Credo siano note a tutti le tristi e inquietanti vicende che riguardano Villa Verdi a Sant’Agata di Villanova in provincia di Piacenza, al centro di una lunga e inestricabile diatriba per questioni ereditarie. Sono molte le realtà istituzionali e culturali che si sono attivate per rimediare a una situazione incresciosa e, tra le altre iniziative, anche le Fondazioni liriche stanno fornendo il loro contributo aderendo alla manifestazione “VIVA Verdi” che prevede la realizzazione di concerti straordinari i cui proventi andranno in beneficenza per sostenere il progetto della casa/museo di Verdi. L’esecuzione della Messa di Requiem al Teatro Verdi di Trieste va inserita, meritoriamente, nel prefato contesto. Il Sovrintendente Giuliano Polo ha sottolineato che la scelta è stata dettata dall’esigenza di valorizzare Orchestra e Coro locali e cantanti già presenti a Trieste per Turandot, con l’eccezione di Isabel De Paoli che però risiede in città e, per quello che può valere, ho trovato sensata questa scelta. La direzione è stata affidata ad Alessandro Vitiello, anch’egli triestino e allievo del mai dimenticato Gianluigi Gelmetti che fu sul podio nel 2013 quando il capolavoro verdiano fu eseguito nell’ambito dei festeggiamenti per il centenario dalla nascita del Compositore. Vitiello ha dato una lettura tesa e al contempo attenta a esaltare le caratteristiche spirituali, meditative, della straordinaria partitura verdiana, trovando un equilibrio interpretativo che ha esaltato sia la tellurica irruenza di pagine come il Dies Irae sia la serena compostezza dell’Hostias. L’Orchestra del Verdi ha risposto con passione e competenza alle indicazioni del podio, esibendo soffice morbidezza negli archi, vigore controllato nelle percussioni e robusta precisione negli ottoni, ma tutte le sezioni sono sembrate in gran spolvero. Buona anche la prova del Coro della Fondazione che ha cantato con gusto, raccoglimento e impeto, assecondando le mutevoli atmosfere psicologiche del testo liturgico. La compagnia di canto era omogenea e tutti i solisti hanno ben figurato anche per l’indispensabile compostezza richiesta dalla circostanza. Angela Nisi, nonostante qualche veniale forzatura, si è ben disimpegnata nella parte sopranile, palesando un’incisiva proiezione della voce. Brillante Isabel De Paoli, che ha trovato gli accenti giusti per una parte onerosa che richiede anche affiatamento col soprano nel meraviglioso duetto Recordare. Bravo anche Amadi Lagha, al debutto, che è riuscito a piegare il suo strumento vocale esuberante alle variegate dinamiche che richiede la parte senza sacrificare brillantezza negli acuti. Autorevole Gabriele Sagona, chiaro nella dizione, severo al punto giusto nel Confutatis e austero nel fraseggio nell’arco della recita. Pubblico piuttosto numeroso e assai felice degli esiti artistici della serata, che ha applaudito a lungo tutta la compagnia artistica più volte chiamata al proscenio.
No, non è stata la “stessa” Turandot del 2019, per quanto la sostanza dell’impianto scenico e i due interpreti principali fossero gli stessi. L’allestimento ha guadagnato molto dai nuovi costumi di Danilo Coppola, più vicini alla concezione registica di Davide Garattini Raimondi e, tutto sommato, meno scontati di quelli che a suo tempo furono ripresi dal Teatro di Odessa. La divisione – certo un po’ manicheista – tra buoni e cattivi, tra popolo e regale nobiltà è risultata più chiara. Allo stesso modo, il costume nero si prestava bene al teorico anonimato di Calaf, alla triste parabola della vita di Liù e all’accorata partecipazione del coro, notoriamente protagonista nell’opera al pari degli altri personaggi. Le tre maschere sono state dinamiche, sulfuree, com’è giusto che sia, Turandot fredda e distaccata, ma con qualche cedimento dopo la scena degli enigmi. La versione scelta è stata, come a suo tempo, quella che si interrompe con la morte di Liù e a questo proposito ho trovato giusto il taglio – che si ascoltava con superstizioso disagio – della voce registrata che ricordava la morte di Puccini. Le proiezioni invece dopo un po’ stufano, e se assolvono al loro dovere di dare tridimensionalità allo spettacolo al contempo non aggiungono nulla alla comprensione dello stesso, soprattutto quelle che sembravano uno spot per promuovere il Test di Rorschach. Purtroppo, nonostante qualche criticità veniale, la parte migliore della serata è stato proprio l’allestimento, perché sul fronte musicale – nel teatro lirico bisogna pur cantare e suonare, e farlo bene – le cose non sono andate nel verso giusto. Nulla da eccepire sulla prestazione dell’Orchestra del Verdi, i cui standard sono sempre elevati, mentre qualche perplessità ha suscitato la lettura di Jordi Bernàcer, decisamente orientata su dinamiche spaccatimpani, agogiche frettolose e poco attenta a valorizzare le parti meno estroverse di una partitura che vive sì di contrasti anche importanti ma che non deve essere ridotta a un’edonistica esibizione di suono bombastico. Le percussioni erano spesso sovrastanti, almeno dalla mia posizione. Il Coro, disciplinato e puntuale dal lato scenico, ha cantato bene ma con troppa foga e forse di questo eccesso di decibel è responsabile proprio il podio. Bene i ragazzini del coro di voci bianche, preparati da Cristina Semeraro. È auspicabile che nelle prossime recite si trovi un maggior equilibrio sonoro. Kristina Kolar, eccellente nel 2019, ieri sera è sembrata meno convincente soprattutto nella sortita – certo, di rara difficoltà – in cui è sembrata disorientata e con un’intonazione non ineccepibile. Il soprano si è poi ripresa ma la sensazione è che possa fare molto meglio perché la voce resta adatta alla parte e di rilievo per volume e consistenza. Da migliorare invece la dizione e la pronuncia. Amadi Lagha, convincente Calaf quattro anni fa, è stato al solito generoso ed empatico ma l’accento è parso generico, il fraseggio non approfondito e gli acuti, notoriamente punto di forza dell’artista e infatti esibiti con grande entusiasmo, privi di punta e più grossi che penetranti. Liù è stata interpretata da Ilona Revolskaja che ha una voce assai particolare, di tinta quasi contraltile, che prende corpo negli acuti ma anche affetta da un vibrato stretto molto pronunciato e sostanzialmente inudibile nei registri medio e grave. Buone un paio di messe di voce, ma complici anche una partecipazione scenica dimessa e dizione e pronuncia rivedibili a essere generosi il personaggio non è uscito nella sua tragica grandezza. Problematica anche la prestazione di Marco Spotti, Timur poco incisivo e ondivago nell’intonazione. Molto buono il rendimento delle Tre Maschere che sono state ineccepibili sia dal lato vocale sia dal punto di vista attoriale. Un plauso particolare, non me ne vogliano gli altri colleghi, va al Ping del sempre solidissimo Nicolò Ceriani. All’altezza del cimento anche le parti di contorno che trovate in locandina. Teatro affollato da un pubblico che ha contestato – dal loggione – in modo piuttosto ingeneroso la regia e applaudito con moderazione una compagnia artistica che probabilmente migliorerà di molto il proprio rendimento nelle prossime recite.
Turandot
Kristina Kolar
Calaf
Amadi Lagha
Liù
Ilona Revolskaja
Timur
Marco Spotti
Ping
Nicolò Ceriani
Pang
Saverio Pugliese
Pong
Enrico Iviglia
L’Imperatore Altoum
Gianluca Sorrentino
Mandarino
Italo Proferisce
Prima ancella
Federica Guina
Seconda ancella
Luisella Capoccia
Il Principe di Persia
Massimo Marsi
Direttore
Jordi Bernàcer
Direttore del coro
Paolo Longo
Regia
Davide Garattini Raimondi
Scene e luci
Paolo Vitale
Costumi
Danilo Coppola
Assistente alla regia e movimenti scenici
Anna Aiello
Piccoli Cantori della città di Trieste diretti da Cristina Semeraro
Orchestra di fiati Giuseppe Verdi
Orchestra e Coro del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Venerdì 12 maggio al Teatro Verdi di Trieste “va in onda” la prima di Turandot di Giacomo Puccini e ovviamente mi sento in dovere di scrivere qualche spigolatura sull’opera per i miei happy few. Opera amatissima e popolare Turandot, lasciata incompiuta da Puccini, che morì mentre ne stava scrivendo le ultime due scene poi completate da Franco Alfano con la supervisione di Arturo Toscanini. Ripensando a Turandot, la prima circostanza che mi colpisce è l’indicazione temporale in cui si svolge la vicenda: al tempo delle favole, a Pekino (sì, scritto così). Se ci pensate è molto bello, rilassante, tornare per un paio d’ore al tempo delle favole: è proprio l’essenza di ciò che dovrebbe essere il teatro, una momentanea sospensione della (e dalla) realtà che, come ben sappiamo, non è che sia poi così allegra e spensierata per nessuno. Il libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni fu tratto da una nota fiaba di Carlo Gozzi, già messa in musica con esiti alterni da Antonio Bazzini e Ferruccio Busoni. Le cosiddette fiabe, lo affermo da sempre, andrebbero rilette con gli occhi di un adulto perché nascondono significati simbolici piuttosto inquietanti che per fortuna da bambini non si colgono. Pensate alla produzione dei fratelli Grimm o di Hans Christian Andersen, che non a caso sono definite fiabe iniziatiche. Per fortuna mio papà si è limitato a raccontarmi Il pesciolino d’oro di Aleksandr Puškin che, come potete vedere, effetti nefasti ne ha causati non pochi (strasmile). Comunque, la trasposizione teatrale non segue fedelmente il testo originale, tanto che per esempio il personaggio di Liù – centrale in Puccini – è inventato di sana pianta e non esiste in Gozzi. Puccini aveva ben presente le esigenze teatrali e anzi si riteneva investito della missione di scrivere solo ed esclusivamente per il teatro. Di conseguenza grandi dibattiti, tantissima corrispondenza, qualche volta spiritosa, altre pungente, con i librettisti. I librettisti, poveri, sono proprio maltrattati per default dai compositori…si pensi a Verdi e Piave o Cammarano, solo per citare un caso. Puccini si arrovellò tanto sul finale dell’opera, scrivendo e riscrivendo la musica, scartando molti versi che gli venivano proposti dai librettisti: non trovava una quadratura che lo soddisfacesse del tutto. Purtroppo la malattia che lo minava da tempo non indugiò, invece; morì il 29 novembre del 1924 per i postumi dell’operazione a cui era stato costretto. Per l’editore Ricordi quindi ci fu il problema di affidare a qualcuno la scrittura del finale dell’opera, sulla base degli appunti lasciati da Puccini. La vicenda è complicata, non voglio farla troppo lunga. Il compito fu affidato a Franco Alfano, supportato (o meglio, osteggiato) da Arturo Toscanini. Il risultato è che il finale probabilmente si avvicina abbastanza all’idea di Puccini ma ne confonde lo stile compositivo, anche nella versione rivista da Toscanini. Ancora nel 2002 Ricordi affidò a un compositore contemporaneo la stesura di un altro finale. Luciano Berio, a parer mio, fece un gran lavoro proprio perché volle differenziare la “sua” musica da quella di Puccini. Ma queste sono speculazioni personali e perciò del tutto risibili. In cuor mio sono del parere di Toscanini, che la sera della prima rappresentazione – Teatro alla Scala, 25 aprile 1926 – interruppe l’esecuzione dopo il corteo funebre che segue la morte di Liù: sono perciò molto soddisfatto che probabilmente sarà proprio questa la soluzione che si adotterà per la prima al Verdi. Turandot è un’opera che si stacca nettamente, a mio parere, dal resto della produzione di Puccini, tanto che in molti si sono chiesti come mai sia diventata così popolare. La risposta sta nel genio di Sor Giacomo, capace di far convivere nella partitura elementi di assoluta novità insieme a certi stilemi più tradizionali. Le parti melodiche ci sono, ma paiono quasi dejà vu o meglio illusioni di una musica ormai estinta, fagocitata dal Moloch del Novecento, il secolo della follia. Non è un caso che Webern consideri “importante” Turandot, e lo scriva al suo maestro Schönberg, padre della musica seriale. Le percussioni hanno un’importanza fondamentale e sono usate sia a scopi coloristici sia per tingere di esotico, di quell’oriente che era ai tempi l’ultimo grido della moda, la partitura. Il coro assume le vesti di un vero personaggio, e le sorti di una buona riuscita dell’opera passano in modo rilevante proprio per il coro. In quanto ai cantanti le difficoltà sono notevoli, soprattutto per quanto riguarda la parte della “Principessa di gelo”: scrittura ostica, acuta e difficile anche dal lato interpretativo oltre che tecnico. Il tenore è condannato, oggi, a un Nessun dorma che si avvicini all’idea che ha la vulgata di “Vincerò”, un’aria che non è mai stata scritta (strasmile). Liù ha difficoltà vocali moderate, ma il fraseggio e l’accento devono essere convincenti, altrimenti il personaggio ne esce insipido. Tutto sommato abbordabile la parte da basso di Timur. Decisivo il rendimento delle “maschere” o ministri Ping, Pong e Pang: se la loro prestazione non è all’altezza sono problemi seri perché reggono in modo decisivo la parte centrale dell’opera. Ovviamente il direttore deve trovare la giusta misura, soprattutto nelle dinamiche che possono essere insidiose. Come in tutto Puccini, fondamentale è il lavoro di concertazione che deve rendere preciso il canto di conversazione. Un paio d’anni fa mi ricordai di Turandot in un momento difficile, era il periodo del lockdown severo causato dalla pandemia. È tutto, per ora.
Orfeo ed Euridice, qui a Trieste proposta nella versione 1762 scritta per Vienna, è un’opera di svolta nella storia del melodramma perché rappresenta – insieme ad Alceste dello stesso Gluck – quella che è ormai nota come la riforma gluckiana e cioè il rinnovamento (o il primo tentativo di agire in tal senso) dell’opera seria italiana. Ovviamente il discorso sarebbe ampio e da circostanziare ma la recensione di uno spettacolo non è la sede adatta e perciò mi limiterò alla cronaca di una serata che ha presentato luci e ombre. Al Verdi di Trieste Orfeo ed Euridice mancava dal 2015, quando il regista Giulio Ciabatti ne allestì un pregevole allestimento. In questa occasione la regia è stata affidata a un promettente artista triestino, Igor Pison, che a mio discutibilissimo parere ha completamente frainteso il senso dell’opera sia dal lato della pertinenza stilistica sia dal punto di vista della realizzazione della propria idea. Da sempre sostengo che certi allestimenti polverosi e ripetitivi fanno male al teatro lirico e perciò il mio disappunto non è certo legato al fatto che Pison abbia optato per una trasposizione temporale dell’opera, trasformando Orfeo in una rock star dei giorni nostri con problemi di dipendenza. Il problema è che il dolore per la scomparsa di una persona cara – che è quello che dà la tinta all’opera – non si affronta in lustrini e vestiti sgargianti e sguaiati, senz’altro funzionali all’idea registica ma di gusto almeno dubbio, e che tanta abbondanza di colori contraddice lo spirito austero, severo e minimalista dell’opera, che è lo snodo di una riforma che voleva evitare proprio gli eccessi interpretativi e la pletora di ornamenti barocchi e baroccheggianti degli artisti. Inoltre, le grandi rock star sono eccentriche, esagerate negli atteggiamenti, sovrabbondanti di gigioneria, è vero, ma lo sono sul palco e non nella vita privata in cui al contrario di frequente sono insicure, ipersensibili, spesso in conflitto con se stesse e con il mondo. Ne sono esempi proprio Kurt Kobain e Amy Winehouse, loro malgrado membri del Club dei 27, che Pison cita nella presentazione del suo lavoro nel libretto di sala. Quindi avrei preferito che Orfeo, pur rimanendo una rockstar, nel momento del dolore smettesse i panni del grande incantatore di folle e si presentasse in una veste straziata di vita vera e non ancora in quella, finta e artefatta, del palcoscenico. Perciò, col massimo rispetto del lavoro di Pison, mi chiedo: che valore aggiunto ha apportato la sua regia? Mi ha illuminato su qualcosa? Ha indagato nei rapporti tra i personaggi trovando connessioni nascoste? La risposta a tutte queste domande è no e non solo, viste le prefate considerazioni l’opera ne è uscita impoverita nel suo intimo. Poi, certo, nel contesto dell’allestimento ho apprezzato l’impianto luci, le scene di Nicola Reichert – soprattutto nella parte “infernale” – , ho trovato a tratti suggestive e ben eseguite le coreografie di Lukas Zuschlag in cui i due ballerini rappresentano i Doppelgänger dei protagonisti, mentre i costumi di Manuela Paladin mi sono risultati intrinsecamente indigeribili a prescindere da qualsivoglia considerazione, con l’eccezione delle ombre grigie dell’Ade. L’interazione tra i personaggi mi è sembrata ridotta al minimo e il coro una volta di più statico, con l’eccezione della scena delle Furie. Enrico Pagano, direttore giovane, non ha ancora trent’anni, era alla testa dell’Orchestra del Verdi opportunamente ridotta nell’organico e ha risolto solo parzialmente la plastica maestosità neoclassica, quasi oratoriale, della partitura gluckiana. La sua è stata un’interpretazione equilibrata ma generica, con dinamiche e agogiche prudenti, pacate, che hanno però appiattito una partitura che invece gronda calore e sensualità. Cito solo l’esempio del quasi recitativo Che puro ciel (eccellente l’oboe) in cui Pagano non ha certo fatto all’orchestra triestina quello che la primavera fa ai ciliegi. Daniela Barcellona, dopo un inizio prudente, è stata protagonista di una recita in crescendo in cui ha dimostrato totale padronanza del palcoscenico, la capacità di rendere espressivi e convincenti i lunghi recitativi e che per lei le parti en travesti sono quasi il pane quotidiano. La voce è sempre morbida e vellutata, adatta alla parte e gradevole, con alcune sfumature sombre cheimpreziosiscono da sempre il timbro dell’artista triestina. Ruth Iniesta era nei panni di Euridice che ha interpretato con una grazia e con un sentimento che facevano a pugni con il terribile costume e la spaventosa parrucca impostale dalla regia. Brava nell’accento e nel fraseggio, il soprano è stata all’altezza anche dal punto di vista scenico e attoriale. Olga Dyadiv si è discretamente disimpegnata nella parte di Amore, qui tratteggiato dalla regia in modo eccessivamente petulante e frivolo. Il Coro, vero e proprio personaggio dell’opera, ha dato ulteriore prova della propria eccellenza. Pubblico non certo numeroso, che ha applaudito anche con timing rivedibile (a metà dell’aria Che farò senza Euridice) e che alla fine ha apprezzato tutta la compagnia artistica e in particolare Daniela Barcellona, artista di casa. Qualche contestazione per la regia, che però ha anche incassato applausi convinti. Si replica sino a sabato prossimo, secondo me è uno spettacolo da vedere, nonostante le criticità ampiamente espresse nelle righe precedenti.
Orfeo
Daniela Barcellona
Euridice
Ruth Iniesta
Amore
Olga Dyadiv
Direttore
Enrico Pagano
Direttore del coro
Paolo Longo
Regia
Igor Pison
Scene
Nicola Reichert
Costumi
Manuela Paladin
Coreografie
Lukas Zuschlag
Ballerini solisti
Alexandru Ioan Barbu, Georgeta Capriarou
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
Solisti del corpo di ballo della SNG Opera in Balet Ljubliana
Venerdì 14 aprile 2023 torna al Teatro Verdi di Trieste Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck e perciò mi accingo alla consueta opera di divulgazione semiseria. Purtroppo il tempo è tiranno e mi devo limitare a poche notizie, che però potrebbero risultare interessanti soprattutto a chi sa poco o nulla di questa “azione drammatica in tre atti”. I protagonisti sono un contralto (Orfeo) e due soprani (Euridice e Amore). C’è un altro personaggio di primo piano non dichiarato ed è il Coro, che nella fattispecie ha importanza fondamentale. I personaggi sono tutti simbolici e fanno parte della mitologia greca.
1) Christoph Willibald Gluck (Erasbach 2 luglio 1714 – Vienna, 15 novembre 1787) è stato un compositore tedesco.
2) Ranieri de’ Calzabigi è il librettista dell’opera, ovviamente basata sulle vicende del mito di Orfeo, che da sempre ha ispirato legioni di artisti di tutte le arti. Personaggio dalla vita a dir poco avventurosa, passò dalla condanna per “veneficio” a Napoli alla carica di consigliere alla Camera dei Conti dei Paesi Bassi a Vienna. Chi mi conosce sa che una persona così è un mio idolo assoluto.
3) La riforma gluckiana (argomento che meriterebbe quei 2-3 anni di approfondimenti, strasmile) in sostanza è il tentativo di rinnovamento dell’opera seria italiana del Settecento. Per la successiva Alceste, che davvero realizzò in toto la riforma, Ranieri de’ Calzabigi scrisse una prefazione in cui “spiegava” le motivazioni della sua ansia rinnovatrice. Qui un estratto significativo:
Quando presi a far musica dell’Alceste mi proposi si spogliarla affatto di tutti quegli abusi che, introdotti o dalla mal intesa vanità dei Cantanti, o dalla troppa compiacenza de’Maestri, da tempo sfigurano l’Opera Italiana, e del più pomposo e bello degli spettacoli, ne fanno il più ridicolo e il più noioso.
4) Di Orfeo ed Euridice esistono ben quattro versioni “ufficiali”. La “versione Vienna”, che debuttò nel 1762 appunto al Burghtheater di Vienna e che, credo, è quella che vedremo a Trieste. C’è poi la versione del 1774 per Parigi, che differisce dalla prima perché è in francese e per l’aggiunta di arie per i protagonisti, brani corali e danze (indispensabili a quei tempi a…Paris, e non per motivi particolarmente nobili, strasmile). Orfeo, in questo caso, è cantato da un tenore haute-contre (contraltino). Il motivo è dovuto al fatto che i francesi mal digerivano i castrati (è la prima volta in vita mia che sono d’accordo con un francese, diciamolo). Terza in ordine di tempo è la “versione Berlioz” del 1859, in cui per il protagonista si scelse la vocalità contraltile per la presenza della celeberrima Pauline Viardot. Infine la “versione Ricordi”, una specie di fritto misto su testo della versione del 1774 tradotta in italiano con aggiunte dalla versione Berlioz.
5) Alla prima la parte di Orfeo fu interpretata dal famoso castrato Gaetano Guadagni. Per fortuna i castrati non esistono più da tempo, ma ovviamente il motivo per cui negli anni la parte di Orfeo è stata affidata a baritoni, tenori, controtenori, mezzosoprani e contralti è da ricercarsi soprattutto alla decisione, comune a quei tempi, di affidare la parte a un cantore evirato.
Questo è tutto, almeno per il momento, perché sabato sarà il momento della consueta recensione più seria.
Si è concluso felicemente il trittico di concerti che ha visto Charles Dutoit alla testa dell’Orchestra Filarmonica Slovena durante il mese di marzo. E, parlando metaforicamente di conclusioni è arrivata al termine anche la carriera di Aleš Kacjan, primo flauto dell’orchestra per quarant’anni, che ieri alla fine del concerto è stato omaggiato da Dutoit stesso, dal presidente della compagine Matej Šarc e dai colleghi, oltre che dal pubblico che lo ha abbracciato con ovazioni interminabili e meritatissime perché anche nell’ultima occasione ha suonato benissimo. La serata prevedeva due pagine musicali di Beethoven e Berlioz: compositori diversi, musica diversa. Il concerto è cominciato con la Sinfonia n.1 in do maggiore di Beethoven, alla quale Dutoit – che ha diretto a memoria pure la Sinfonia Fantastica di Berlioz nella seconda parte – ha restituito quella leggerezza mozartiana spesso soffocata da esecuzioni che pensano alla monumentalità del Beethoven successivo. Ma saper dirigere non è solo fare eseguire note all’orchestra, bisogna anche valorizzare quegli strani segni sulla partitura, collocandoli con intelligenza e misura nell’età compositiva dell’Autore. Beethoven è anche compositore di transizione, che ha traghettato la musica dal Settecento – appunto Mozart, ma anche Haydn – e l’ha proiettata nel futuro. Lo sostiene lo stesso Berlioz, in una nota espunta dai suoi studi sulle nove sinfonie del tedesco. L’interpretazione di Dutoit, sostenuto da un’orchestra per la quale ormai non ho più aggettivi, ha dato risalto al brio e alla maschia vaporosità del brano con dinamiche decise e al contempo sfumate e agogiche tese ma non certo frettolose. Eccellenti le prestazioni degli archi e dei legni – viole e violoncelli spettacolari – che hanno contribuito a sottolineare la gioiosa empatia emotiva che sprigiona questa pagina giovanile di Beethoven. Durante l’intervallo mi sono soffermato a osservare il pubblico e sempre più mi convinco che a Lubiana la musica è amatissima da chiunque, con i giovani e giovanissimi che sono competenti e appassionati – un quartetto dissertava acutamente, in inglese, sulle differenze tra Beethoven e Berlioz – e altri, un po’ più in là con l’età, che partecipano all’evento musicale con gioia e senza spocchia di alcun genere. È un ambiente inclusivo, familiare, in cui tutti si sentono a proprio agio. Da anni sostengo che la musica tristemente definita seria soffre di un approccio troppo inamidato da parte di certo pubblico, che la considera quasi come un rito liturgico che ha le sue convenzioni immutabili. Pensieri snocciolati così, senza troppo senso, da un ascoltatore che è stato indirizzato a Beethoven durante l’infanzia dal nonno, semianalfabeta, che però mi dava la “sua” interpretazione della Nona Sinfonia. Berlioz è uno di quei compositori (e uomini) borderline che io amo alla follia. La circostanza non mi impedisce però di rendermi conto che la Sinfonia Fantastica è una di quelle pagine musicali in cui convivono momenti di ispirazione felicissima ad altri meno riusciti; di certo il risultato finale è adrenalinico, rinvigorente. È una musica “da vedere” oltre che da ascoltare – come sostiene mia moglie – perché essere presenti in sala è sicuramente un valore aggiunto che aggiunge un’ulteriore dimensione alla percezione sensoriale. Il vigore degli archi gravi, che spesso innervano di tensione drammatica l’atmosfera, il Valse che fa presagire più la scena del Sabba che la successiva parentesi bucolica, la devastante espressività delle percussioni, la soave bellezza dei legni, la controllata “volgarità” di alcuni momenti degli ottoni sono tutti singoli elementi che concorrono a un viaggio in cui la temperatura emotiva è sempre altissima. Anche in questo caso è stato fondamentale l’approccio di Dutoit, che ha dato spessore e tridimensionalità alla valanga di suono orchestrale senza che si perdano per strada i particolari come gli interventi delle arpe o la studiata ironia dei legni. Serata trionfale, che il pubblico ha sottolineato con entusiasmo e rumorose approvazioni per tutti. Foto di Darja Štravs Tisu Photography.
Charles Dutoit, dopo il primo concerto di qualche giorno fa, ha intrapreso la seconda tappa del suo percorso alla testa dell’Orchestra Filarmonica slovena. Il programma, raffinato e interessante, prevedeva come prima pagina musicale una sua personale selezione dalla Suite Romeo e Giulietta di Sergej Prokofiev, che attingeva a due delle tre versioni scritte dall’Autore. Notoriamente il brano non segue le vicende degli sfortunati amanti: lo scopo è di rendere invece la drammaticità della trama accostando temi molto diversi per valenza emotiva in un intrecciarsi continuo di contrasti espressivi anche violenti. L’operazione, considerata la felicissima serata della compagine slovena, è riuscita pienamente. Dutoit opta per dinamiche vivacissime e agogiche altrettanto tese che però non hanno intaccato la serena bellezza dei passi più lirici e malinconici. Eccellente il lavoro dei legni – i flauti in particolare – e degli ottoni; morbidissimi gli archi, arrembanti le percussioni. I quaranta minuti di musica sono volati e alla fine il pubblico – meno numeroso del solito, ma era la seconda recita del concerto – ha tributato a tutti un grandissimo successo. Tutt’altra atmosfera, più morbida e rilassata, per il celeberrimo Prélude a l’après-midi d’un faune di Claude Debussy, eseguito dopo la pausa. Trasparenza e leggerezza sono state le caratteristiche dell’esecuzione che Dutoit ha cesellato con gesto morbido ma deciso, ben recepito dall’orchestra nella quale, ovviamente, ha brillato di luce fulgente il primo flauto che ha creato un’atmosfera sensuale, sognante e sospesa ma del tutto priva di eccessivi manierismi. Ottimo anche il rendimento delle arpe e delle altre sezioni che hanno dato equilibrio al delicato acquerello ispirato dalle rime di Mallarmé. È toccato poi a Modest Musorgskij, compositore geniale e sfortunatissimo, chiudere il concerto con quella che probabilmente è la sua composizione più famosa: Quadri di un’esposizione nella versione per orchestra firmata da Ravel. È una musica visionaria, piena di un’ironia graffiante e di ripiegamenti cupi, tenebrosi se non addirittura macabri, che quasi costringono a un ascolto teso e concentrato. L’andamento, solo parzialmente stemperato dalla ricorrente Promenade, è davvero schizofrenico. Ma è questa la forza del brano, che sorprende praticamente a ogni nota. Anche in questo caso Dutoit ha scelto una lettura drammatica ma flessibile, capace di valorizzare i momenti più lirici senza che la tensione cali o si afflosci. Ancora una volta è stata fondamentale la straordinaria prestazione dell’orchestra che ha potuto contare sulle eccellenti performance degli ottoni (la tromba!), sul suono corposo e morbido al contempo degli archi gravi e, naturalmente, sulla precisione delle devastanti percussioni che qui Musorgskij schiera con doviziosa abbondanza. Pubblico in visibilio, che ha ripetutamente chiamato al proscenio Charles Dutoit e omaggiato con scroscianti acclamazioni la compagine di casa. Il trittico di concerti si concluderà la settimana prossima con Beethoven e Berlioz.
Vado molto meno di quanto vorrei alla Società dei Concerti di Trieste, ed è un peccato perché le serate sono sempre di gran livello.
Credo di averlo scritto già altre volte, nella musica (da camera, nella fattispecie) il Quintetto è una scuola di vita: tutti gli interpreti concorrono alla bontà del risultato finale, senza prevaricazioni, ma al contempo il loro contributo è scoperto, evidente, al contrario di quanto avviene nella musica sinfonica dove i singoli scompaiono nell’opima abbondanza di flusso sonoro. Questa banale considerazione ha avuto conferma nel concerto di ieri sera dove è stato appunto il Quintetto, declinato dalle diverse sensibilità di Amédée-Ernest Chausson e Johannes Brahms, a essere protagonista con l’ensemble di Kolja Blacher che comprende tre componenti dei Berliner Philharmoniker (Christoph Strueli, Christoph von der Nanhmer e Kyoungmin Park) e altri due solisti di assoluto valore (Claudio Bohorquez e Özgür Aydan). In un Teatro Verdi piuttosto affollato, considerato che era una serata organizzata dalla Società dei Concerti, si è cominciato con il Concerto in re maggiore per violino, pianoforte e quartetto d’archi op.21 di Chausson, strutturato in quattro movimenti ed eseguito per la prima volta nel 1892. Sono rimasto molto colpito dalla fresca e felice inventiva del compositore francese, che mi è sembrato in alcune occasioni (certi arpeggi del pianoforte, in particolare) anticipare suggestioni dell’Impressionismo di Debussy e l’Espressionismo di Ravel, oltre che rifarsi ai cromatismi wagneriani mantenendo un certo esprit tipicamente francese che si è manifestato specialmente nel quarto movimento (Très animé). L’andamento emotivo della pagina musicale è fluido, ma alterna con efficacia sprazzi vivaci ad altri più malinconici – il Grave del terzo movimento – mantenendo una narrazione tesa e vibrante. Eccellente, ça va sans dire, il rendimento dei solisti che hanno dialogato ritagliandosi momenti virtuosistici di grande impatto, come nei rimandi tra violino e pianoforte. Dopo l’intervallo è stata la volta del Quintetto in fa minore per pianoforte e archi op.34 di Brahms, che esordì dopo una genesi travagliatissima nel 1866. In questo caso si è percepita evidente un’atmosfera più saldamente legata all’Ottocento, sia nell’architettura complessiva della composizione sia nella drammaticità spinta di alcuni tratti che hanno ricordato apertamente la monumentalità quasi geometrica di Beethoven. Il pianoforte è usato in modo del tutto diverso, per esempio, con severa drammaticità e anche con una presenza più corposa di decibel. Interessante, a questo proposito, il saggio di Enzo Beacco contenuto nel libretto di sala, che si sofferma sulle problematiche della corda percossa da un martelletto e quella accarezzata sulla cordiera. Nella pagina Brahmsiana, di struttura poderosa che tradisce in qualche modo l’originale provenienza sinfonica, convivono echi di danza popolare e oasi riflessive anche drammatiche, ma sempre nell’ambito di un’esposizione che tiene alta la tensione ritmica. I due movimenti estremi acclarano in modo palese, con la loro simmetricità, la provenienza beethoveniana dell’ispirazione ma al contempo la rendono emotivamente mossa e sorprendente. Anche in questo caso l’esecuzione è stata eccellente e ha messo in mostra la qualità dell’insieme degli interpreti. Successo pieno per l’ottavo appuntamento della stagione della Società dei Concerti triestina, con ripetute chiamate al proscenio dei protagonisti che hanno generosamente donato un bis al partecipe pubblico in cui ho notato, con grande soddisfazione, una notevole presenza di giovani.
médée-Ernest Chausson
Concerto in re maggiore per violino, pianoforte e quartetto d’archi op.21
Johannes Brahms
Quintetto in fa minore per pianoforte e archi op.34
A Lubiana è cominciato, ieri sera, un marzo particolarmente interessante dal punto di vista musicale. Il protagonista è stato e sarà Charles Dutoit il quale, alla verde età di 87 anni, dirigerà cinque concerti sul podio dell’Orchestra Filarmonica Slovena con cui ha un rapporto continuativo. Il primo appuntamento prevedeva l’esecuzione della fantasmagorica Grande messe des morts di quel compositore eccentrico, visionario e geniale che risponde al nome di Hector Berlioz. Questo lavoro mastodontico, composto nel 1837, cambiò, diciamo così, destinazione d’uso; nelle intenzioni doveva essere dedicato alla memoria di un soldato, il Maresciallo Mortier, ma poi per ragioni politiche l’opera fu indirizzata a onorare la memoria di un altro militare, il Generale Damrémont: insomma, così narrano le cronache del tempo. Resta il fatto che si tratta di una composizione folle – giustamente definita qualche volta come un vero e proprio Requiem di cui segue il testo liturgico – che fa riconsiderare a chi l’ascolta per la prima volta il concetto di fortissimo, tanta è la potenza di decibel esplosa da una compagine che fa scomparire anche le orchestre tardo romantiche richieste per un Mahler o uno Strauss. In alcuni momenti la musica ha poco di quel raccoglimento tipico della musica sacra e anzi sembra quasi a puntare a effetti spettacolari, come se Berlioz volesse autoincensare il proprio ego eccentrico. In altre occasioni, invece, pare davvero di essere immersi nell’Empireo e anche la scartatrice di caramelle vicina di posto assume le sembianze di un angelo. Ho contato circa 140 artisti del coro, o meglio dei quattro cori che hanno cantato che trovate in locandina: il loro rendimento, soprattutto per quanto riguarda la parte femminile, è stato superlativo. Eccellente anche la prova della Filarmonica Slovena, ma purtroppo – non so se sia dipeso dalla mia collocazione in parterre, l’acustica del Cankarjev Dom è peculiare – spesso è stata coperta dal coro nonostante Dutoit sollecitasse archi e legni in modo veemente. Ma si tratta di fisime da critico, perché comunque resteranno nella mia memoria di ascoltatore appassionato il tenebroso attacco degli archi gravi nel Dies irae, la dirompente potenza delle percussioni nel Tuba mirum, il meraviglioso supporto dei flauti nell’Offertorium, il tremolo degli archi nel Sanctus – forse il momento più riuscito della serata, in cui ho apprezzato molto la bellissima voce del tenore David Jagodic, posto in alto in galleria quasi fosse un angelo dal cielo – e, soprattutto, il soave incanto del coro femminile che canta a cappella il Quaerens me. In galleria erano inoltre disposte due sezioni di ottoni che, nonostante le ovvie difficoltà logistiche dovute alla lontananza dal podio, sono intervenute con efficacia. Pubblico numeroso, attento e partecipe, che alla fine ha tributato un trionfo colossale alla serata con un quarto d’ora di applausi e ripetute chiamate al proscenio per tutti.
Per capire come il melodramma italiano sia diventato un fenomeno artistico straordinario, bisognerebbe spendere qualche parola anche su di una figura che ormai – almeno nell’accezione dell’Ottocento – è scomparsa. Sto parlando dell’impresario: il suo lavoro è stato fondamentale per la diffusione delle opere che oggi vediamo a teatro in tutto il mondo. Nello specifico, riferendosi a I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, la persona in questione è Alessandro Lanari, collega del più noto Domenico Barbaja, che sostanzialmente lanciò Rossini. La figura dell’impresario si può paragonare a quella dell’agente ai giorni nostri, ma con tanto potere in più, perché gestiva non solo la allocazione dei cantanti ma anche quella di librettisti, compositori, teatri. Insomma una vera eminenza grigia che contribuì in modo fondamentale alla distribuzione di opere dei più grandi compositori italiani: Donizetti, Bellini, Verdi e altri ancora. Verso la fine degli anni Trenta dell’Ottocento Lanari aveva la gestione della Fenice di Venezia e pensò di “usare” Bellini per ridare lustro a un teatro che soffriva, come tutti i teatri italiani, l’esilio di Rossini. Fu così che I Capuleti debuttarono alla Fenice l’undici marzo 1830 seppure tra mille problemi che non è il caso di affrontare in questa sede. Bellini è il classico compositore di confine, che traghetta la musica dalle suggestioni rossiniane e mozartiane a quel gran calderone – in senso buono – che è il Romanticismo. Capuleti (che mancavano a Trieste dal 1974, quando Giulietta fu una sfolgorante Katia Ricciarelli) è un’opera fragile, delicata, la poetica è ancora belcantistica ma, come dicevo prima, guarda avanti. L’espressività di orchestra e cantanti è la parte più importante, quella che può decidere il destino di una rappresentazione. Poi è vero, la vicenda dei Capuleti e Montecchi non sta in piedi, oggi, soprattutto nella riduzione teatrale di Felice Romani il quale, attenzione, non prese spunto dal testo di Shakespeare (pressoché sconosciuto in Italia a quei tempi) bensì da una novella di Matteo Bandello e dalla tragedia “Giulietta e Romeo” di Luigi Scevola. Poco importa perché se cambiano alcuni particolari, soprattutto per quanto riguarda la figura e il ruolo drammaturgico di Tebaldo, la sostanza non cambia. La differenza sta nella musica di Bellini, che avvolge la trama di una specie d’incantesimo fatto di melodie purissime che non a caso compaiono di frequente nei recital dei cantanti. Nell’allestimento pensato da Arnaud Bernard, più volte recensito da OperaClick, la vicenda si svolge in una pinacoteca in cui si stanno svolgendo restauri. Gli operai vanno e vengono, spostano quadri, lavorano con gli strumenti del mestiere, fanno le pulizie. I quadri, prevalentemente in stile rinascimentale – molto bella la scena finale, con i protagonisti letteralmente incorniciati in un suggestivo gioco di luci – raccontano anche della storia degli sfortunati amanti veronesi. L’idea non è particolarmente originale – i tableaux vivants si vedono con una certa frequenza anche nel teatro di prosa – e funziona sino a un certo punto per un motivo molto semplice: troppo spesso i prefati lavoratori vagano per il palcoscenico e, detta fuori dai denti, sviano l’attenzione dalla musica, soprattutto all’inizio. Per il resto l’allestimento è di discreto livello, per quanto le interazioni tra i personaggi siano appena accennate e i costumi soffrano di cromatismi opachi poco valorizzati da un impianto luci piuttosto monotono. Ma Bellini esprime se stesso nella musica, in quelle melodie lunghe amate da Wagner e Verdi, e da questo punto di vista la serata si può considerare riuscita tout court. Enrico Calesso, sul podio di un’Orchestra del Verdi in ottima forma – brillanti tra l’altro le prestazioni delle prime parti, Paolo Rizzuto (corno), Marco Masini (clarinetto) e Matteo Salizzoni (violoncello) – è stato capace di ricreare quell’atmosfera onirica che è sempre presente in Bellini senza rendere il flusso sonoro sfilacciato o monotono, circostanze che affliggono spesso le esecuzioni belliniane dovute all’equivoco che tutto si possa risolvere con le prestazioni dei cantanti. Al contrario, se c’è un compositore che ha bisogno di nerbo e corpo orchestrale questo è proprio Bellini, solo così la compagnia di canto può respirare con l’orchestra e trovare gli accenti più corretti per le melodie di cui sopra. Caterina Sala, da me recentemente ammirata come Nannetta all’inaugurazione della Fenice di Venezia, conferma qui di avere le doti per essere una belcantista di razza. Le manca solo ancora un po’ di maturità artistica, di esperienza, vista la giovane età. Però la sua Giulietta commuove ed è cantata con gusto e pertinenza stilistica, voce adatta alla parte, acuti facili, filati di scuola, legato impeccabile e fraseggio curato. La grande aria Oh quante volte è risolta con efficacia ed eloquenza anche nel bellissimo recitativo che la precede. Giustificato e meritato l’applauso a scena aperta che le ha tributato il pubblico. Inoltre è parso evidente l’affiatamento con Laura Verrecchia nei duetti (in cui davvero gli echi di Norma sono evidenti) e ha recitato con compostezza e intelligenza. Romeo è notoriamente una parte difficile per tanti motivi: è lunga, piuttosto acuta ma soprattutto impegnativa dal lato interpretativo perché Romeo è personaggio ardimentoso e al contempo morbido negli slanci d’affetto. Il mezzosoprano ha vinto la sfida con grande autorevolezza grazie a una voce sonora, smagliante nel registro centrale e sicura negli acuti. Essenziale anche la capacità di essere eloquente senza troppe forzature veriste che con Bellini non c’entrano nulla. Anche per lei, in questa parte en travesti serotina, applausi a scena aperta più che giustificati. Tebaldo, personaggio ingrato perché canta pochino e deve subito superare lo scoglio di un’aria famosa (È serbata a questo acciaro) che si presta a confronti ingenerosi, è stato intrepretato con garbo e sicurezza da Marco Ciaponi, tenore giovane e in ascesa che ha il grande pregio di essere sempre pertinente nell’accento e nello stile. Bellini si canta con grazia e sentimento, e gli slanci testosteronici sono del tutto inopportuni. Bravo il solido Emanuele Cordaro (Lorenzo) e tutto sommato sufficiente anche la prova di Paolo Battaglia, Capellio forse non perfettamente a fuoco dal lato vocale ma efficace da quello scenico. Bene il Coro, come sempre preparato da Paolo Longo. Successo indiscutibile per questa prima, con il pubblico – teatro abbastanza affollato, ma non esaurito – che ha lungamente applaudito tutta la compagnia artistica e ha riservato un trionfo a Caterina Sala e Laura Verrecchia.
Hanno detto: