Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Archivi Mensili: marzo 2010

Recensione abbastanza seria del Tabarro di Giacomo Puccini alla Sala Tripcovich-De Banfield di Trieste.

La prima considerazione che mi viene da fare,

dopo aver assistito alla serata organizzata dall’Accademia Lirica di Santa Croce alla Sala Tripcovich-De Banfield, non è tanto sugli esiti artistici quanto piuttosto sulla funzione salvifica del teatro in generale.

È una notazione personale, me ne rendo conto, ma credo che abbia valenza universale.
Sto parlando di quella straordinaria capacità che ha il teatro di “sospendere la realtà”, quasi che l’Arte ci regalasse una breve vacanza dagli affanni della vita quotidiana.
Il primo merito dell’Accademia, quindi, è proprio “il fare teatro” inteso come alternativa di vita per chi recita e soprattutto per chi si siede comodamente in poltrona a guardare.
Alessandro Svab, deus ex machina dell’Accademia, ha programmato un bel tour de force per i suoi allievi: tra venerdì della settimana scorsa e questa sera, sono andati in scena la Petite messe sollennelle di Rossini e Il tabarro di Puccini, integrati da una seconda parte di serata dedicata alla musica di Broadway.
Io ero presente sabato e ho visto l’atto unico di Puccini.Tabarro

Inutile, in questa sede, ricordare come Il Tabarro faccia parte di un trittico (Tabarro, Gianni Schicchi e Suor Angelica) che il compositore avrebbe voluto che si rappresentasse per intero, in quanto c’è una (dis)continuità drammaturgica, un’ispirata alternanza di stati d’animo e stili contrapposti.
I mezzi dell’Accademia sono piuttosto contenuti e la collaborazione del Teatro Verdi di Trieste mi è parsa più che altro di facciata.
Il titolo è impegnativo, perché prevede tre prime parti toste e molti contributi da comprimariato, per i giovani dell’Accademia è stato un banco di prova importante.
Inoltre, ed è assai meritorio, la per la Petite Messe erano previste due mattinate riservate alle scuole.
La regia (e immagino anche le belle luci), giocoforza minimalista ma di buon gusto, era di Tommaso Franchin, i costumi, semplici ma appropriati, di Erica Cijan.
Scena fissa, quindi (per una volta nessun volo pindarico del regista, strasmile)e cioè la coperta di una barca da carico, ancorata sulla Senna: in questo spazio angusto, livido, si determineranno gli infelici destini dei protagonisti.
Heinrich Unterhofer sul podio ha coordinato il lavoro dei pianisti Desire Broggi e Jan Grbec.
Dal punto di vista musicale la necessità di “suonare” l’opera al pianoforte ha tolto un po’ di pathos alla musica di Puccini che ha bisogno, specialmente nelle grandi aperture melodiche, di un’orchestra vera e propria, ma i due pianisti sono stati ammirevoli.
Tra i cantanti è stata molto positiva la prova del soprano Monica Cucca, una Giorgetta appassionata e partecipe, intelligente anche nella recitazione e capace di rendere palpitante l’ennesima donna sfortunata creata da Puccini.
Michele era interpretato dal baritono Velthur Tognoni, anch’egli misurato nella recitazione in una parte in cui è piuttosto facile avere cadute di gusto interpretativo. All’inizio ho notato qualche slittamento d’intonazione.
Matteo Sartini, nei panni assai scomodi di Luigi, si è ben disimpegnato in una parte tenorile spaccagola come poche, centrando con professionalità (e fatica!) il personaggio.
Un po’ ruvida la voce di Elena De Simone che ha interpretato Frugola, bene Goran Ruzzier quale Talpa (è il nome del personaggio eh?, smile) e leggermente flebile Massimilano Costantino come Tinca. Discreto Alessandro De Angelis (venditore di canzonette).
A posto, nelle rispettive piccole parti, Atsuko Koyama e Daniel de Vicente.
Dopo Il tabarro la serata è proseguita con un recital di famose arie e duetti tratti da noti musical di Broadway ( da Porgy and Bess a West Side Story e altri ancora), per la coreografia divertente di Carolina Bagnati.
Simpaticissima la presenza dei giovanissimi ragazzini del Coro di Voci Bianche Fran Venturini diretto da Susanna Zeriali.
I solisti, tutti molto disinvolti e bravi erano, come da locandina, Sara Bardino, Marzia Catania, Mojca Devetak, Evdoxia Fotiou, Eleonora Marziali, Julie Parsons, Noemi Virzì e Pierpaolo Cappuccilli, figlio del grande baritono triestino.
Pubblico non certo numerosissimo, perché la comunicazione (forse anche per gli scarsi mezzi finanziari disponibili) non è stata certo ottimale, ma festante e contento.
Spero che l’Accademia trovi qualche sponsor, perché il lavoro di Alessandro Svab è meritevole e degno d’attenzione.
Se dovessi essere incappato in qualche errore nel nominare gli artisti presenti alla serata, chiedo scusa in anticipo e invito a segnalarmelo qui nei commenti.
Buona settimana a tutti.
 
 

Foto, fischi, e un paio d’informazioni.

Un lettore di nome Massimo, alcuni giorni fa, mi aveva chiesto se sapessi qualcosa su altre recite del Mefistofele al Teatro dell’Opera di Roma, riferendosi in particolare allo spettacolo del 23 marzo.


Purtroppo non so nulla di quella data, però oggi su OperaClick è stata pubblicata la recensione dell’amico e collega Gabriele Cesaretti, presente in teatro il giorno 20.
La valutazione, nella sostanza, non si discosta da quella che feci io alla prima e, mi preme sottolinearlo, conferma che i cantanti non erano amplificati, ad ulteriore smentita delle chiacchiere in tal senso.Mefistofele Roma

L’unica anomalia, ma chi ne sa di teatro capirà bene come non possa certo costituire motivo di scandalo, era la registrazione del fischio nella cosiddetta, appunto “Ballata del fischio”.
Un tanto per chiarezza.
Poi, se ce la faccio perché è un momentaccio, questa sera alle 20.30 vado alla Sala Tripcovich-De Banfield a sentire il giovani dell’Accademia Lirica di Santa Croce, una creatura del basso triestino Alessandro Svab, che in questi giorni si sottopongono a una specie di tour de force: questa sera affrontano Il tabarro di Giacomo Puccini e completano il programma con alcune arie da musical famosi (replicano anche domani alle 18).
Lunedì invece è in programma la Petite messe sollennelle di Rossini.
Seguirà, spero, relativa recensione semiseria.
Inoltre, visto che ho deciso di investire una ventina di euro scarsi per un abbonamento “pro” su Flickr, vi allego ancora un paio di foto del Mefistofele e qualche altra immagine di spettacoli ai quali ho assistito nei mesi scorsi.
Nell'ordine, la Brünnhilde nella Götterdämmerung alla Fenice di Venezia,
Brünnhilde1

Francesco Meli, qui nei panni di Oronte nei Lombardi all'ultima crociata al Regio di Parma e, a seguire, la meravigliosa Daniela Dessì nella Tosca a Venezia, con la regia di Robert Carsen.

Francesco MeliTosca alla Fenice, 30.05.08

Buon fine settimana a tutti.
 

Magda Olivero compie oggi 100 anni.

E io, che sono uno di quelli che va in teatro per emozionarsi e non con il bilancino del farmacista, ammiro la sua straordinaria imperfezione.
Auguri Signora Olivero!
Lascio ai volenterosi questo video, da poco ritrovato, della sua interpretazione della Margherita del Mefistofele di Boito, che per caso ho appena visto e sentito al Teatro dell'Opera di Roma.

Repetita juvant.

Intanto, juvant o iuvant?
Bah.

Comunque, qualche tempo fa scrivevo questo post
e lo concludevo con una facile profezia, come potrà apprezzare chi si prenderà la briga di (ri)leggere .
Nel post cito la televisione, ma ora scriverei che pure alla radio non si scherza.
Sembra che un po' ovunque l'ansia da prestazione, magari intesa come scoop, dilaghi.
Ovviamente quelli della famosa terza via, che hanno 'sta abitudine scriteriata di non accusare nessuno ad cazzum (termine molto tecnico sostituibile con ad minchiam) o perlomeno di farlo solo avendo in  mano prove inoppugnabili, passano, che vada bene, per normalizzatori
al servizio del Potere (non si sa quale, un Potere a caso, scegliete voi).
Insomma, di questo passo il nuovo mostro sarò io.
E vabbè, c'è di peggio nella vita.
Il nuovo Editor di Splinder, ad esempio.
 

Recensione semiseria del Mefistofele di Arrigo Boito al Teatro dell’Opera di Roma, polemiche comprese.

Il collega forumista Enrico Stinchelli (che è uno dei conduttori della trasmissione “La Barcaccia” su RADIO3) sul forum di OperaClick ha scritto che alla prima di questo Mefistofele al Teatro dell’Opera di Roma i cantanti erano amplificati, notizia poi ribadita in trasmissione.
Si sarebbe perpetrata, dunque, una vera e propria truffa ai danni degli spettatori. Stinchelli sostiene di aver visto l’impianto d’amplificazione per caso, dopo lo spettacolo.
Partitura Mefistofele

Io ero presente a questa prima e non ho sentito né tantomeno visto traccia d’amplificazione, quindi non modifico di una virgola la recensione che avevo già scritto prima di sapere della presunta truffa.
In attesa di un comunicato chiarificatore della Direzione del Teatro, se ci sarà, io mi limito ad affermare che se c’era amplificazione (il cui scopo, lo scrivo per i non addetti ai lavori, dovrebbe essere quello di aumentare il volume dei cantanti) è stata fatta male: il basso Orlin Anastassov non si sentiva comunque dalla prima fila di balconata dov’ero io.
La mia opinione, per quello che può valere, è che non ci fosse alcun “trucco” ma, ovviamente, se mi dovessi sbagliare lo scriverò qui senza problemi.

Il Mefistofele di Arrigo Boito meriterebbe qualcosa di più di una recensione semiseria, ma purtroppo non ho tempo per un esame approfondito di questo lavoro.
Una cosa è certa, liquidare, come spesso ho letto in giro, il Mefistofele come “brutta musica” è sbagliato e disonesto, se non altro per rispetto a Boito stesso che è stato un uomo d’ampi e molteplici ingegni, esponente di quell’afflato culturale chiamato scapigliatura che movimentò assai le discussioni tra gli intellettuali nella seconda metà del XIX secolo.

Questa casta o classe vero pandemonio del secolo: personificazione della follia che sta fuori dai manicomii; serbatoio del disordine, della imprevidenza, dello spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti

Così definisce la scapigliatura Cletto Arrighi (anagramma di Carlo Righetti), che s’inventò questo termine passato alla storia. Una piccola mania, quella di alcuni scapigliati, di firmarsi con l’anagramma del proprio nome. Lo stesso Arrigo Boito compare come Tobia Gorrio quale autore del libretto della Gioconda di Ponchielli, per esempio.
E allora comincio subito con una lode (e ahimè, sarà una delle poche) ad Anna Cepollaro che ha curato il libretto di sala, ricco d’informazioni interessanti e approfondimenti e neanche particolarmente caro.
Lo spettacolo, firmato da Filippo Crivelli, recuperava sotto forma di proiezioni alcuni bozzetti di Camillo Parravicini: forse gli originali erano degni di rilievo, non lo so perché non li ho visti.
Le proiezioni erano offensive da quanto erano brutte e inutili, con tanto di avviso Windows sulla destra del palcoscenico all’inizio dello spettacolo, che segnalava che la temperatura (del proiettore?) era vicina al limite di guardia.
In compenso mancavano le didascalie del libretto e siccome l’opera la conoscevamo in 10 in tutto il teatro e il testo è fondamentale (ricordo che è di Boito stesso), lascio a voi trarre le conclusioni sulla lungimiranza di questa scelta.
Le scene di Andrea Miglio non erano malaccio mentre convenzionali mi sono parsi i costumi di Anna Biagiotti, ma non sgradevoli. L’impianto luci di Agostino Angelini senza infamia e senza lode, ma molto fastidioso era l’occhio di bue che seguiva i protagonisti durante l’opera.
Orride le coreografie di Gillian Whittingham, banalissime e scontate.
Il direttore Renato Palumbo ha diretto in modo discontinuo, slentando i tempi in alcuni passi, per esempio nel duetto Lontano, lontano, peraltro uno dei momenti migliori dal punto di vista vocale, e nell’introduzione all’entrata di Elena, che già di suo è abbastanza soporifera.
Inoltre, il livello di decibel era spaventoso nel Prologo e nell’Epilogo, un’esplosione di suono a mio parere eccessiva anche considerato che i fortissimo sono previsti.
Nel complesso la prova di Palumbo è stata sufficiente, perché ci sono stati anche alcuni momenti suggestivi (il Sabba, la scena del carcere, per esempio).

L’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma è sembrata spesso imprecisa, in particolare negli ottoni assai spernacchianti. Così così il Coro, anch’esso sbilanciato sul fortissimo più del lecito.
Bravi invece i ragazzi del Coro di Voci Bianche di Roma, che hanno una parte non irrilevante nell’opera.
Orlin Anastassov era nei panni di Mefistofele e non riesco a trovare un pregio che sia uno nella sua prova.
La voce è più da baritono che da basso, ma soprattutto è secca, povera d’armonici, sempre indietro negli acuti e gutturale nei gravi.
Può contare su di un’efficace presenza scenica, ma l’approfondimento del personaggio si è limitato a “guardate come so’ fico e distaccato sembro er demonio”(smile).
Son lo spirto non ha avuto nulla di misterioso e rivelatore, come allo stesso modo Ecco il mondo è scivolato via e sarebbe un momento di grande impatto drammaturgico. Manca totalmente personalità a questo cantante e Mefistofele è parte in cui ci vuole anche carisma.
Tra l’altro la voce non passava quasi mai l’orchestra e si sentiva a stento: direi che quando non si percepiva si apprezzava di più, ecco.
Certo, mi è scappata qualche parolaccia, quindi il suo come diavolo l’ha fatto (strasmile).Cast Mefistofele

Stuart Neill, povero, è entrato vestito come una vecchia monaca o una colf d’altri tempi, non so. Tenete presente che non ha un fisico felice, perché è un Cubo di Rubrik senza i colori e con le gambe tozze.
All’inizio si è adeguato al costume e ha cantato come una centenaria: voce chioccia, sgraziata. Poi è migliorato (ma la voce è brutta e senescente comunque) e se è vero che ha cantato tutte le note previste (discreto nella difficile Ogni mortal mister gustai) di una parte non facile, la sensazione era che spesso non sapesse ciò che stava dicendo. Aggiungeteci una dizione approssimativa e la pronuncia yankee e sappiatemi dire.
Quando Amarilli Nizza è entrata in scena ho pensato “Ecco un artista”, come fa Tosca quando crede che Cavaradossi finga di morire mentre invece ci lascia la pelle sul serio.
Intendiamoci, il soprano non ha fatto nulla d’eccezionale ma almeno ha dato vita al personaggio, anche se gli acuti risultano asprigni e qualche effettaccio avrebbe potuto risparmiarselo.
 Brava e partecipe all’inizio del terzo atto (L’altra notte in fondo al mare, accompagnata bene da Palumbo ma lentissima), nella successiva  scena del carcere inoltre ha interpretato con efficacia la disperazione (e redenzione) di Margherita. Emozionante, ecco.
Un po’ meno a fuoco nella parte di Elena, ma non è una pagina che possa esaltare troppo le qualità della Nizza, che peraltro ha ottenuto ciò che si raccomandava Boito e cioè una netta separazione psicologica tra i due caratteri femminili.
Comunque la sua prova è stata rimarchevole e nel contesto della serata è sembrata di un altro mondo dal punto di vista artistico.
Non hanno demeritato il mezzosoprano Chiara Calli (Marta e Pantalis) e il tenore Amedeo Moretti (Wagner).
Pubblico scarsino per essere un’opera che si allestisce così di rado e grande fuga al secondo intervallo.
Contrariamente a quanto successe per l’Otello di Muti, poca mondanità e nessun aneddoto divertente da raccontare.
Sarà per la prossima volta!

Recensione semiseria dell’Elisir d’amore al Teatro Verdi di Trieste: ovvero “Ma va’ a morì larmoyant, topo morto!”

Dopo questo Elisir d’amore al Verdi di Trieste ho preso una decisione che definirei storica.

Elisir Trieste.
No no, non ho intenzione di usare termini tipo larmoyant o di parlare di transitus regularis o irregularis (di note, che avevate capito?). Che dio me ne scampi e liberi. Esci da questo corpo, critico musicale!
Ci ho pensato molto, perché non sono argomenti da prendere alla leggera, però, tenetevi forte, dichiaro ufficialmente che Davide Livermore è il mio nuovo idolo.
Perché, vi chiederete voi (ma anche no eh?).
Perché dopo avermi fatto vedere nella scorsa stagione Eva Mei che si metteva le dita nel naso e tirava caccole un po’ovunque sul palcoscenico, quest’anno mi ha fatto vedere Eva Mei che mostra la coscia assassina, un sergente dall’alito importante e un saltimbanco che lancia un topo morto tra la folla (e forse c’è una relazione tra l’alito e il topo morto, mi verrebbe da pensare).
Insomma assistere ad un allestimento di Livermore è come rivivere gli anni del liceo: donne discinte, gesti di dubbia eleganza, scherzi grevi e poca igiene. Una rimpatriata della cena di maturità senza l’angosciante confronto col passato e relativo genocidio di specchi al momento dell’incerto e traballante ritorno a casa, con conseguente sfiga per i successivi mille anni.
Praticamente un elisir di lunga vita (ultrastrasmile).Sira Mei
Insomma ‘sto Livermore ha il grande dono di essere leggero senza essere superficiale, serio ma non serioso, colto ma non didascalico e poi cita più lui che un magistrato che si occupa d’intercettazioni telefoniche.
Qui cita il Fellini di La Strada, e fa introdurre e accompagnare Dulcamara da due mimi che interpretano Gelsomina e Zampanò. E poi tra l’umanità varia del paesotto di contadini appaiono Ginger e Fred, i clown, e pure la mitica sedia del regista sulla quale, assai indegnamente, Dulcamara appoggerà l’ampio deretano (che sarebbe il culo, per coloro che amano il linguaggio tecnico).
Mitico Zampanò con la gestualità e la classe innata del Mago Oronzo: solo con l’imposizione delle mani ti faccio ingoiare il bordeaux.
Tutto questo senza che le ragioni del libretto e della musica siano maltrattate o vilipese: una tradizione rivisitata con intelligenza.
Sull’opera lirica, sulle sue tetre convenzioni, sul conservatorismo becero aleggia un sorriso divertito che non diventa mai sghignazzo volgare.
Poi, la musica di Donizetti aiuta, evidentemente, soprattutto quando la compagnia di canto è omogenea e di buon livello, e l’orchestra è diretta bene.
Paolo Longo, sul podio dell’ottima Orchestra del Verdi, ha dimostrato che si può dirigere Donizetti con grazia ed eleganza, senza combinare casini nei concertati, seguendo amorevolmente i cantanti, e senza perdere di vista il filo di una narrazione briosa, spumeggiante, ma allo stesso tempo ricca di sfumature patetiche quando è il caso. Bravo Maestro!
Il Coro è fondamentale in quest’opera, anzi, agisce come un vero e proprio personaggio e come tale Livermore ne organizza i movimenti, fornendo un’identità precisa alle masse: più che un regista un filosofo della rive gauche.
Gli elogi per questi Artisti non saranno mai sufficienti, perché cantano benissimo e si dannano per essere credibili in scena con risultati brillantissimi.Mei-Belcore
Antonino Siragusa centra il personaggio di Nemorino già dalla sortita Quanto è bella, quanto è cara: spontaneità, candore, la simpatia istintiva che suscita il sempliciotto.
Canta bene, il tenore, decisamente più in parte che nel recente Roméo. Si apprezzano il legato, il fraseggio, la disinvoltura scenica. E si apprezza anche La furtiva lagrima, bissata a furor di popolo.
C’è pertinenza stilistica, non l’inutile e ostentato atletismo tenorile.
Eva Mei ha una lunga consuetudine col personaggio di Adina, ma all’inizio è sembrata un po’spaesata e timorosa, forse in difficoltà con i fiati (non quelli di Belcore, strasmile). Poi però già dal terzetto immediatamente successivo con Belcore e Nemorino si è ripresa bene e ha chiuso in crescendo con un ottimo concertato nel finale primo.
Eccellente nel secondo atto, chiuso con una bellissima interpretazione dell’aria Prendi: per me sei libero.
Avercene, di soprani così.
Luca Salsi, nonostante l’alito pesante (strasmile) è stato un brillante Belcore dalla voce solida e corposa, spigliato nella recitazione. Un macho in perenne iperdosaggio ormonale ma simpatico e di buon gusto: quando non baciava qualche villanella si metteva  a fare flessioni e cantava pure. Non deve essere facile.
Bella la prova di questo giovane baritono.
Paolo Rumetz, ad onta di uno strumento non certo privilegiato, ha tratteggiato un efficace Dulcamara, evitando di gigioneggiare troppo: il personaggio è già eccessivo di suo.
Bravo nel sillabato ha cantato con vigore la celeberrima Udite, udite o rustici e fraseggiato con intelligenza.
Inoltre ha dimostrato ottima padronanza del palcoscenico, come si conviene a un artista di esperienza.
Brava anche il soprano Carla Di Censo, una Giannetta alla quale spettava un’esposizione inconsueta dal lato attoriale, perché il regista la dipinge come una assatanata (in tutti i sensi) leader delle popolane. Voce piccolina, ma corretta e precisa in tutta la piccola parte.
Divertenti i mimi Valentina Arru (Gelsomina) e Giuseppe Principini (Zampanò), protagonisti di alcune gag assai gustose.
Pubblico contentissimo alla fine dello spettacolo e applausi per tutti, con punte di particolare entusiasmo per Siragusa e Mei. Molto festeggiati anche il M°Paolo Longo e il regista Davide Livermore, al quale personalmente ho cercato di lanciare gli slip, ma un’arcigna maschera e ex Ripley m’hanno bloccato.
Vabbè, glieli porto di persona (strasmile).
Buona settimana a tutti, io domani vado a Roma, sempre con ex Ripley, per vedere il Mefistofele di Arrigo Boito.
Se nel frattempo fate i bravi poi quando torno scrivo un’altra recensione semiseria, altrimenti vi beccate un larmoyant ascendente che vi diminuisco di una terza, vi diminuisco.

Post interlocutorio.


Bene, siccome io sino a lunedì, credo, non scriverò la mia consueta recensione semiseria, volevo lasciarvi un paio di letture che ho trovato molto stimolanti.

La prima la trovate qui su OperaClick a firma Lorenzo De Vecchi, e ve la segnalo proprio perché in qualche modo è in contrapposizione col mio parere sul recente allestimento del Roméo et Juliette di Gounod, per la regia di Damiano Michieletto.
È indirettamente anche una risposta a coloro che accusano OperaClick di avere una linea editoriale ferrea, dalla quale non si può prescindere.
I fatti, che per fortuna contano più delle opinioni, dimostrano il contrario.
Poi, in un contesto diverso ma intellettualmente adiacente alla discussione di cui sopra, segnalo questo periodo dell'amico Roberto espunto da un contesto più ampio, che potete trovare qui nella sua completezza.

Chi vi parla ritiene che l’allontanamento totale del pubblico dalla musica colta contemporanea sia una delle ferite sanguinanti della nostra epoca. Infatti, come si legge nella scritta luminosa che da poco è stata collocata nella facciata degli Uffizi prospicente l’Arno, Every art has been contemporary. L’arte contemporanea è il prodotto più autentico di un’epoca, ciò che ci testimonia e che resterà di noi: perché questo scellerato oblio? Alla radice di tutto ciò, per la musica, c’è stato probabilmente – più che il più complesso linguaggio – il rovesciarsi dei rapporti di forza tra procedimento e risultato compositivo, che ha ingenerato il fatto che ci si sia preoccupati di costruire soprattutto qualcosa di funzionale a una regola (dalla dodecafonia alla famosa “superformula” di Stockhausen, alla ripetizione dei minimalisti, alla musica aleatoria) e spesso, da entrambi i lati, di “spiegare” e “comprendere” questa regola prima e più di eseguire o lasciarsi andare. Eppure vi garantisco che questa musica può ammaliare come il più tonale dei temi, ho condotto ad esempio l’esperimento di fare assistere a una persona cara ignara di musicologia la Lulu di Berg, senza premetterle alcuna spiegazione, e l’ha trovata entusiasmante. Come credo si possano trovare facilmente entusiasmanti, col diretto ascolto e senza alcuna mediazione, figli illustri del novecento post-tonale come il concerto per pianforte di Schoenberg, le sinfonie di Penderecki, concerti per violino di Bartók o di Rorem o dello stesso Berg… occorrerebbe un maggiore abbandono (alla musica, non delle poltrone del teatro)! Forse, per poesia e musica, siamo dinanzi a un eccesso di cautela.

Che ci volete fare, avere amici intelligenti è una sfiga da un certo punto di vista (specialmente quando sono interisti, strasmile!), però mi aiuta a restare con i piedi bene ancorati a terra.
Buon fine settimana a tutti.

L’elisir d’amore al Teatro Verdi di Trieste: qualche considerazione su Nemorino.

Nell’Elisir chi ha una collocazione drammaturgica davvero singolare è proprio Nemorino, tanto che si può affermare che a lui si deve la definizione di questo lavoro di Donizetti come opera di mezzo carattere.

Apostrofato nel testo di volta in volta come idiota, mezzo pazzo, buffone, malaccorto, scimunito (neanche parlassero di me! Smile) e altre delicatezze potrebbe sembrare un tipo buffo, mentre invece ha un lato drammatico molto accentuato al contrario, per esempio, della sua amata Adina, che pare essere una parente piuttosto stretta della Norina del Don Pasquale.
Spesso Nemorino, più che cantare, pensa ad alta voce, come nel caso della sortita Quanto è bella, quanto è cara. Esprime sentimenti semplici, sempre moralmente nobili.
È un sempliciotto non un buffo, tanto che si fa infinocchiare subito dalle cazzate del ciarlatano Dulcamara, che fa il suo ingresso in scena addirittura annunciato dal Coro, che lo sopravvaluta un pochino (Certo, egli è un gran personaggio, un barone, un marchese in viaggio!)
Dulcamara sì che è il classico buffo i cui tratti derivano direttamente dai personaggi rossiniani, e infatti s’esprime assai spesso col sillabato che è il linguaggio buffo per antonomasia.
Dulcamara è, per coloro che amano trovare la modernità nell’opera, il personaggio più attuale, non ci sono dubbi in proposito.
Ha il rimedio giusto per qualsiasi guaio, perché certi disagi sono presenti sempre, oggi come allora, a tutte le latitudini. Vediamo qualche sua prodezza (smile).
 

  1. Guaritore universale (io spazzo gli spedali)
  2. Calo della libido (un uom, settuagenario e valetudinario, nonno di dieci bamboli ancora diventò)
  3. Chirurgo plastico ante litteram (O voi matrone rigide, ringiovanir bramate?)

 
Insomma, chi non ha mai conosciuto o almeno visto in televisione il Dulcamara di turno? Vogliamo parlare di politica?
No, non vogliamo!
L’ antagonista di Nemorino è Belcore, altro trombone ma in senso diverso da Dulcamara (che forse non è intelligente, ma certamente è almeno furbo), più rozzo e un po’ sguaiato, che si presenta a sua volta in modo molto sobrio (smile), con una fanfara (Come Paride vezzoso). Infatti è un firmaiolo, un militare.

Quindi proprio con il linguaggio Donizetti differenzia i due caratteri: umile, intimo, raccolto, per Nemorino e invece magniloquente, artificioso, volgarotto Belcore.
Adina, che oltre ad essere una furbetta frivola è anche intelligente e colta (sa leggere e intrattiene i paesani raccontando la storia di Tristano e Isotta) sceglierà Nemorino.
E veniamo infine all’aria più famosa, Una furtiva lagrima, così celebre da identificare l’opera stessa e da essere diventata imprescindibile in ogni concerto tenorile che si rispetti.
La moglie del librettista Romani, quella Ernesta Branca non troppo affidabile che ho già citato nel post precedente, racconta:
 
Tutto procedette rapidamente e pienamente d’accordo fra Poeta(Romani) e Maestro (Donizetti), fino alla scena ottava dell’atto secondo; ma qui Donizetti volle introdurre una romanza per tenore, a fine di usufruire una musica da camera, che conservava nel portafogli, della quale era innamorato. Donizetti aveva di  sì strane passioncelle; talvolta odiava la propria musica, e talvolta l’adorava. Romani in sulle prime ricusò dicendo: «Credilo, una romanza in quel posto raffredda la situazione! Che c’entra quel semplicione villano, che viene lì a fare una piagnucolata patetica, quando tutto deve essere festività e gaiezza?». Ma tuttavia Donizetti insisté tanto finché ebbe la poesia.
 
Ammesso che sia andata così, in realtà la collocazione della romanza è fondamentale proprio per definire il carattere di Nemorino di quel patetismo che lo differenzia da tanti altri personaggi coevi.
E basterebbe questa considerazione per bollare come inappropriate moltissime interpretazioni muscolari di questo pezzo, errore nel quale sono incappati anche nomi notissimi.
Inoltre introducendo un’altra aria solistica il tenore pareggia il conto col soprano, che ne ha due.
E poi, sempre ricordando che Nemorino è una parte patetica, intima, si noti come i versi siano brevi e semplici, proprio nello stile del personaggio che si lascia guidare dal cuore e non dalla ragione.
Grazie alla sua quasi infantile innocenza [e, direi io che sono cattivo, anche grazie al fatto che gli muore uno zio che gli lascia una fortuna (smile)], il nostro Nemorino conquista la bella del villaggio.
Beh, non possiamo che essere contenti per lui, accidenti!
A questo punto è indispensabile allegare un ascolto, direi.
La scelta è difficile, ma voglio proporvi un esempio pertinente come stile e quasi impeccabile per tutto il resto.
Signori (ma anche signore, volendo), ecco a voi Tito Schipa.

 
 

L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti al Teatro Verdi di Trieste: prime considerazioni.

Tra appassionati, ogni tanto ci scappa di dire: Un altro Elisir? Che palle…

Io invece voglio dedicarci un paio di post, prima della prima di sabato prossimo al Teatro Verdi di Trieste.
Sì perché l’opera di Donizetti è tra le più rappresentate, non solo in Italia ma ovunque, e forse la possibilità di vederla spesso ci fa pensare non che sia un lavoro minore, ma che sia facile da allestire.
E invece no, al contrario è un’opera estremamente impegnativa e sentirla cantata in modo soddisfacente è cosa rara. Qualità e quantità non sempre viaggiano insieme, si sa.

E poi quando parliamo dei cantanti mitici del passato nominiamo, che ne so,  i soprani Giulia Grisi, Maria Malibran, i tenori Gianni Nozzari o Gilbert-Louis Duprez, non certo Sabine Heinefetter o Gianbattista Genero, i quali come avrete capito sono stati proprio i “creatori” dei ruoli di Adina e Nemorino.
Ancora di meno si dice del baritono e del basso buffo.
Curioso, da questo punto di vista, leggere che ne pensasse proprio Gaetano Donizetti di questi artisti.
Lo sappiamo da una lettera che scrisse al padre:
 
“…solo il tenore è discreto, la donna ha bella voce ma ciò che dice lo sa lei [una Joan Sutherland ante litteram? (N.d.Amfortas,strasmile)] il buffo (Giuseppe Frezzolini) è canino.”
 
La moglie di Felice Romani, Ernesta Branca (solo lei meriterebbe un post, smile) ci informa invece sul baritono Henri-Bernard Dabadie che secondo lei è un basso che val poco mentre sul basso buffo concorda con Donizetti, ma lo paragona ad un’altra bestia: aveva voce da capretto.
Più che un’opera sembra la fattoria degli animali, perché anche gli asini non mancavano, no (strasmile)?
Ecco perché, come sostenevo all'inizio, è difficile assistere a un Elisir soddisfacente: questo melodramma giocoso in due atti necessita di artisti di elevata qualità, quattro prime parti. Per non parlare del direttore e del Coro, quest'ultimo impegnatissimo e di fondamentale importanza.
Felice Romani, che tanto aveva già scritto per Rossini e Bellini, s’ispirò per scrivere il libretto all’attualissimo (per quei tempi) lavoro Le Philtre di Eugène Scribe, musicato da Daniel Auber.
Insomma, nonostante la fiducia negli interpreti evidentemente non fosse proprio straordinaria, l’opera debuttò con grande successo il 12 maggio 1832 a Milano, presso il Teatro alla Cannobiana.
Ora, siccome io scartabello tra i sacri testi, vi dico su quali giornali si poterono leggere le critiche positive, ma voi non dovete ridere, promesso?
Ok.
L’opera e la compagnia di canto ottennero ottime recensioni su nientemeno che “La Gazzetta privilegiata di Milano”, il “Corriere delle Dame” e “Il censore universale dei teatri”.GazzettaPrivilegiata

Chissà, magari tra qualche decina d’anni si dirà: Il tenore X e il soprano Y riportarono ottime critiche su “Di tanti pulpiti”, un blog che si occupava di musica lirica.
E giù a ridere, ovvio.
Mutatis mutandis, che ci volete fare…(strasmile)
Nel prossimo post parlerò (forse) in modo più specifico di come attraverso la struttura musicale Donizetti renda vivi i personaggi, tutti ben caratterizzati e con peculiarità precise.
Alla prossima dunque e buona settimana a tutti.
P.S.
Augurissimi di pronta guarigione a Placido Domingo, che nei giorni scorsi si è sottoposto a un intervento chirurgico importante.
 
 
 
 

Primedonne: da Abbado alla Callas sino al video promo dell’intervista a Magda Olivero su OperaClick.


Ci sarebbe tanto da dire sulla questione del ritorno alla Scala di Claudio Abbado, ma gli appassionati e competenti amici della Voce del Loggione stanno già sviscerando il problema con brillanti argomenti.

Io mi permetto solo un piccolo inciso.
Mi pare che si stia esagerando, dopotutto si tratta solo di musica e la vicenda invece, per certi aspetti ai quali lo stesso Abbado non è estraneo, sta diventando il solito baraccone casinaro all’italiana con relativo codazzo di politici, affaristi e manutengoli vari in cerca di visibilità.
Taccio sulla strategia della vendita dei biglietti che ha adottato la Scala, perché diventerei davvero volgare.
Quindi, visto che come già detto nel post precedente il prossimo appuntamento in teatro è per L’elisir d’amore al Verdi di Trieste, sabato prossimo, oggi dirò la mia su di un’altra incisione storica (1955, quindi ormai sono storico anch’io, strasmile) molto controversa e cioè il Rigoletto della EMI.
Una registrazione che non riesce a salvare neanche Maria Callas.
Mi si potrà ribattere che i suoi compagni di cordata fanno peggio, ma dalla Callas ci si aspetta sempre il meglio no?
Il fatto è che qui Santa Maria Nostra ha tante belle intenzioni, ma ne realizza poche e anzi spesso il risultato è modesto, perché la sua Gilda non è stucchevolmente bamboleggiante ma non è neanche una ragazza violata che “cresce” nell’arco dell’opera, come vorrebbe il Giudici. Canta correttamente (e ci mancherebbe pure! Ma ci scappa pure qualche nota bruttina forte), ma il personaggio alla fine non ha alcuna identità specifica, non è né carne né pesce, insomma.
Nei momenti più belcantistici, segnatamente il Caro nome, sono davvero tanti i soprano che hanno cantato meglio e, a costo di coprirmi di ridicolo (I mean, una volta più una meno…), cito la Elena Mosuc che ho ascoltato in teatro qui a Trieste, nel 2006 mi pare. Per non parlare di altre interpreti che hanno inciso il ruolo.
La Callas, peraltro, non è certo aiutata dal direttore Tullio Serafin, che impone tempi lenti ma soprattutto una mancanza di fraseggio orchestrale mortifera, che appiattisce tutto.
E neppure nei passi più drammatici si apprezza quella rivoluzione copernicana del ruolo alla quale la Callas ci ha abituati, perché io ci sento anche un po’ di sbracamenti e forzature tipiche di chi confonde un’interpretazione temperamentosa con il cattivo gusto paraverista.
Degli altri, e “gli altri” sono il baritono Tito Gobbi (Rigoletto) e il tenore Giuseppe Di Stefano (Il Duca) sarebbe quasi bene non parlare.
Tra i due mostri sacri (o solo veri mostri? Smile) almeno Gobbi segue un’idea interpretativa con coerenza, ma spesso le sue buone intenzioni sconfinano nel teatro di prosa, neanche troppo raffinato.
Inoltre non ci risparmia, se possibile enfatizzandole, tutte le pessime abitudini del tempo: cachinni, urla, portamenti.
D’altro canto Di Stefano non ha neanche una strategia, limitandosi a sbraitare e regalandoci delle vere e proprie urla, perlopiù stimbrate e calanti e un accento genericamente forsennato che compromette in molti casi la prosodia del testo.
Routinaria la prestazione di Adriana Lazzarini quale Maddalena mentre, in alcuni sprazzi, Nicola Zaccaria tratteggia un bel Sparafucile.
Insomma, se è vero che ogni artista e figlio del suo tempo è anche vero che Maria Callas anticipò i tempi con le sue interpretazioni ,ma qui si pone al di sopra del resto della compagnia di canto più per manifesta inferiorità di quest’ultima che per meriti propri.
Oggi, lo dico senza alcun timore d’essere smentito, un Rigoletto così verrebbe sonoramente fischiato e dalle contestazioni si salverebbe, appunto, solo una Callas in tono minore.
Parlando poi dei bei tempi andati, vi segnalo che su OperaClick tra qualche giorno sarà disponibile una straordinaria intervista con Magda Olivero.
Ecco qui il “promo”, una delizia.
E buon fine settimana a tutti.