Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Archivi Mensili: gennaio 2011

Recensione semiseria della Forza del destino al Teatro Regio di Parma: il grande zot.

È scomparso nei giorni scorsi Andrea Giorgi, direttore di cori stimatissimo che ha lavorato in tutti i più prestigiosi teatri d'Europa.
Purtroppo non ho il tempo per scrivere un ricordo articolato come meriterebbe questa grande personalità della musica che lascia un vuoto davvero incolmabile tra gli appassionati e gli addetti ai lavori, e mi devo limitare solo alla notizia.
Riposi in pace.

Premetto che questa mia recensione, sempre semiseria, questa volta è un po’ più attendibile delle altre ricavate da un ascolto televisivo perché ho visto la generale mercoledì 26 gennaio, in occasione della riunione dell’Associazione nazionale critici musicali a Parma.

Tante volte si nomina la parola scenica nelle recensioni o nelle discussioni tra appassionati, e anzi, mi è successo che qualche neofita mi abbia chiesto una definizione chiarificatrice del concetto di parola scenica.
Bene, siccome qui non vogliamo farci mancare niente, faccio rispondere a Giuseppe Verdi, che parlando proprio della Forza del destino, così si esprimeva:
 
…nella Forza del destino non è necessario saper fare dei solfeggi e delle cadenze, ma bisogna aver dell’anima e capire la parola ed esprimerla…
 
Un paradosso, evidentemente, perché l’opera lirica è canto, ma un paradosso che spiega benissimo il concetto di cui sopra.
Ho voluto cominciare con quest’inutile mini tesina perché ad almeno un paio degli interpreti della Forza di questa sera la frase in neretto andava fatta imparare a memoria. Oltre ai problemi vocali, sui quali non si può certo sorvolare, spesso a latitare era l’accento, il fraseggio, la comprensione dell’importanza drammaturgica del testo.
Ci sono state defezioni importanti nel cast originariamente pensato (problemi di salute per quanto riguarda Daniela Dessì e altre circostanze che non conosco per ciò che riguarda Francesco Hong) ed è indubbio che entrambi i citati artisti fossero sulla carta più adatti alla parte dei sostituti che hanno cantato stasera.
Quindi una volta preso atto che Dimitra Theodossiou debuttava la parte e l’ha dovuta studiare in poco tempo e che Aquiles Machado (debuttante anch'egli) era originariamente previsto nel cast alternativo, direi che possiamo andare avanti.
La direzione di Gianluigi Gelmetti è stata piuttosto generica ed è mancata di quell’attenzione e cura al fraseggio orchestrale che è indispensabile per rendere i contrasti di questa partitura verdiana ricchissima.
Gelmetti

In particolare mi è parso, già nell’Ouverture iniziale, che mancasse di vigore e sentimento, soprattutto negli archi. In tutta l’opera, nei momenti drammatici che sono tantissimi, ho avvertito questa mancanza di nerbo e controllata concitazione, sostituiti anche da episodici clangori . Meglio, molto meglio invece nei passi elegiaci e nell’accompagnamento ai cantanti, ma nel complesso la direzione è mancata d’equilibrio e omogeneità.
Mi sono chiesto, e esprimo questo dubbio anche qui, se ciò non dipendesse dal fatto che alcune voci fossero sottodimensionate alle parti e in questo caso la concertazione morbida potrebbe essere una scelta meditata.
Discretamente si è comportata l’Orchestra del Regio e la resa del Coro, davvero magnifico alla generale, è sembrata meno efficace questa sera, ma ho fortissimi dubbi sul posizionamento dei microfoni che metteva inopportunamente le voci del Coro in primo piano, distorcendone la funzione.
Dimitra Theodossiou era nei panni di Leonora e la sua prestazione è stata alterna.
OVI ParmaIl soprano ha personalità, temperamento e anche una discreta disinvoltura sul palcoscenico, ma la voce, soprattutto nella prima ottava, è spesso flebile. Va meglio nel registro acuto, mentre i centri non sono importanti come richiederebbe il personaggio.
Brava nella prima aria Me pellegrina ed orfana, ad esempio, ma deficitaria nella successiva scena con Alvaro e nell'aria Madre pietosa vergine, nella quale la cavata è apparsa chiaramente insufficiente.
Così così La vergine degli angeli.
L'ultimo scoglio,  l'aria Pace mio Dio, è stato accolto in modo opposto dal pubblico: moltissimi applausi e qualche buuu. A me è sembrata dignitosa.
Però, considerato appunto che si trattava di un debutto in un ruolo scorbutico, la prova è da ritenersi sicuramente positiva.

Aquiles Machado non ha il peso vocale per la parte di Don Alvaro ed è stato costretto, dalla prima all’ultima nota, a un canto forzato e generico, sempre sul forte o mezzoforte. Una scelta obbligata perché altrimenti la voce, di timbro non gradevolissimo e di modesta proiezione, non avrebbe passato l’orchestra.
Considerato che Alvaro è tra i personaggi verdiani più tormentati, la circostanza è piuttosto grave.
Poca attenzione ai recitativi, nessuno slancio amoroso, nessun ripiegamento malinconico, accento inesistente.
Paradigmatica della prestazione di Machado recitativo e aria La vita è inferno all'infelice…oh tu che in seno agli angeli, resa senza colori e monotona.
Un Alvaro piatto non può considerarsi riuscito sotto alcun punto di vista.

Più a suo agio Vladimir Stoyanov, che ha interpretato Don Carlo di Vargas in maniera piuttosto monolitica ma possiede una voce adatta alla parte. Inoltre il fratello di Leonora è il personaggio della Forza che meno necessita di scavo psicologico, votato com’è solo alla vendetta. Il baritono ha superato discretamente la prova dell'urna fatale e nel duetto della barella è stato nettamente superiore al tenore, e lo stesso si può dire per entrambi i duelli.
Una prestazione discreta, diciamo.

Mariana Pentcheva, voce importante, ha urlacchiato abbastanza la sua Preziosilla, senza donarle un’identità particolare: una prova modesta e di gusto opinabile, quella del mezzosoprano.
Roberto Scandiuzzi ha cantato più o meno come nella recente prova fiorentina, il suo Padre Guardiano risulta cavernoso quando non gutturale, molti problemi d'intonazione qua e là, insomma proprio non si può dargli la sufficienza.
Strana la prova di Carlo Lepore, un Fra’Melitone discreto vocalmente e centrato dal punto di vista interpretativo e di gusto accettabile, ma che rispetto alla generale ha accentuato di molto, con risultati discutibili, il lato grottesco del personaggio, sfiorando qualche volta il macchiettismo.
Accomuno, non me ne vorranno, in un unico giudizio di sufficienza risicata tutti i comprimari: Ziyan Atfeh (Marchese di Calatrava), Adriana Di Paola (Curra), Alessandro Bianchini (Alcade), Myung Ho Kim (Trabuco) e Gabriele Bolletta (Chirurgo).
Stefano Poda firma a caratteri grandi questo allestimento perché è responsabile di regia, scene, costumi, luci e coreografie (per una volta apprezzabili!).
Lo spettacolo è piuttosto gradevole, sostanzialmente tradizionale, ma presenta qualche incongruenza e un paio d’ingenuità.
Rispetto alla generale, per fortuna, è stato cambiato il costume di Leonora nell'ultimo atto: d’accordo che siamo in teatro (ho letto le note di regia dello stesso Poda, piuttosto pretenziose e banali, sembrava la provetta di un liceale che vuol far colpo sulla professoressa, smile) ma nella scena finale a qualsiasi latitudine una donna nascosta in un convento di frati con un vestito che le lascia le spalle fuori e ne evidenzia il seno rigogliosissimo non è credibile: almeno Poda ha avuto l'umiltà di raccogliere qualche suggerimento e di coprire il soprano con uno scialle.
E poi la genialata finale, la spada che cade dal cielo e s’infilza su di una roccia in una nuvola di un pulviscolo inspiegabile (la forfora di Zeus, bah! Strasmile) non crea né sorpresa né sgomento, ma solo risate inopportune che rovinano il pathos di un momento che dal punto di vista drammaturgico e musicale è sublime e necessita di composto raccoglimento.
Molto belle le luci e interessanti i costumi, suggestive le scenografie che però danno la sensazione del deja vu, in particolare i due elementi centrali che ruotano e fanno da sfondo all’azione (penso alle regie di Daniele Abbado nel Nabucco, nel Don Giovanni e non solo).
Nonostante tutto lo spettacolo ha un suo fascino e a me è sembrato che funzioni egregiamente: qui potete vedere molte foto dell’allestimento. 
Le reazioni del pubblico (non mi spiego perché l'editor di Splinder m'ha cambiato il carattere, scusate) sono state univoche: applausi per tutti, regista e direttore compresi, e trionfo per Dimitra Theodossiou.
Al solito, se ci sono errori ortografici segnalate, così domani correggo.
Buon fine settimana a tutti.

Recensione semiseria di I due Foscari al Teatro Verdi di Trieste.

Diciamo che per disintossicarmi dagli effetti nefasti della urla di Josè Cura alla Scala (tremori, vertigini, secchezza alle fauci ma meno di Cura stesso), anzi, per riconciliarmi con la mia musica preferita, una serata normale in teatro mi ci voleva.
Preludio Foscari

Cominciamo dal meteo, perché il freddo rigido e la bora furiosa hanno fatto sì che molti abbonati dei palchi e della platea abbiano preferito il tepore del salotto di casa. Trieste è una città di anziani e l’età media in teatro sfiora il secolo, c’è gente che recitava nella parte del vecchio fuorilegge cattivo nella serie Bonanza (strasmile).
Almeno spero che sia questo il motivo della scarsa affluenza in teatro di ieri sera, perché se i numerosi vuoti in sala fossero dovuti a disinteresse sarebbe davvero una catastrofe.
Renato Palumbo era sul podio di un’orchestra del Verdi in buona serata e ha concertato e diretto con grande efficacia.
Questo Verdi che sta tra gli anni di galera e i fasti delle opere successive è difficile da eseguire, perché l’effetto banda è sempre dietro…la partitura.
Palumbo invece ha scelto una direzione vigorosa ma asciutta, attentissima e quasi paterna nei confronti dei cantanti, trovando allo stesso tempo un bellissimo colore orchestrale nei momenti più lirici e malinconici dell’opera, in particolare nelle arie del tenore e del baritono. Una prova di rilievo e, ci tengo a sottolinearlo perché mi preme molto in questi tempi tristissimi di sospetti e dietrologia spinta, io non sono mai stato tenero con lui come si può facilmente verificare dalle recensioni degli anni scorsi.
Dopo qualche prestazione interlocutoria, ha brillato anche il Coro agli ordini di Alessandro Zuppardo.
Stefano Secco
Magnifica la prova di Stefano Secco, un tenore relativamente giovane e poco pubblicizzato che sta facendo da qualche anno una bellissima carriera.
Voce non strabordante ma educata, solare e omogenea in tutto il registro, Secco è riuscito nella non facile impresa di dare un’identità precisa al figlio del Doge, che come ho già detto è un mollaccione che piagnucola sempre. Nell’interpretazione di ieri sera invece, il personaggio aveva una sua malinconica dignità virile espressa tramite un canto sorvegliato, ricco d’intense mezzevoci e più corposi slanci giovanili (ora, lo vedo anch’io che slancio giovanile corposo fa pensare a una cosa brutta, ma non è quello che intendo io, strasmile).
Direi che è stata la migliore prestazione tenorile che ho sentito a Trieste negli ultimi anni, a meno che non mi dimentichi di qualcuno, anche perché il colore della voce era molto adatto alla parte, il fraseggio esemplare e la recitazione sobria e coinvolgente. Bravo!
Siri-Salsi
Maria Josè Siri è più bella della Marianna Barbieri-Nini ed è già una cosa (smile). A parte gli scherzi, il soprano si è dimostrato complessivamente all’altezza della situazione in una parte molto difficile.
La voce non è bellissima, risulta leggermente chioccia e acidula, ma il volume è discreto (negli intensi concertati si sentiva bene) e l’accento giusto, da classica eroina verdiana di quegli anni.
Qualche problema nelle agilità di forza, non troppo fluide ma efficaci, e saltuariamente negli acuti un po’ gridati, ma nulla di particolare. Debole invece la prima ottava. In compenso, senza facilitarsi le cose, esegue le puntature all'acuto e i trilli previsti dalla partitura.
Il personaggio però esce bene nella sua energia vitale tutta tesa a salvare il marito dalle accuse ingiuste del Consiglio dei Dieci, molto buona per esempio l’invettiva o patrizi tremate.
Bravo pure Luca Salsi, giovane baritono in ascesa, che si è cimentato in una parte (a Trieste poi, dove Piero Cappuccilli diede tre prove memorabili qualche lustro fa) di grande difficoltà anche psicologica.
Il Doge, lacerato prima dalla ragion di stato che gl’impone di condannare il figlio all’esilio e poi beffato dai Dieci che ne pretendono le dimissioni, vive di sentimenti contrastanti.
Ebbene il Francesco Foscari di Salsi è autorevole ma non autoritario, così come il lato privato, quello di padre, è restituito con toni dolenti ma non piagnucolosi.
Nel terzo atto la prestazione di Salsi è stata davvero coinvolgente e se non fossi un duro mi sarei commosso anch’io (ho piangiucchiato in realtà, ma non mi sono lasciato andare a scene isteriche, strasmile).
Alexander Vinogradov interpreta un Loredano giustamente cattivo e monolitico, con una voce di basso dagli accentuati riflessi tenorili.
Tra i comprimari non straordinario il Barbarigo di Saverio Bambi, di normale amministrazione le prove di Asude Karayavuz e Ivo Federico (rispettivamente Pisana e Servo del Doge) e meritevole di segnalazione il Fante di Dax Velenich.
Due parole sull’allestimento.
Festa
La regia di Joseph Franconi Lee punta a sottolineare il contrasto tra pubblico e privato ed è, come si suol dire, tradizionale, ma possiede una certa personalità che non la rende scontata.
I personaggi sono sovrastati dalle scenografie di William Orlandi, semplici ma efficaci, che rappresentano di volta in volta le stanze del palazzo ducale o il tetro carcere, mentre la Serenissima è sempre sullo sfondo, lontana nella sua inutile bellezza.
Anche i costumi, firmati ancora da William Orlandi, si collocano nel segno della tradizione. Bella, come impatto visivo, la scena della festa popolare che apre il terzo atto, in cui si può apprezzare anche il breve intermezzo coreutico coordinato da Marta Ferri.
Apprezzabile l’impianto luci di Nino Napoletano.
Applausi Foscari.
Il pubblico ha apprezzato e applaudito a scena aperta gli artisti dopo le arie più famose.
Alle uscite singole trionfo per Stefano Secco e Luca Salsi, successo per Maria Josè Siri e tutta la compagnia artistica, con notevoli punte d’entusiasmo, meritate, per il direttore Renato Palumbo.
Bene, se ce la faccio vado a sentire anche il secondo cast, in ogni caso ogni aggiornamento è gradito.
Buona domenica a tutti.
P.S.
Le foto dello spettacolo tratte dal sito del Verdi di Trieste sono di Fabio Parenzan e qui si possono vedere tutte.

I due Foscari di Giuseppe Verdi al Teatro Verdi di Trieste: ancora una riflessione semiseria prima della prima.

Domani al Teatro Verdi di Trieste, dopo la brillante prolusione di Angelo Foletto dei giorni scorsi (a proposito, Foletto mi ha segnalato che esiste anche una registrazione dell’aria alternativa incisa da Placido Domingo, non lo sapevo),  eccoci al secondo appuntamento della stagione e dopo La traviata d’apertura si torna ancora a Verdi, con I due Foscari.


Opera di transizione, codesta, in cui si ritrovano alcuni sprazzi del Verdi degli anni di galera, penso ad alcuni passi orchestrali, all’uso del coro, ma anche anticipazioni di un Verdi, in qualche modo, più nobile e raffinato o meglio diverso.
Penso anche a Francesco Foscari come predecessore di Boccanegra, per il clima notturno che profuma di salsedine, o ad alcune soluzioni musicali che ricordano proprio La Traviata.
Le preoccupazioni e le esigenze del compositore sono le solite: la necessità di adattare al suo credo di brevità e fuoco il testo di Byron (The Two Foscari)-che infatti viene compresso in tre atti laddove l’originale è in cinque- e quindi le consuete schermaglie con Francesco Maria Piave, librettista dell’opera, uno dei bersagli preferiti degli strali del Maestro. Peraltro, Piave lavorò come librettista per Verdi in ben dieci occasioni!
Sintesi e ardore, quindi, come ben si capisce da questa frase estrapolata da una lettera a Piave:
 
Osservo che in quel di Byron non c’è quella grandiosità scenica che è pur voluta dalle opere per musica: metti alla tortura il tuo ingegno e trova qualche cosa che faccia un po’ di fracasso specialmente nel primo atto!
 
 
Ritorna anche il tormentone delle parti scritte sartorialmente sugli interpreti a disposizione, tanto che proprio in una lettera a Piave, Verdi sottolineava l’urgenza di scrivere una cabaletta di forza perché scriviamo per Roppa (Giacomo Roppa, il primo tenore, interprete di Jacopo Foscari).
Ma il motivo principale per cui fu scelto il dramma di Byron fu, ancora una volta, l’opposizione della censura ad inscenare un’opera tratta dal dramma Lorenzino De’ Medici di Giuseppe Revere (che era un triestino, tra l’altro): i tirannicidi tra i potentati di allora non godevano di grande popolarità (smile).
I due Foscari, sempre a proposito di censura, non debuttarono com’era previsto a Venezia ma a Roma.
Nella città lagunare i nomi dei protagonisti erano molto noti e i discendenti delle nobili famiglie, anche se dalle vicende narrate erano passati quattro secoli, non vedevano di buon occhio che le loro beghe fossero messe in scena coram populo.
In realtà, e spesso ai giorni nostri ce ne scordiamo perché magari ci fa comodo, indagare sulle dinamiche politiche che hanno fatto la fortuna della Serenissima era abbastanza scandaloso.
I grandi poteri temporali si basano sempre sulla violenza e la sopraffazione.
In questo caso ci troviamo di fronte alla classica situazione in cui una vicenda personale, di sentimenti e parentele, è fortemente compromessa dallo scenario politico, l’efferata ragion di Stato.
Infatti l’opera s’apre con le parole silenzio e mistero che schiudono poi la porta a una discutibile giustizia.
Il Potere non può fare a meno, ad alcuna latitudine anche cronologica, di una presunta giustizia perpetrata nel silenzio e nel mistero. In quest’atmosfera, lo sappiamo, si tramano le vicende politiche di ogni tempo, mentre il popolo sta a guardare indifferente tanto per restare in tema, se Doge sia un Malipiero o un Foscari, come sostiene il cattivo di turno, Loredano.
La protagonista femminile, Lucrezia Contarini, è la classica eroina verdiana di quei tempi, nobile, orgogliosa, forte, tanto che Verdi aveva paura che apparisse sin troppo ardimentosa a discapito del tenore.
E in effetti Jacopo è abbastanza piagnone e mollaccione [ e anche un po’rincoglionito, dal momento che ad un certo punto scambia Lucrezia per il fantasma del decapitato Conte di Carmagnola (strasmile)] se paragonato alla moglie, che sfida il Consiglio dei Dieci per amore, fregandosene delle leggi e del decoro che si vorrebbe indispensabile per una donna d’alto lignaggio.
E l’energica scrittura vocale ne interpreta bene il carattere sanguigno.
BarbieriNini
La prima Contarini, vale la pena ricordarlo, fu il soprano Marianna Barbieri-Nini, che creò poi anche nientemeno che la Lady Macbeth verdiana, parte micidiale.
Donna non bellissima, come si può vedere dall’immagine e soprattutto dedurre dalla linguaccia di Giuseppina Strepponi, compagna di Verdi, che a questo proposito fu lapidaria:

S’Ella ha trovato marito non può disperar nessuna di trovarlo (strasmile!).

Quanto al Doge Francesco Foscari, il carattere è ben rappresentato da una frase che dice nel secondo atto rivolto al Consiglio: Sarò Doge nel volto, e padre in core.
Un uomo costantemente tormentato tra il dovere e gli affetti familiari. Una storia triste, padre di tre figli che lo precederanno nella morte e alla fine addirittura beffato da quel potere al quale ha sacrificato tutto.
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La parte è per baritono, primo interprete Achille De Bassini, che creò anche Miller padre nella Luisa Miller e Seid nel Corsaro, sempre di Giuseppe Verdi.
Se ben eseguiti, la parte ha almeno due momenti memorabili, in un certo modo speculari.
Alla fine del primo atto, quando solo con se stesso medita sul suo ruolo di Doge (Eccomi solo alfine) , e nel terzo atto quando pubblicamente constata che la sua fedeltà alla Serenissima gli è costata amaramente cara (Questa è dunque l’iniqua mercede).
Il suono del bronzo ferale delle campane di San Marco lo saluta per sempre.
L’opera debuttò il 3 novembre 1844 al Teatro Argentina di Roma e il successo fu tiepido, ovviamente se paragonato alle consuetudini dei tempi.
I cantanti non s’espressero al meglio e pare inoltre che il pubblico non apprezzò il raddoppio del prezzo dei biglietti, che passarono da dieci a venti baiocchi.
Verdi commentò dicendo che
 
Io aveva molta predilezione per quest’opera: forse mi sono ingannato, ma prima di ricredermi voglio un altro giudizio.
 
Il lavoro peraltro non uscì mai di repertorio ma neanche sfondò mai davvero, restando per lungo tempo ai margini della programmazione teatrale.
Anche oggi la situazione non è cambiata molto in questo senso, per quanto l’opera goda di una diffusione maggiore: al Verdi di Trieste, comunque, manca da quasi trent’anni.
Vedremo se gli attuali protagonisti, la compagnia di canto è sulla carta di buon livello per gli standard triestini e il direttore, Renato Palumbo, uno specialista del genere, riuscirà a ripetere i successi del passato.
Ne riparleremo in sede di recensione.
Semiseria, ovviamente.
Un saluto a tutti.
  

Recensione semiseria di Pagliacci e Cavalleria rusticana alla Scala di Milano: AAA tenori cercasi!

Serata dall’esito contrastato alla Scala di Milano per il dittico Cavalleria-Pagliacci.

Premetto che ho seguito l'opera in televisione, su RAI5.

La regia di entrambe le opere è stata firmata da Mario Martone che non ha lasciato certo un segno indelebile.
Pagliacci rimestati nella solita salsa vista e stravista mille volte, senza un’identità precisa, ambientati suppongo in un generico presente (c’era un’automobile in scena) e considerevolmente intristiti da costumi, a cura di Ursula Patzak, da trovarobato squallido. Luci insignificanti di Pasquale Mari e scene banali di Sergio Tramonti.
Spero che non ci sia ancora qualcuno che faccia buon viso allo stantio gioco del presunto metateatro, solo perché il tenore punta il coltello alla gola ad uno spettatore che stava in un palco vicino al proscenio.
Dal punto di vista vocale questi Pagliacci sono stati un disastro, perché a cantare discretamente sono stati in due su cinque.
Pessima, indecente, la prestazione di José Cura, il tenore che ha interpretato Canio, una sofferenza per chiunque ami la lirica. Ululati, cachinni, stonature, tutto il campionario di quello che non si vorrebbe sentire da un cantante. Una sbobba indecorosa e indigesta, sulla quale non dico nulla di più perché non vale neanche la pena che mi sprema per descriverla.
Poco meglio il soprano Oksana Dyka, che però mi ha dato al sensazione di non aver idea di cosa stesse cantando, tanto era monotona nel fraseggio e piatta nell’accento. E Nedda, al contrario, è personaggio vivo che esprime lacerazioni interiori e sentimenti forti.
Voce anonima e acuti gridati e presenza scenica tendente allo zero. Vabbè.
Ambrogio Maestri discreto Tonio sia vocalmente sia dal lato attoriale, anche se certo non si può affermare che tratteggi un personaggio memorabile. Bene il Prologo, seppure cantato tutto forte.
Forse poteva evitarci qualche effettaccio, ma in un’opera come questa ci può stare, forse.
Male anche il baritono Mario Cassi, un Silvio spesso stonato e calante, del quale si può innamorare solo una patata lessa come la Nedda di stasera. Povera, tra Canio e Silvio era messa proprio male (strasmile).
Abbastanza buona la prova di Celso Albelo quale Beppe/Arlecchino, che è parso, a confronto del resto della compagnia di canto, una specie di divinità canora.
Davvero splendida la direzione di Daniel Harding, perché ha dimostrato che si può dirigere un’opera come Pagliacci senza ricorrere a clangori e spargere retorica ridondante ad ogni nota. Anzi, proprio nei momenti più drammatici è risultato asciutto ma vigoroso e pure nell’accompagnamento ai cantanti (si fa per dire) si è dimostrato sobrio, mai prevaricante. Merito anche di un’Orchestra della Scala magnifica, che evidentemente, un po’ come tutte le orchestre, ha bisogno di una personalità forte sul podio per rendere al meglio.
Il pubblico ha contestato vivacemente tutti, prendendosela in particolare con Cura, salvando inspiegabilmente Massi e fischiando stupidamente Harding. I fischi al direttore sono stati uno scandalo vero e proprio.
Le cose sono andate meglio in Cavalleria rusticana.
In questo caso la regia di Martone e il lavoro dei suoi collaboratori (gli stessi dei Pagliacci) mi ha convinto. Molto belle le luci, appropriati i costumi, scene dignitose. Un allestimento tradizionale ma con una personalità piuttosto marcata.
Il Turiddu di Salvatore Licitra non è stato, per usare un eufemismo, particolarmente convincente. Il tenore ha una voce assai bella ma a me sembra inerte dal lato interpretativo e vocalmente sempre al limite (e qualche volta oltre) dell’urlo. Ci si potrebbe addentrare in speculazioni tecniche ma non mi pare il caso. Diciamo che per ora continua a sfruttare il capitale che madre natura gli ha regalato, con risultati alterni.
E poi, caro Salvatore, non si può dire Francoforte invece di Francofonte, dai!

Nel complesso brava Luciana D’Intino, anche se la parte di Santuzza non le si addice nonostante ce l’abbia in repertorio da molto. Spesso gli acuti erano ghermiti e la sensazione di fatica piuttosto evidente. Il personaggio però è centrato ed esce piuttosto bene.
Claudio Sgura mi è sembrato sottotono ma non ha certo sfigurato. C’è da considerare che Compar Alfio non offre il destro per particolari introspezioni, è un personaggio semplice, lineare.
Per me Elena Zilio, Mamma Lucia, era impresentabile. Nessuno nega il suo passato ma ormai può fare solo qualche comparsata che non preveda difficoltà vocali, suvvia.
Discreta Giuseppina Piunti nei panni di Lola.
Harding anche in questo caso mi è piaciuto molto, specialmente nell’Intermezzo, mentre l’Orchestra della Scala ha presentato qualche sbavatura negli archi: nulla d’irrimediabile.
Molto bene sia in Cavalleria sia in Pagliacci il Coro della Scala.
Il pubblico ha fischiato, giustamente, Licitra, e applaudito senza troppi entusiasmi il resto della compagnia di canto. Molto festeggiato pure Harding, per fortuna.
Contestata piuttosto vivacemente la regia di Martone, non so se più per i Pagliacci o per Cavalleria Rusticana.
Una piccola chiosa sulla regia televisiva: non male, però i primi piani nella lirica sono sempre a rischio. Stasera Ambrogio Maestri ha esalato un catarro di dimensioni ragguardevoli e non sono cose belle (smile).
Bene, buonanotte! 
P.S.
Scritto in fretta, segnalate errori che poi domani, anzi oggi, correggo.

Petizione “a una sola voce”.

Nota bene IMPORTANTE per il popolo di Facebook: NON BASTA CLICCARE SU "mi piace"! Occorre cliccare su "firma", inserire nome e cognome e mail, e poi rispondere alla mail automatica per confermare che siete voi! Solo così la firma viene conteggiata!
Comunicatelo anche ai vostri contatti.
Grazie 

Alfonso Antoniozzi l'ha pensata e scritta, noi dobbiamo solo firmare.
È importante, vi prego di investire un minuto della vostra giornata.
Cliccate sul banner!
Grazie,
Paolo

http://www.firmiamo.it/flash/180150black.swf

Statuto della petizione
 

Signor Presidente,

sentiamo l'urgenza di una Sua parola.

In questi drammatici giorni, in cui quotidianamente ma senza clamore ci viene data notizia della chiusura di uno dei nostri teatri, templi di memoria, custodi di civiltà ed officine di creatività, i cantanti lirici italiani hanno unito le voci per richiamare l'attenzione sulla gravità di questo fatto.

Noi cantanti lirici portiamo addosso il dono della voce, lo coltiviamo con costante impegno, sacrificio, studio, degno lavoro. Il suo valore va al di là del mercato che muove: è tradizione, sapienza, passione, bellezza, poesia, identità, cultura dentro di noi; un bene che sempre più frequentemente esportiamo all'estero dove viene riconosciuto ed apprezzato.

Spesso lontani dalle nostre famiglie e dal nostro Paese, constatiamo con amarezza che i media italiani, nelle poche occasioni in cui si occupano del teatro lirico, ripetutamente distillano accuse velenose, talvolta volgari.

Ci siamo finalmente uniti per rispondere alle accuse che ci vengono rivolte, e ogni giorno crescono tra noi scambi, adesioni, apporti di pensiero, ipotesi per un futuro sostenibile dell'opera.

Noi per primi vorremmo ridiscutere il sistema produttivo in evidente crisi dei teatri d'opera, ma non vorremmo mai vedere azzerato il valore del bene prezioso che l'opera lirica rappresenta per la nostra Nazione.

In questo momento vorremmo la Sua voce, opposta a coloro che ci definiscono improduttivi, superflui, parassiti.

Vorremmo sentire da Lei, signor Presidente, che anche l'opera lirica, nata nella nostra terra, voce della nostra Patria nel momento in cui questa nasceva, è parte irrinunciabile del patrimonio culturale italiano.

Le nostre voci, per la prima volta unite in coro, si fondono con quelle della moltitudine dei lavoratori, in particolare dello spettacolo e del mondo della cultura, e con quelle di chi la ama e la sostiene; siamo convinti, signor Presidente, che a difesa delle nostre radici culturali debbano schierarsi tutte le Istituzioni politiche della Nazione, senza rinvii né riserve, appassionatamente.

Il dittico Cavalleria Rusticana e I pagliacci alla Scala di Milano: la prima salta per sciopero.

Avevo appena pubblicato il post ed ecco che sul sito della Scala è comparsa la conferma dello sciopero. Se ne riparla martedì 18, quindi.

Domenica prossima, al Teatro Alla Scala di Milano, dovrebbe  essere di scena il dittico Cavalleria Rusticana e I pagliacci, che incredibilmente manca nel teatro milanese da trent'anni.

Scrivo dovrebbe, perché le possibilità che la prima salti per sciopero (ovviamente per le note vicende dei tagli alla cultura di questo governo) è molto alta. Vi terrò aggiornati, anche perché la recita sarà trasmessa (anche in streaming? Non si sa e dopo la figura pessima della volta scorsa non mi va di fare previsioni) sul nuovo canale digitale RAI5 dalle ore 20.
Nonostante un cast non entusiasmante che si distingue solo per la presenza dell’ottimo direttore Daniel Harding (il grande ed esigente Daland, di cui mi fido ciecamente, ne dice qui assai bene), l’attesa tra gli appassionati è piuttosto alta. Insomma, sono opere popolari nella migliore accezione del termine e appartengono a quel periodo culturale noto come verismo.
I lavori sono effettivamente contemporanei, Cavalleria di Mascagni debuttò nel 1890, Pagliacci di Leoncavallo nel 1892.
Entrambi i compositori fanno parte di quella che è chiamata la Giovane Scuola, una corrente musicale che ha dominato per un decennio e che presenta alcune caratteristiche comuni e anche molti luoghi comuni, il più fastidioso dei quali è che le opere debbano essere cantate con la bava alla bocca, digrignando i denti e urlando come bestie. E in effetti molto spesso i cantanti cadono in quest’errore, con risultati rivedibili.
Una cosa è essere vigorosi, incisivi, ben altra essere sguaiati e volgari.
Per fortuna, nella discografia soprattutto, c’è sempre qualche esempio chiarificatore.
E proprio ai dischi ricorro questa volta per la mia breve presentazione delle opere in questione, non prima di farvi vedere come si presentava il Cortile delle Milizie del Castello di San Giusto nel 1937, proprio in occasione di una Cavalleria Rusticana.
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Come potete vedere, un delirio di folla tra la quale si nascondeva anche il mio papà che mi ha da poco lasciato, allora tredicenne.
Dal punto di vista discografico, dicevo, c'è un'incisione di riferimento assoluto, dalla quale non si può prescindere pur nel rispetto dei gusti personali e, guarda caso, quest'incisione porta la firma di tale Herbert von Karajan. Destino cinico e baro, quello dei direttori davvero grandi, e cioé di essere sempre una specie d'aggregante di talenti, un marchio di fabbrica di qualità.
In entrambe le opere Karajan lavora con l'Orchestra e il Coro del Teatro alla Scala di quei tempi, che erano compagini di livello stratosferico.
E allora ecco che la musica scorre carica di sensualità senza che ci sia mai neanche il sospetto di volgarità. Allo stesso tempo le pagine più patetiche non risultano mai lacrimevoli e zuccherose, ma sono sempre ammantate di una scabra dignità popolare oggi perduta, travolta dall'esibizione coatta del dolore televisivo.
Certo, in entrambe le opere va in onda l'omicidio efferato, ma quasi ce ne scordiamo.
Dopo il direttore, protagonista assoluto è il tenore Carlo Bergonzi che interpreta le parti di Turiddu e Canio e addirittura, a mio personalissimo parere, ci lascia le sue prove migliori in assoluto e lo fa proprio perché affronta personaggi che sembrano lontani dal suo repertorio d'elezione, che è quello verdiano.
La registrazione è del 1965, nel pieno della maturità dell'artista che doveva essere in un periodo di forma straordinario, come si può facilmente constatare dall'ascolto di contemporanee registrazioni dal vivo. Acuti eccellenti, dizione più a posto del solito e un fraseggio e un accento memorabili.
Nei Pagliacci poi abbiamo anche il miglior Tonio di sempre (parere mio, ovvio) e cioé uno spettacolare Giuseppe Taddei che canta un Prologo da brividi.
Bravi anche Rolando Panerai (Silvio) e Ugo Benelli (Beppe).
Ad un livello inferiore si pone la caratterizzazione di Joan Carlyle nei panni della sfortunata Nedda, ma probabilmente la prestazione impressionante degli uomini ne evidenzia i limiti d'accento.
In Cavalleria da rilevare l'eccellente prova di Fiorenza Cossotto quale Santuzza. La temperamentosa artista (spesso criticata, a ragione, per una certa tendenza a strafare) qui tratteggia un personaggio davvero magnifico, dignitoso nella certezza del tradimento ma essenziale, dal dolore trattenuto e sorvegliato e mai sfacciatamente esibito.
Rilevante anche la prestazione di Gian Giacomo Guelfi, il baritono che interpreta Compar Alfio.
Quindi, in attesa di aggiornamenti (sia per lo sciopero sia per la trasmissione via web) che vi darò in neretto all'inizio del post, ci rileggiamo per la recensione semiseria.
Buon fine settimana a tutti.

I due Foscari di Giuseppe Verdi al Teatro Verdi di Trieste.

Qualcuno nei commenti ha evocato Chris Merritt nell'aria alternativa dei Due Foscari, ecco qui:

Venerdì 21 gennaio riparte la stagione lirica a Trieste, con I due Foscari di Giuseppe Verdi.
Direi quindi che è il caso di cominciare a scrivere qualcosa, seppure partendo…dalla fine e cioè da una curiosità.

Nel 1846, a due anni dal debutto, avvenuto al Teatro Argentina di Roma il 3 novembre 1844, I due Foscari furono rappresentati a Parigi al Theâtre Italiens.
Ebbene, in quell'occasione il tenore che interpretò la parte di Jacopo Foscari fu Mario.
Chi, direte voi?
Mario, o meglio Giovanni Matteo Mario Cavaliere De Candia, di cui sappiamo per certo che i genitori erano indecisi (smile).
DISDER~1Questo tenore merita un piccolo approfondimento.
Epigono nientemeno che di Rubini, condusse una vita davvero curiosa e movimentata, anche dal punto di vista sentimentale.
Si favoleggia di una sua appartenenza alla Carboneria, mentre è certa la diserzione dall'esercito piemontese nel 1832 e il suo stabilirsi a Parigi dove, per guadagnarsi da vivere, diede lezioni di scherma ed equitazione e modellò statuine di santi, sino a quando nel 1838 debuttò all'Opéra di Parigi nella tremenda parte di Robert le Diable.
Fu un successo clamoroso, planetario, che gli diede grande fama e la possibilità di esordire nel 1839 al King's Theatre di Londra, nella Lucrezia Borgia di Donizetti al fianco di, udite udite, Giulia Grisi! Praticamente il soprano più famoso del momento.
grisi
Mario, che era molto bello e affascinante, soffiò la primadonna al Visconte Gérard de Melcy, di cui l'altrettanto bella Giulia era la consorte.
Una coppia magnifica sia artisticamente sia esteticamente, un po' come Erwin Schrott e Anna Netrebko ai nostri tempi (strasmile).
Ma torniamo ai Due Foscari.
Il tenore Mario, sebbene cantasse anche opere da tenore di forza, era uno specialista, pure piuttosto vanitoso, del repertorio di grazia, anche se un critico (brutte bestie, quelle, strasmile) scrisse che la voce era soave e pura, metodo eccellente, ma è perfetto una volta al mese e mediocre ventinove volte.
Però il pubblico, specialmente femminile, lo adorava e voleva sentire solo lui anche quando la voce non era più quella degli esordi.
Si poteva permettere quindi anche qualche bizza e una di queste fu appunto la pretesa, accolta seppur tra mille polemiche, di riscrivere per lui la cabaletta dell'aria iniziale di Jacopo (Dal più remoto esilio).
Quest'aria, già difficilissima, fu incisa nella versione Mario da Luciano Pavarotti in un celebre disco di curiosità verdiane, diretto da Claudio Abbado.
Eccola qui, per due volte si sale addirittura al mi sovracuto.

Il tenore Mario poi andò avanti ad esibirsi per molti anni insieme alla moglie Giulia, anche quando entrambi erano in evidente declino.
Purtroppo la vita dispendiosa alla quale erano abituati li costrinse, appunto, a prolungare la carriera oltre il lecito.
Ma a noi piace ricordare il grande Mario in modo particolare, come suggerito da alcuni studiosi della vocalità: nascosto tra le scene mentre aspetta il momento della sua entrata, guardato a vista da un pompiere, mentre si fuma un sigaro (strasmile).
Buona settimana a tutti.

Concerto di fine anno al Teatro Verdi di Trieste: un uomo solo al comando.

Beh, il disgraziatissimo 2010 è finito, e davvero è stato il caso di festeggiare, nella sfera privata per allontanarlo definitivamente e anche in quella pubblica.
Artificio 1

Il Concerto di fine anno al Teatro Verdi di Trieste ha dovuto sopportare l'ennesima sostituzione last minute di uno dei protagonisti, in questo caso l'indisposta Mariella Devia.
Al suo posto, brillantissima, elegantissima, giovanissima (non è la pubblicità per un'acqua minerale, l'artista in questione si merita tutti i superlativi del mondo, strasmile) Daniela Mazzucato, alla quale dedico anch'io uno scoppio d'entusiasmo!
Daniela è una di quegli artisti che sono persone straordinarie prima ancora che cantanti di rilievo, vale la pena ricordarlo ancora.
Artificio 2

Nelle arie di Mozart, Massenet e Lehar ha fornito l'ennesima dimostrazione di classe e, per chi ha orecchie per sentire, la spiegazione di perché a quasi quarant'anni dall'esordio la voce è ancora fresca e giovanile: una tecnica esemplare.
Poi, dal momento che non è pensabile un concerto di questo tipo senza il Brindisi dalla Traviata, ecco che è apparso a sorpresa sul palco il tenore Max René Cosotti, suo compagno nella vita.
Vederli cantare insieme così affiatati è stato un valore aggiunto alla serata.
Daniela Mazzucato e Max René Cosotti.
L'Orchestra del Teatro Verdi, diretta con perizia dal M° Giuseppe Marotta, si è presentata in un'ottima serata nella quale ha affrontato musiche di Johann Strauss Jr e Josef Strauss, Rossini e Cajkovskij.
Scontata, ma attesa dal pubblico la Marcia Radetzky di Strauss Sr.
Pubblico numeroso e festante, com'è giusto che sia in un'occasione così lieta.
Il sovrintendente Calenda, dopo un brevissimo discorso nel quale ha ricordato anche Armando Zimolo, già sovrintendente del Verdi qualche anno fa e scomparso recentemente, si è accomodato nel suo palco vicino al proscenio.
Era solo. Mi ha ricordato la famosa frase del giornalista sportiva Mauro Ferretti, riferita a Fausto Coppi: un uomo solo al comando. Ma credo sia solo suggestione, forse non è solo e forse non è neppure al comando.
Non ho visto, ma può essere un problema mio che tendo a rimuovere immagini nefaste, politici in sala.
Persino i due carabinieri in alta uniforme davanti all'entrata del teatro mi sono sembrati un po'intristiti.
Temo che dovrò riparlare di cose fastidiose piuttosto spesso, nel 2011.
Però, almeno a livello personale e cioé di Paolo Bullo, l'oretta abbondante passata in teatro mi è servita.
Non per dimenticare, ma per ricordare.
Auguri per l'anno nuovo a tutti.