la Società dei Concerti operano sul territorio numerose associazioni culturali che allestiscono serate di ottimo livello dedicate alla musica da camera, alla musica antica e quant’altro.
È il caso dell’Associazione Friedrich Schiller, con la direzione artistica di Elia Macrì, che propone in queste settimane “Parole&Musica attraversano i confini”: una nuova rassegna dedicata al Lied e non solo che calza perfettamente alla vocazione mitteleuropea del capoluogo regionale, da sempre crocevia di culture di confine. Alla manifestazione, che si svolgerà in sei appuntamenti sino a giugno inoltrato,  si affianca anche un concorso dedicato alla musica liederistica che vedrà in giuria, tra gli altri, Fabio Nieder e Salvatore Sciarrino. Lo stesso Macrì è intervenuto all’inizio per declinare le aspettative e la mission dell’associazione.
Per chi scrive è stata una grande emozione tenere a battesimo un progetto lungimirante e ben strutturato, che promuove un’Arte, quella del Lied, che pur essendo di provenienza tedesca ha molte affinità elettive con l’immaginario collettivo delle nostre terre.
Il programma era molto interessante e prevedeva l’esecuzione di brani di Robert Schumann, Josef Rheinberger e Johannes Brahms, affidati a due artisti che fanno parte della fondazione triestina – Benjamin Bernstein, prima viola dell’Orchestra del Verdi e il contralto Anna Katarzyna Ir artista del Coro – e la pianista Natalia Morozova.
Il concerto, che si è svolto nell’Auditorium Marco Sofianopulo del Museo Revoltella perché la Sala Beethoven è momentaneamente inagibile, è principiato con il Märchenbilder op.113 di Schumann.
Strutturata in quattro brevi movimenti, la pagina musicale si snoda con leggerezza in un continuo dialogo tra il suono caldo e avvolgente della viola e gli spesso delicati interventi del pianoforte, in un susseguirsi di atmosfere cangianti e oniriche che si compenetrano con dolcezza.
A  seguire è entrata in scena il contralto Anna Katarzyna Ir, che è stata protagonista di un piccolo tour de force in cui ha cantato ancora Schumann (Widmung), i Fünf Lieder op.4 di Rheinberger e dello stesso compositore Gesänge altitalienischer Dichter, alternando quindi la lingua tedesca a quella italiana tra microclimi psicologici anche assai diversi tra loro sulle liriche, tra gli altri, di Heine. Bellissima, in particolare, l’esecuzione dell’eterea Sapphische Ode di Brahms.
Ancora Brahms è stato protagonista nel finale del concerto, prima con la Sonata per viola e pianoforte op.120 n.2  – ricca di malinconici chiaroscuri – e poi con i Zwei Gesänge op.91 per contralto, viola e pianoforte.
Gli esiti artistici della serata sono stati ottimi e sembra quasi inopportuno sottolineare come i protagonisti siano stati all’altezza dell’impegno. Mi limito a segnalare il legato, la concentrazione e la compostezza di Benjamin Bernstein, il passionale pianismo di Natalia Morozova e il bellissimo colore della voce di Anna Kataryna Ir, che hanno tutti raccolto un meritatissimo successo e alla fine hanno concesso anche un bis, eseguendo Morgen! di Richard Strauss.
Di là di ogni altra considerazione è stata una serata emozionante, un viaggio seguito con attenzione dal pubblico in una sala che ha presentato qualche criticità dal punto di vista dell’acustica, almeno dalla mia posizione. Il che mi suggerisce una domanda che resterà senza risposta: oltre che investire nel turismo – mi si perdoni – straccione, vedremo a Trieste una sala da concerto decente, un giorno?

ViolaBenjamin Bernstein
PianoforteNatalia Morozova
ContraltoAnna Katarzyna Ir
  
Robert SchumannMärchenbilder op.113
Robert SchumannWidmung
Josef RheinbergerFünf Lieder op.4
Josef RheinbergerGesänge altitalienischer Dichter
Johannes BrahmsSapphische Ode op 94
Johannes BrahmsSonata per viola e pianoforte op 120 n.2
Johannes BrahmsZwei Gesänge op.91
  
Direzione artistica Elia Macrì

Un Nabucco interminabile ottiene un buon successo al Teatro Verdi di Trieste

Nabucco, notoriamente, è l’opera che diede la svolta alla carriera di Giuseppe Verdi ed è una delle più autenticamente popolari del Maestro.
Opera risorgimentale, che negli anni è diventata simbolo senza confini di liberazione dei popoli oppressi, Nabucco è un lavoro in cui i contrasti laceranti tra pubblico e privato si compenetrano nel contesto di un conflitto che è religioso e politico.
Giancarlo Del Monaco, regista di questa produzione che proviene da Zagabria, sceglie di evidenziare la parte più squisitamente politica ambientando la vicenda durante le Cinque giornate di Milano.
Le scenografie di William Orlandi sono imponenti e quasi intimidatorie, mentre i costumi sono sembrati pertinenti ma un po’ dimessi e l’impianto luci – di Wolfgang von Zoubek  – piuttosto piatto e privo di cromatismi che avrebbero, forse, ravvivato un allestimento che ha sofferto di una spossante staticità accentuata da due intervalli e tre cambi scena che hanno ucciso la continuità della narrazione e assassinato l’incalzante drammaturgia teatrale.
C’è poi l’annosa questione del coro Va pensiero, ieri bissato a furor di…Daniel Oren, che sostanzialmente ha incitato il pubblico a replicare il famoso coro. Gli applausi, meritatissimi, dopo la prima esecuzione sarebbero stati più che sufficienti. Il bis ha solo stremato ulteriormente pubblico e compagnia artistica senza aggiungere nulla alla tensione emotiva della serata.
Daniel Oren sul podio dell’Orchestra del Verdi, quindi, un connubio artistico complessivamente felice nel passato e – dopo qualche problema risolto non senza difficoltà – rinnovato negli ultimi anni.
Anche ieri la direzione di Oren è sembrata di ottimo livello sia nell’accompagnamento ai cantanti sia nella gestione delle problematiche dinamiche della partitura, che alterna momenti di raccoglimento ad altri di infuocata tensione. Trovare un equilibrio non è facile e, nonostante qualche episodico eccesso di decibel, l’interpretazione del maestro israeliano è stata efficace. L’Orchestra del Verdi ha risposto benissimo alle sollecitazioni del podio con un suono genuinamente verdiano in cui archi e legni si sono distinti in modo particolare.
Roman Burdenko è stato protagonista di una prova più che buona e ha tratteggiato in modo efficace il Re di Babilonia, connotandolo di tutti quei turbamenti e quelle esuberanze caratteriali che caratterizzano il personaggio. Fraseggio curato, attenzione alla parola scenica e – da non sottovalutare – uno strumento vocale omogeneo in tutti i registri, acuti compresi.
Maria José Siri, che nel finale è stata sostituita per un’improvvisa indisposizione da Olga Maslova – in teatro faceva caldissimo – ha interpretato Abigaille con la consueta solidità vocale e acuti ragguardevoli, anche se da un soprano del suo livello ci si aspetterebbe un fraseggio più mobile.
Rafal Siwek è stato uno Zaccaria di grande umanità al quale è però mancata quella autorevole ieraticità che caratterizza il personaggio.
Carlo Ventre, Ismaele, ha affrontato con slancio una parte tenorile ingrata e poco remunerativa perché non ha grandi arie o melodie accattivanti, ma ne è uscito con dignità.
Elmina Hasan è stata bravissima nei panni di Fenena, anche se nella bellissima aria Oh, dischiuso è il firmamento è sembrata un po’ intimidita.
Buono il rendimento di Cristian Saitta (Gran Sacerdote di Delo) ed efficace Christian Collia nei panni di Abdallo; completava il cast Elisabetta Zizzo (Anna).
Eccellente – e non solo nel Va pensiero –  il Coro del Verdi, preparato da Paolo Longo.
Teatro sostanzialmente esaurito, ed è sempre una bella notizia. Pubblico partecipe che ha tributato un franco successo a tutta la compagnia, manifestando particolare calore per Roman Burdenko e Daniel Oren.
Segnalo che giovedì 28 marzo alle 20 è stata programmata last minute un’esecuzione della Messa di Requiem verdiana.

NabuccoRoman Burdenko
AbigailleMaria José Siri
ZaccariaRafal Siwek
IsmaeleCarlo Ventre
FenenaElmina Hasan
Gran Sacerdote di BeloCristian Saitta
AbdalloChristian Collia
AnnaElisabetta Zizzo
  
DirettoreDaniel Oren
Direttore del CoroPaolo Longo
  
RegiaGiancarlo Del Monaco
Scene e costumiWilliam Orlandi
Impianto luciWolfgang Von Zoubek
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
Civica Orchestra di fiati “Città di Trieste”

Mahler e Strauss, colti in composizioni giovanili, protagonisti con il Quartetto Werther alla Società dei Concerti di Trieste.

Un’altra serata dedicata alle composizioni per “quartetto” nella stagione della Società dei Concerti di Trieste: protagonista il Quartetto Werther che ha eseguito pagine musicali di Mahler/Schnittke e Strauss.
L’ensemble è costituito da giovani musicisti che hanno studiato insieme in Conservatorio dove hanno trovato unità d’intenti e passione comune.
Gli esiti artistici di questo affiatamento si sono manifestati subito, perché già nel 2020 si sono aggiudicati il Premio Abbiati, conferito dall’Associazione Nazionale Critici Musicali di cui chi scrive fa immeritatamente parte.
Il tema del concerto erano brani di due giganti della Musica come Mahler e Strauss colti in composizioni giovanili, prima che diventassero appunto celeberrimi.
Nel caso del quartetto di Mahler la situazione è singolare, perché c’è stato sul lacerto di musica autografa un intervento aggiuntivo di Alfred Schnittke, compositore russo polistilista dalla vita assai travagliata, che nel 1988 riesumò le note mahleriane e ne prese ispirazione per uno Scherzo in cui le atmosfere classicheggianti vengono inghiottite dalle inquietudini del Novecento.
Il risultato è avvincente ma piuttosto straniante, perché la transizione tra i due movimenti è sembrata violenta e piuttosto artefatta.
Diverso il discorso per quanto riguarda i Cinque pezzi per quartetto con pianoforte di Richard Strauss, una raccolta forse non troppo omogenea nell’ispirazione ma che comunque lascia intravedere in nuce lo straordinario talento visionario del Compositore, soprattutto nella trascinante e originale Arabischer Tanz.
Dopo l’intervallo è stato eseguito, sempre di Strauss, il Quartetto in do minore op.13 in cui si fiuta una diversa maturità espressiva che si manifesta con una pagina musicale di ampio respiro sinfonico nonostante l’organico ridotto.
Per chi conosce la musica di Strauss la sensazione è stata quasi di percepire l’afflato di un artista pronto al decollo ma ancora trattenuto a terra da qualche remora psicologica.
I giovani del Quartetto Werther sono stati protagonisti di una prova maiuscola per pertinenza stilistica, pulizia interpretativa e tecnica. Inoltre, il gruppo trasmette una piacevole sensazione di empatia col pubblico e di divertimento nel fare musica insieme, che si evidenzia anche con un portamento equilibrato e disinvolto sul palco.
Più volte chiamati al proscenio, hanno proposto come bis una elettrizzante interpretazione del Rondò del Primo quartetto in sol minore di Brahms che da sola valeva la partecipazione alla serata.

ViolinoMisia Iannoni Sebastianini
ViolaMartina Santarone
VioloncelloVladimir Bogdanovic
PianoforteAntonio Fiumara
  
Gustav Mahler/Alfred SchnittkeQuartetto in la minore per pianoforte e archi
Richard StraussCinque pezzi per quartetto con pianoforte
Richard StraussQuartetto in do minore op.13
  
Quartetto Werther

Il Kelemen Quartet alla Società dei Concerti di Trieste: Haydn e Bartók emozionano con i loro Quartetti.

La stagione della Società dei Concerti di Trieste, che prevede ben quattordici serate, è nel pieno dello svolgimento.
Ancora qualche numero: per la storica istituzione culturale triestina questa è la novantaduesima stagione e nell’arco degli anni i concerti sono arrivati a 1506, una quantità davvero impressionante che testimonia una presenza sul territorio continua e, soprattutto, di qualità.
Ieri è stata la nobilissima e antica Arte del Quartetto d’archi a essere protagonista, declinata da due giganti del repertorio come Haydn e Bartók. È stata l’occasione per un viaggio in tempi e stili diversi, in cui le personalità dei due compositori si sono affacciate sul palcoscenico del Teatro Verdi grazie all’esibizione del Kelemen Quartet nella classica formazione che prevede due violini, una viola e un violoncello.
La serata si è aperta con l’esecuzione del Quartetto per archi in re minore Op. 76 n. 2 “Delle Quinte” in cui si fa riferimento alle coppie di quinte discendenti dell’Allegro iniziale.
In questa pagina si percepisce subito il clima tardo settecentesco, di transizione, tipico della musica dell’Haydn più maturo. I rimandi e i dialoghi tra gli strumenti costruiscono una trama gentile, spesso un po’ âgé (penso al Minuetto) in cui c’è però spazio anche per ragguardevoli virtuosismi del violino sul pizzicato degli altri strumenti.
Immediato, sin dalla prima nota, il cambio di temperie culturale col secondo brano, il Quartetto n.4 in do maggiore di Béla Bartók in cui le inquietudini del Novecento e le suggestioni di Stravinskij si intersecano in un ritmo sincopato innervato da una tensione emotiva che si dipana tra strappi, pizzicati e arditi cromatismi.
C’è spazio anche per un breve lacerto (nel terzo tempo, non troppo lento) in cui il violoncello è protagonista di un’oasi se non melodica meno percussiva e incalzante; la musica della notte in perfetto stile bartokiano.
Dopo l’intervallo, è stata ancora la volta del genio ungherese, in questo caso nel Quartetto n.3 che, a parere di chi scrive, rappresenta l’essenza dell’ispirazione di Bartók.
Vi si ritrovano infatti buona parte dei topoi del compositore, che si rifanno anche alla Seconda Scuola di Vienna con il caratteristico carico di dissonanze, atonalità e asperità quasi brutali pur restando nell’ambito di un approfondimento della musica popolare ungherese in chiave espressionista.
Il Kelemen Quartet nell’arco della serata è stato protagonista di una prestazione magnifica per unità di intenti, controllo delle dinamiche, tecnica e virtuosismo.

 Soprattutto, ha dato conferma di come il quartetto sia anche una metafora felicissima del detto popolare “L’unione fa la forza”, nel senso che il lavoro di gruppo e l’armonia umana e artistica tra gli interpreti è l’unico modo per arrivare a un risultato finale prezioso; i protagonismi, gli eccessi dell’ego possono aspettare.
Il pubblico, a dire il vero non strabordante, ha decretato un grande successo alla serata che si è chiusa con un bis ancora dedicato a Bartók. La Burletta dal Quartetto n.6, in cui ancora una volta il pizzicato è stato al centro dell’attenzione.

Franz Joseph HaydnQuartetto per archi in re minore Op. 76 n. 2 “Delle Quinte”
Béla BartókQuartetto n.4
Béla BartókQuartetto n.3
  
ViolinoBarnabas Kelemen
ViolinoJonian Ilias Kadesha
ViolaKataklin Kokas
VioloncelloVashti Hunter
  
Kelemen Quartet

A Lubiana bellissima produzione di Evgenij Onegin, protagonista una compagnia artistica giovane e affiatata.

Il Teatro dell’opera di Lubiana ha una programmazione stringente, tipica delle capitali europee; nelle alzate di sipario sostanzialmente giornaliere si alternano opere, operette e balletti.
La produzione di Evgenij Onegin che ho seguito in questa occasione ha debuttato nel maggio del 2023 e, nonostante le tantissime serate, anche ieri il pubblico ha affollato il teatro.
Vinko Möderndorfer, artista poliedrico, firma la regia di questo allestimento che si può definire minimalista nell’ispirazione e al contempo più che sovrabbondante di idee pur rientrando nella categoria delle interpretazioni “fedeli al libretto”.
Le scenografie sono scarne ed essenziali, con qualche citazione magrittiana e un’attenzione di stampo cinematografico per le simmetrie e in generale per la distribuzione sul palco degli elementi scenici e dei protagonisti. Ogni atto è trattato con grande cura anche per ciò che riguarda la recitazione e le interazioni tra i cantanti, le controscene interessanti e non fini a se stesse perché aggiungono sostanza alla narrazione senza appesantirla inutilmente.
Allo stesso modo le coreografie – i balli, come noto, hanno un’importanza capitale nell’Onegin – sono trattate con misura ma senza rinunciare alla spettacolarità. I costumi, appropriati, sono spesso nello spettro delle cromie pastello e mantengono un’eleganza sobria. L’impianto luci è efficace e dà tridimensionalità allo spettacolo.
Nel complesso si tratta di una produzione riuscita anche perché sul podio il direttore, Marko Hribernik, va nella stessa direzione del regista e non c’è distonia tra la musica e quello che si vede sul palco.
L’Orchestra del teatro risponde benissimo soprattutto col suono, magnifico, degli archi, ma tutte le sezioni hanno brillato per pertinenza stilistica e omogeneità. Forse nei momenti più infuocati della meravigliosa partitura un po’ di calore ed enfasi in più non avrebbero guastato, ma il rischio sarebbe poi stato di spalmare di melassa le note di Ciajkovskij e quindi di commettere un atto mortale dal punto di vista artistico.
Eccellenti, come da tradizione locale, le prestazioni del Coro e del Corpo di ballo.
Per quanto riguarda la compagnia di cantanti, come spesso accennato tutti artisti “residenti, mi preme sottolineare in primis la buona resa vocale e attoriale di tutte le parti che si definiscono “minori”, che hanno contribuito a rendere efficaci i momenti di sommesso canto di conversazione e anche i limitati interventi solistici. In particolare ho apprezzato la bellissima resa di Janco Volčanšek il quale, pur con mezzi vocali non straripanti, ha creato un Gremin di spessore artistico notevole. Da evidenziare anche l’ottima prova di Emilia Rukavina, capace di dare uno spessore importante alla centrale figura di Olga che è involontaria scaturigine del fatale litigio tra Onegin e Lenskij.
Ma a far decollare la serata sono state le bellissime prestazioni del trio di protagonisti, tutti artisti preparati e giovani.
Mojca Bitenc è stata convincente nel tratteggiare la giovane Tatjana con partecipazione emotiva e intelligente uso del suo strumento vocale da soprano lirico. Nella famosa scena della lettera, lunghissima e onerosa, ha reso mirabilmente le ansie e le insicurezze giovanili del personaggio, ribadite poi anche nel finale ma con la consapevolezza della donna più matura.

Eccellente Domen Križaj nei panni di Onegin. Voce bella, penetrante, fraseggio accurato e acuti sicuri, il giovane baritono ha reso perfettamente tutte le sfaccettature di un personaggio tutt’altro che facile che vive la sua parabola di vita in modo tormentato sia nella spensieratezza sia nella disperazione.

Bravissimo anche Martin Sušnik, Lenskij commovente ed elegante, che può contare su una voce di timbro solare e bello, molto italiana se vogliamo, che sale con facilità agli acuti ed è omogenea in tutti i registri. Davvero centrata la sua interpretazione di una delle arie più famose dell’opera, quella “Kuda, kuda” che richiede sia una preparazione tecnica ineccepibile sia un’intensa propensione all’empatia.
Pubblico molto numeroso e attento, proveniente dai paesi limitrofi con una non esigua quota parte di turisti, che ha accolto tutta la compagnia artistica con applausi anche a scena aperta. Entusiasmo alle stelle per i protagonisti principali e per il direttore d’orchestra.

TatjanaMojca Bitenc
OlgaEmilia Rukavina
LenskijMartin Sušnik
OneginDomen Križaj
GreminJanco Volčanšek
FilipjevnaMirjam Kalin
LarinaSabina Gruden
ZareckiZoran Potocan
TriquetAndrej Debevec
PoveljnikRok Bavcar
  
DirettoreMarko Hribernik
  
RegistaVinko Mödernorfer
ScenografiaBranko Hojnik
CoreografiaRosana Hribar
CostumiAlan Hranitelj
Impianto luciPascal Mérat
  
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Lubiana
  
Corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Lubiana

Recensione di Anna Bolena di Gaetano Donizetti al Teatro Verdi di Trieste: un cast omogeneo onora la sfortunata regina Anna

Primo titolo dell’anno nuovo, Anna Bolena è tornata al Teatro Verdi di Trieste nella stessa produzione del 2012 firmata per la regia dal grande Graham Vick – ora purtroppo scomparso – e ripresa anche questa volta da Stefano Trespidi.
Gli esiti artistici sono stati complessivamente migliori in quest’ultima occasione, mentre nel 2012 brillò solo, lucentissima, la stella di Mariella Devia.
Per quanto riguarda l’allestimento non ho molto da aggiungere a quanto scrissi a suo tempo, anche se onestamente devo dire che negli anni lo spettacolo si è un po’ rivalutato, probabilmente perché la compagnia artistica più omogenea e una direzione più appropriata lo rendono più scorrevole.
Resta però, a mio parere, una regia irrisolta, che punta troppo sullo sfarzo – qualche volta di gusto discutibile – di scene e costumi e palesando una staticità di fondo che contraddice il tumulto di sentimenti dei protagonisti.
Le opere di Donizetti sono difficilissime da dirigere, abbondano i concertati, la gestione ritmica è complessa, l’accompagnamento ai cantanti deve essere espressivo e l’equilibrio sonoro bilanciato; inoltre, deve uscire la tinta dell’opera che in questo caso è un caleidoscopio di cromatismi dallo spettro molto ampio. Anna Bolena è poi un’opera lunga, ha obbiettivamente qualche momento in cui la tensione emotiva tende a smorzarsi.
Francesco Ivan Ciampa, con la sua lettura meditata e al contempo rovente del quale amo anche la sobrietà sul podio, è riuscito a calibrare tutte queste suggestioni in modo esemplare alla testa di un’Orchestra del Verdi in splendida serata in cui tutte le sezioni hanno brillato e concorso al favorevole esito della recita.
Come dicevo sopra la compagnia artistica era omogenea ed equilibrata e, a partire dalla protagonista, tutti hanno dato un contributo prezioso alla buona riuscita complessiva della serata.
Salome Jicia ha vestito i panni di Anna Bolena e lo ha fatto con pertinenza stilistica e vocalità adatta, per quanto nel primo atto qualche acuto sia uscito un po’ schiacciato. Il fraseggio e l’attenzione alla parola scenica però non sono mai mancati e dopo l’intervallo la sua prestazione è stata splendida e trascinante ed è culminata nel lungo finale in cui il soprano ha dato il meglio di sé sia dal lato vocale sia da quello attoriale.
Il pubblico, giustamente, l’ha premiata con applausi anche a scena aperta.
Molto brava anche Laura Verrecchia, anche lei artefice di una prova in crescendo dopo un inizio un po’ titubante probabilmente dovuto all’emozione della prima. Giovanna Seymour è forse il personaggio dell’opera più complesso psicologicamente, attanagliata da un lacerante disagio che si presenta nei duetti con Enrico e Anna all’inizio dei due atti in cui il mezzosoprano ha dato il meglio di sé.
Marco Ciaponi ha dato un’interpretazione da manuale di Riccardo Percy, superando con (apparente) facilità i numerosi scogli della difficilissima parte. Il tenore ha molte frecce al suo arco in questo repertorio: dizione chiara, voce non enorme ma squillante, facilità nella salita agli acuti e compostezza scenica. Accorata e partecipe l’interpretazione della meravigliosa “Vivi tu”, una delle arie più belle per tenore protoromantico.
Autorevole e al contempo autoritario, sprezzante e austero, Riccardo Fassi ha dato vita a un credibile ed eloquente Enrico VIII grazie a una presenza soggiogante e alla voce da basso di buon volume, ben timbrata e gradevole.
Veta Pilipenko ha tratteggiato con intelligenza la parte en travesti dell’ingenuo Smeton, figurando bene anche dal punto di vista scenico.
Bravi anche i coprotagonisti: Andrea Schifaudo è stato un Hervey di lusso, sonoro e dalla bella dizione; buona anche la caratterizzazione un po’ rude di Nicolò Donini di Rochefort.
Ottima la prova del Coro, in particolare nella sezione femminile.
Teatro non esattamente esaurito, probabilmente anche a causa del freddo pungente acuito dalla amatissima bora. Il pubblico ha però apprezzato lo spettacolo e ha manifestato approvazione con lunghi applausi a tutta la compagnia decretando un calorosissimo successo agli interpreti principali.

Anna BolenaSalome Jicia
Giovanna di SeymourLaura Verrecchia
Lord Riccardo PercyMarco Ciaponi
Enrico VIIIRiccardo Fassi
SmetonVeta Pilipenko
Lord RochefortAndrea Schifaudo
Sir HerveyNicolò Donini
  
DirettoreFrancesco Ivan Ciampa
  
Direttore del CoroPaolo Longo
  
RegiaGraham Vick ripresa da Stefano Trespidi
Scene e costumiPaul Brown
  
  
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste

Il Teatro dell’Opera di Lubiana apre la stagione con Werther di Jules Massenet.

Il Teatro dell’Opera di Lubiana ha aperto la stagione lirica con il Werther di Massenet, l’opera dello spleen.

Cosa s’intende con questo termine? Io direi che si possa individuare come una specie di disagio esistenziale ammantato di una malsana malinconia, aggravato da una propensione all’incapacità o forse addirittura alla volontà di negarsi una vita serena.
Altri potranno trovare parole diverse e citare Baudelaire e il Decadentismo, e avrebbero probabilmente ragione. La sostanza rimane quella, credo: siamo nelle sabbie mobili dell’infelicità esistenziale, terreno infido e pericoloso soprattutto se a complicare la situazione ci si mette un amore sfortunato e/o non corrisposto. Una tristezza, per certi versi, molto francese ma senza nasino all’insù, anzi, rinforzata da sana disperazione melodrammatica italiana, quella dei gesti estremi.

Lavoro di difficile decifrazione, Werther, che per collocazione temporale si può definire tardoromantico. Era il 1892 quando l’opera debuttò a Vienna (dopo essere stata rifiutata dagli impresari parigini per…manifesta tristezza!) e in quegli anni in Italia era già partita la carica culturale della Giovane Scuola che sventolava la bandiera del Verismo.

Le radici di Werther però risalgono a molti anni prima e cioè al celeberrimo romanzo epistolare I dolori del giovane Werther di Goethe, scritto nel 1774, considerato uno dei prodromi al movimento romantico.

Va detto però che rispetto alla fonte letteraria il libretto ammorbidisce abbastanza la vicenda, non tanto negli esiti quanto nelle atmosfere, che perdono parte di quella tinta desolata che caratterizza il romanzo. Si pensi alla scena finale dell’opera, in cui la presenza di Charlotte sembra – com’è stato osservato a ragione – quasi consolatoria in confronto alla terribile solitudine in cui avviene il suicidio del protagonista nel testo di Goethe.

Ed è proprio quest’ambiguità che, probabilmente, rende così affascinante l’opera di Massenet, che si dipana in equilibrio precario tra atmosfere tipicamente francesi screziate da slanci umorali da melodramma italiano. E certo, ci sono lo spleen e il mal de vivre che ammantano una vicenda tutto sommato banale, in cui si ritrovano alcuni dei tòpoi del melodramma – direi della drammaturgia teatrale – più classico: il peso dell’amore materno, il sentimento non corrisposto, le incaute promesse, l’incomunicabilità e il finale tragico.

Oggi Werther è uno dei simboli dell’opera francese e perciò, a distanza di tanti anni, possiamo affermare con certezza che il famoso impresario Léon Carvalho – deus ex machina dell’Opéra – Comique – quando cassò il Werther perché “vicenda triste, priva d’interesse e condannata a priori a scomparire” prese una cantonata memorabile.

La regia, affidata a Luis Ernesto Doňas, è di stampo tradizionale sotto ogni punto di vista ma si apprezza il lavoro di cesello fatto sulle interazioni tra i protagonisti principali e non solo. La presenza dei ragazzini – bravissimi peraltro – all’inizio dell’opera risulta un po’ troppo invasiva perché distrae dalla musica ma nel complesso l’allestimento è equilibrato e scorre felicemente, anche perché è previsto un solo intervallo e i cambi scena sono contenuti in tempi ragionevoli. Ingenua, ma d’effetto l’entrata di Werther dalla platea.
Le scenografie di Chiara La Ferlita, impreziosite dal suggestivo impianto luci di Camilla Piccioni, sono improntate a una scabra e funzionale semplicità ma al contempo ricche di particolari che contribuiscono alla comprensione della narrazione. I costumi di Elisa Cobello sono allineati al resto: pertinenti ed eleganti nella loro semplicità.
In linea con la regia mi è sembrata la direzione di Ayrton Desimpelaere, circostanza che è sempre un ottimo viatico per la buona riuscita di una rappresentazione operistica.
Il giovane direttore non indugia troppo in sentimentalismi zuccherosi e privilegia invece una virile tendresse mettendo in primo piano la narrazione teatrale, sottolineando i cromatismi della partitura ma sempre con colori tenui, in modo che le pennellate di suono più enfatico nei momenti più marcatamente drammatici spicchino vividamente. Le agogiche sono stringenti ma non precipitose o superficiali sin dall’Ouverture, grande affresco della passione tumultuosa del protagonista. La struttura quasi cameristica (il Clair de Lune che chiude il primo atto, per esempio) di certe scene viene esaltata anche grazie all’ottima prova dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Lubiana, eccellente in particolare negli archi e nei legni. Buona anche la prestazione del coro e dei ragazzi del coro di voci bianche.

La compagnia di canto è stata all’altezza di un’opera difficile che, giustamente, è definita “da tenore” senza togliere nulla agli altri protagonisti.
In questo senso è stato molto bravo Aljaž Farasin, credo all’esordio nella parte, il quale dopo un inizio cauto ha tratteggiato un ottimo Werther sia dal lato vocale sia da quello, altrettanto importante, del coinvolgimento scenico e della recitazione. Mobile, tormentato, dinamico ed efficace Farasin ha colto in pieno il mood dello sfortunato poeta e alla fine ha ricevuto un meritatissimo trionfo che ha accolto con evidente emozione.
Nei panni di Charlotte è stata eccellente, una volta di più, Nuška Drašček, mezzosoprano che per me è un enigma, nel senso che mi chiedo sempre come mai non canti nei teatri di tutto il mondo perché è una cantante/attrice formidabile. Anche ieri ne ha dato prova con un’altra prestazione maiuscola palesando con il fraseggio, la voce contraltile di bellissimo colore e il carisma della grande artista tutte le inquietudini del personaggio.
Convincente il rendimento di Jože Vidic, Albert morbido nell’emissione ed efficace nel tratteggiare un personaggio sfuggente, ferito nell’orgoglio ma al contempo più autorevole che autoritario.
Bene anche Nina Dominko, dalla voce cristallina e educata di soprano leggero, incisiva nel caratterizzare una Sophie fresca e giovane, dinamica e accorata in scena senza risultare petulante o manierata.
Credibile e centrata anche l’interpretazione un po’ crepuscolare di Saša Čano nei panni di un tenerissimo Le Bailli.
Buone le prove degli artisti che hanno interpretato le parti di contorno, che sono sempre indispensabili per la buona riuscita di una serata.
Ricordo che tutta la compagnia di cantanti è composta da artisti residenti perché credo che sia un valore aggiunto notevole per capire che si può fare l’opera, molto bene, senza i grandi nomi dello star system.
Il piccolo e bellissimo teatro era pieno e il folto pubblico ha decretato un trionfo straordinario a tutta la compagnia artistica, con l’applausometro fuori scala per Aljaž Farasin, Nuška Drašček e il direttore Ayrton Desimpelaere.

WertherAljaž Farasin
CharlotteNuška Drašček
Le BailliSaša Čano
SophieNina Dominko
AlbertJože Vidic
SchmidtMatej Vovk
JohannMarko Ferjancic
BrühlmannMatej Velikonja
KätchenInez Osina Rues
  
DirettoreAyrton Desimpelaere
  
Direttore del coroZeljka Ulcnik Remic
  
RegiaLuis Ernesto Doňas
SceneChiara La Ferlita
LuciCamilla Piccioni
CostumiElisa Cobello
DrammaturgiaTatjana Azman
  
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Lubiana

Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Anna Bolena di Gaetano Donizetti, da venerdì 19 gennaio al Teatro Verdi di Trieste

Il primo articolo dell’anno è dedicato alla consueta presentazione di Anna Bolena di Donizetti che debutterà – nello stesso allestimento già visto nel 2012, quando il ruolo del titolo fu interpretato da Mariella Devia – il 19 gennaio al Teatro Verdi di Trieste.
Anna Bolena è uno dei titoli simbolo del Belcanto in senso stretto, anzi ne è una delle vette più alte e impegnative per vari motivi che appaiono evidenti già solo nello scorrere il cast presente all’esordio dell’opera il 26 dicembre del 1930 al Teatro Carcano di Milano.

G.B.Rubini
Giuditta Pasta


Sono nomi leggendari: Giuditta Pasta (Anna Bolena), Giovanni Battista Rubini (Percy) e Filippo Galli (Enrico VIII). Da non trascurare anche la presenza di Elisa Orlandi nei panni di Giovanna Seymour.
l destino delle opere è strano, si sa. La storia della musica è piena di capolavori che incassarono successi clamorosi al debutto per poi scomparire misteriosamente. Anna Bolena è una di queste opere.

Riproposta con una certa continuità sino al 1870, anche perché ripresa da altri artisti straordinari come Giulia Grisi, Luigi Lablache, Matteo de Candia (il celeberrimo tenore Mario), di Anna Bolena poi si persero le tracce, sostanzialmente, sino al 1957, anno in cui fu riproposta alla Scala di Milano.

Maria Callas nei panni di Anna Bolena

Il discorso che riguarda l’oblio di alcune opere che oggi, ai nostri tempi, consideriamo capolavori imprescindibili è piuttosto complesso. Le riscoperte difficilmente avvengono per caso, di solito sono episodi inseriti nel contesto di movimenti culturali di ampio respiro che abbracciano arti diverse e artisti lungimiranti. Spesso entrambi i fattori insieme.
Indovinate chi fu la protagonista di questa riscoperta? Ma certo, la solita Maria Callas che in questa parte credo sia inarrivabile ancora di più che in altre celebrate occasioni. La registrazione – precaria, ma accettabile – di quella serata, ne è testimonianza inequivocabile.
In una lettera Donizetti dopo la prima del 1830 scrisse così:

Trionfo, successo, delirio, sembrava che il pubblico fosse impazzito. Nessuno ricordava un successo così pieno e completo.

Parole che potrebbero benissimo essere usate per la ripresa scaligera del 1957.

E pensare che il management della Scala, come già prima quello del Metropolitan di New York, non era convinto delle potenzialità esplosive dell’operazione, tanto che chiamarono il regista Luchino Visconti per ricreare il binomio vincente con la Callas e puntare sull’effetto “grandi nomi”. Ricordo che negli anni precedenti la strana coppia Visconti-Callas aveva già collaborato più volte alla Scala (La Vestale, La Sonnambula, La Traviata). Successi che sicuramente hanno dato spinta propulsiva al progetto, che con ogni probabilità non sarebbe andato in porto con altri nomi.

Unica pecca, ma erano altri tempi, il Maestro Gianandrea Gavazzeni decise tagli pesanti – a partire addirittura dall’Ouverture ridotta a un moncherino – e abbastanza incomprensibili vista la compagnia di canto che aveva a disposizione. Insieme alla Callas infatti c’erano Giulio Neri, Giulietta Simionato, Gianni Raimondi e una magnifica Gabriella Carturan.
Particolarmente doloroso, tra gli altri, il taglio di una delle romanze tenorili più rappresentative del Belcanto, la bellissima Vivi tu che propongo qui in un’interpretazione di Chris Merritt.

Una curiosità, prima di proseguire.

La vicenda di Anna Bolena ispirò anche il famoso regista Ernst Lubitsch che nel 1920 diresse un film che ebbe una certa notorietà, soprattutto per la presenza della grande attrice tedesca Henny Porten.

Per Gaetano Donizetti l’Anna Bolena fu il primo grande successo, indiscusso, che gli schiuse le porte dei grandi teatri europei di Parigi e Londra. E dire che aveva già composto più di trenta opere!

Per l’occasione tornò ad avvalersi, dopo precedenti esperienze non così positive, del librettista Felice Romani che trasse ispirazione dalla tragedia di Ippolito Pindemonte “Enrico VIII, ossia Anna Bolena” (scritta nel 1816 ma a sua volta largamente attinta all’Henri VIII di Marie-Joseph Chénier del 1791) e da Anna Bolena di Alessandro Pepoli (1788).

Il risultato, anche grazie ai suggerimenti di Giuditta Pasta che seguì da vicino la stesura dell’opera, fu un lavoro che nonostante una certa lunghezza mantiene una costante tensione narrativa e drammaturgica.

La chiave del successo che ottenne l’opera è sicuramente il felice innesto d’innovazione in un contesto tradizionale, e cioè la capacità di Donizetti di non “sconvolgere” il pubblico pur facendo echeggiare i primi vagiti del Romanticismo.

La figura di Anna Bolena, come notò la stessa Callas, è privata quasi del tutto di valenze politiche mentre è approfondita e curata la vicenda umana, il privato della donna offesa e ingiustamente accusata.

Tutti i protagonisti, con l’eccezione di Enrico VIII che però è una specie di convitato di pietra del quale si sentono l’autorità e la presenza anche quando non compare sul palco, possono contare su momenti solistici.

Sono belle le arie affidate a Smeton e a Giovanna, magnifiche quelle di Percy e Anna. Drammaturgicamente importante anche l’uso del coro, e impegnativi i concertati, i duetti.

Ovviamente la protagonista può contare su di una straordinaria scena finale di pazzia (molto diversa da quella della Lucia, che vedrà la luce qualche anno dopo), nella quale le primedonne – se ce la fanno (strasmile) – possono raccogliere successi leggendari.

Propongo appunto questa scena nell’interpretazione di Nostra Signora Maria Callas.
Per completezza segnalo che la discografia ufficiale (in studio) di Anna Bolena non è particolarmente nutrita, mentre sono abbastanza numerose le versioni live.