Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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La Cenerentola di Rossini ottiene un buon successo al Teatro Verdi di Trieste

La Cenerentola di Gioachino Rossini è una di quelle opere che per molti, troppi anni è rimasta nell’oblio. Sino all’inizio degli anni 50 del secolo scorso nei cartelloni dei teatri Rossini era identificato in gran parte, se non esclusivamente, con Il Barbiere di Siviglia. Si deve a un grandissimo direttore d’orchestra italiano, Vittorio Gui, la “riscoperta” del lavoro rossiniano.

Anche il Teatro Verdi di Trieste non fece eccezione: scorrendo la cronologia delle stagioni balza all’occhio un buco di settanta anni in cui questo melodramma giocoso fu assente dal palcoscenico triestino. È infatti del 1951 la prima ripresa del XX secolo, con Giulietta Simionato nei panni della protagonista. Cenerentola rimane però un titolo – rispetto ad altri – poco frequentato alle nostre latitudini, forse perché un po’ estraneo a quella sfuggente propensione del pubblico triestino per opere più vicine alla propria introversa indole caratteriale, quelle che manifestano sì grazia, ma anche una bella grattugiata di scontrosità.
Ieri, in un teatro affollato, l’opera è stata riproposta nell’allestimento che ha debuttato nel 2022 al Teatro Carlo Felice di Genova per la regia di Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi che si sono ispirati allo storico spettacolo di Emanuele Luzzati.
La dimensione fiabesca, che avrebbe dovuto essere il tratto distintivo della serata, è stata un po’ offuscata da alcune scelte registiche che sono parse gratuite: il coro maschile quasi perennemente tarantolato, per esempio, non mi pare abbia aggiunto granché all’atmosfera di fanciullesco incanto che invece suggerivano le proiezioni – episodicamente un po’ invadenti – e le scene. Altri momenti sono sembrati più riusciti, come gli slow motion ben interpretati dalla compagna artistica e la scena del temporale. Belle le luci, costumi giustamente colorati e fantasiosi ma un po’ anonimi. In linea con la tradizione più nota il lavoro di regia sugli interpreti a conferma di un allestimento gradevole ma che non decolla mai davvero né offre spunti di riflessione particolari.
Brillante la direzione di Enrico Calesso, che ha interpretato la partitura con stile, eleganza e una sobrietà di fondo che ha esaltato sia il brio scoppiettante sia il malinconico abbandono che pervadono il capolavoro rossiniano in cui convivono felicemente un personaggio di opera seria, Angelina, e opera buffa.
La narrazione teatrale ne è uscita pulita, omogenea, e ha permesso di apprezzare sin dall’inizio – penso alla bellissima Sinfonia d’apertura – il virtuosismo dell’Orchestra del Verdi che ha dato esempio preclaro di cosa significhi il crescendo rossiniano.
Detto dell’ottimo rendimento del Coro, molto impegnato anche dal lato scenico, la compagnia di canto è sembrata di buon livello.
Laura Verrecchia, nei panni della protagonista Angelina, ha confermato tutte le qualità già ampiamente note al pubblico triestino che l’ha apprezzata di frequente negli ultimi anni.
Le armi vincenti sono state la voce di bel colore ambrato e il fraseggio vario e mobile, che le ha consentito di tratteggiare una protagonista convincente senza scadere in manierismi zuccherosi. Il mezzosoprano ha risolto senza troppi problemi anche il difficile rondò finale Nacqui all’affanno ed è sembrata disinvolta nella recitazione, improntata a un’introversa sobrietà appropriata al personaggio.
Ottimo il rendimento di Dave Monaco nella parte di Don Ramiro, che è caratterizzata da una scrittura vocale molto acuta e richiede la capacità di spiegare la voce a slanci quasi eroici in alternanza a improvvise parentesi elegiache: paradigmatica, in questo senso, l’aria Sì ritrovarla io giuro nel secondo atto, applaudita a scena aperta dal pubblico.
Carlo Lepore è stato convincente come Don Magnifico, del quale ha saputo restituire l’originaria provenienza dalla commedia dell’arte napoletana. Disinvolto dal lato scenico, Lepore ha anche una voce sonora di bel timbro e ha affrontato con sicurezza l’arduo sillabato rossiniano.
Bravo Giorgio Caoduro, che ha tratteggiato con arguzia lo spassosissimo Dandini, uno dei personaggi più divertenti dell’opera italiana. Il baritono, in una parte di tessitura piuttosto alta, ha cantato con pertinenza stilistica e grande civiltà vocale, evitando quegli eccessi interpretativi che con la musica di Rossini c’entrano nulla.
Alidoro è il protagonista occulto dell’opera ed è stato ben interpretato da Matteo D’Apolito, che ne ha esaltato l’umanità e l’autorevolezza.
A completare il cast Carlotta Vichi e Federica Sardella che erano le due insopportabili e viperine, ma divertenti, sorelle Tisbe e Clorinda.
La serata è stata apprezzata dal pubblico che ha applaudito spesso a scena aperta e alla fine ha tributato un grande successo a tutta la compagnia a artistica.

AngelinaLaura Verrecchia
Don RamiroDave Monaco
DandiniGiorgio Caoduro
Don MagnificoCarlo Lepore
AlidoroMatteo D’Apolito
TisbeCarlotta Vichi
ClorindaFederica Sardella
  
DirettoreEnrico Calesso
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaPaolo Gavazzeni e Piero Maranghi
Scene e costumi ispirati all’allestimento di Emanuele Luzzati 
Costumi ripresi daNicoletta Ceccolini
Contributi videoGiuseppe Ragazzini
  
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste




Un Nabucco interminabile ottiene un buon successo al Teatro Verdi di Trieste

Nabucco, notoriamente, è l’opera che diede la svolta alla carriera di Giuseppe Verdi ed è una delle più autenticamente popolari del Maestro.
Opera risorgimentale, che negli anni è diventata simbolo senza confini di liberazione dei popoli oppressi, Nabucco è un lavoro in cui i contrasti laceranti tra pubblico e privato si compenetrano nel contesto di un conflitto che è religioso e politico.
Giancarlo Del Monaco, regista di questa produzione che proviene da Zagabria, sceglie di evidenziare la parte più squisitamente politica ambientando la vicenda durante le Cinque giornate di Milano.
Le scenografie di William Orlandi sono imponenti e quasi intimidatorie, mentre i costumi sono sembrati pertinenti ma un po’ dimessi e l’impianto luci – di Wolfgang von Zoubek  – piuttosto piatto e privo di cromatismi che avrebbero, forse, ravvivato un allestimento che ha sofferto di una spossante staticità accentuata da due intervalli e tre cambi scena che hanno ucciso la continuità della narrazione e assassinato l’incalzante drammaturgia teatrale.
C’è poi l’annosa questione del coro Va pensiero, ieri bissato a furor di…Daniel Oren, che sostanzialmente ha incitato il pubblico a replicare il famoso coro. Gli applausi, meritatissimi, dopo la prima esecuzione sarebbero stati più che sufficienti. Il bis ha solo stremato ulteriormente pubblico e compagnia artistica senza aggiungere nulla alla tensione emotiva della serata.
Daniel Oren sul podio dell’Orchestra del Verdi, quindi, un connubio artistico complessivamente felice nel passato e – dopo qualche problema risolto non senza difficoltà – rinnovato negli ultimi anni.
Anche ieri la direzione di Oren è sembrata di ottimo livello sia nell’accompagnamento ai cantanti sia nella gestione delle problematiche dinamiche della partitura, che alterna momenti di raccoglimento ad altri di infuocata tensione. Trovare un equilibrio non è facile e, nonostante qualche episodico eccesso di decibel, l’interpretazione del maestro israeliano è stata efficace. L’Orchestra del Verdi ha risposto benissimo alle sollecitazioni del podio con un suono genuinamente verdiano in cui archi e legni si sono distinti in modo particolare.
Roman Burdenko è stato protagonista di una prova più che buona e ha tratteggiato in modo efficace il Re di Babilonia, connotandolo di tutti quei turbamenti e quelle esuberanze caratteriali che caratterizzano il personaggio. Fraseggio curato, attenzione alla parola scenica e – da non sottovalutare – uno strumento vocale omogeneo in tutti i registri, acuti compresi.
Maria José Siri, che nel finale è stata sostituita per un’improvvisa indisposizione da Olga Maslova – in teatro faceva caldissimo – ha interpretato Abigaille con la consueta solidità vocale e acuti ragguardevoli, anche se da un soprano del suo livello ci si aspetterebbe un fraseggio più mobile.
Rafal Siwek è stato uno Zaccaria di grande umanità al quale è però mancata quella autorevole ieraticità che caratterizza il personaggio.
Carlo Ventre, Ismaele, ha affrontato con slancio una parte tenorile ingrata e poco remunerativa perché non ha grandi arie o melodie accattivanti, ma ne è uscito con dignità.
Elmina Hasan è stata bravissima nei panni di Fenena, anche se nella bellissima aria Oh, dischiuso è il firmamento è sembrata un po’ intimidita.
Buono il rendimento di Cristian Saitta (Gran Sacerdote di Delo) ed efficace Christian Collia nei panni di Abdallo; completava il cast Elisabetta Zizzo (Anna).
Eccellente – e non solo nel Va pensiero –  il Coro del Verdi, preparato da Paolo Longo.
Teatro sostanzialmente esaurito, ed è sempre una bella notizia. Pubblico partecipe che ha tributato un franco successo a tutta la compagnia, manifestando particolare calore per Roman Burdenko e Daniel Oren.
Segnalo che giovedì 28 marzo alle 20 è stata programmata last minute un’esecuzione della Messa di Requiem verdiana.

NabuccoRoman Burdenko
AbigailleMaria José Siri
ZaccariaRafal Siwek
IsmaeleCarlo Ventre
FenenaElmina Hasan
Gran Sacerdote di BeloCristian Saitta
AbdalloChristian Collia
AnnaElisabetta Zizzo
  
DirettoreDaniel Oren
Direttore del CoroPaolo Longo
  
RegiaGiancarlo Del Monaco
Scene e costumiWilliam Orlandi
Impianto luciWolfgang Von Zoubek
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
Civica Orchestra di fiati “Città di Trieste”

Recensione seria di Ariadne auf Naxos di Richard Strauss al Teatro Verdi di Trieste

Dopo un’assenza di venti anni è tornata al Teatro Verdi di Trieste Ariadne auf Naxos di Richard Strauss in un allestimento già visto a Bologna un paio di anni fa e che sarà a Venezia tra un paio di mesi.
Il teatro triestino ha coprodotto lo spettacolo che è stato affidato alla regia di Paul Curran, qui ripresa da Oscar Cecchi.
Opera dai mille volti e paradigma del metateatro, Ariadne auf Naxos è il frutto, squisito, di una delle tante collaborazioni tra Hofmannsthal e Strauss e contiene molte caratteristiche che la rendono peculiare a cominciare dalla compagine orchestrale che, al contrario del solito in Strauss, è praticamente cameristica.
L’allestimento di Curran è interessante e ben realizzato nelle scene di Gary Mc Cann, più scorrevole nel Prologo – per ovvi motivi, c’è più azione e il caos è enfatizzato dalla regia – e leggermente statico nella seconda parte, quella più prettamente legata alla mitologia greca. È uno spettacolo pensato, in cui si vede una notevole cura rivolta alle interazioni tra i tanti personaggi e i figuranti; le controscene hanno un loro senso e aggiungono dinamismo e qualche sprazzo di umorismo all’azione, al pari delle mini-coreografie pensate per il quartetto delle maschere e per le tre ninfe.
Molto centrati nella loro eccentricità anche i costumi che, nonostante spesso sforino ampiamente il limite del kitsch, sono funzionali all’idea registica al pari del rutilante impianto luci di Howard Hudson.
Oscar Cecchi, che per l’occasione ha ripreso la regia, ha fatto un ottimo lavoro anche se – parole sue – ha dovuto sacrificare qualcosa dell’allestimento originale per esigenze di spazio.
Protagonista assoluta della serata è stata l’Orchestra del Verdi che ha suonato benissimo, trovando corposità di suono e al contempo meditata leggerezza nell’intero arco della serata.
Quando una compagine suona bene ci sono sempre meriti intrinsechi nel valore dei professori d’orchestra ma la lettura e l’interpretazione del direttore sono fondamentali.
Enrico Calesso sugli scudi, quindi, perché la sua declinazione della partitura straussiana ha brillato per trasparenza, cura dei particolari, gestione ritmica e attenzione al palco. Grande rilievo è stato dato alle percussioni, mentre il tappeto sonoro steso per i cantanti ne ha favorito la buona prestazione collettiva. Dinamiche contrastate ma equilibrate e agogiche spedite nel Prologo e più rilassate nell’ultima parte, com’è giusto che sia. Soprattutto la narrazione è sembrata omogenea, rotonda, ponderata.
Tra i cantanti le interpreti di Ariadne e Zerbinetta sono sembrate le migliori della compagnia artistica.
Simone Schneider ha impersonato una Ariadne di grande spessore, grazie a una voce sonora e a una tecnica educata, da vecchia scuola, che le hanno consentito sciabolate in acuto e al contempo un fraseggio partecipato e attento alle esigenze del testo che nella fattispecie è fondamentale.
Liudmila Lokaichuk, nei panni di Zerbinetta, ha connotato di brio e tenera freschezza un personaggio che ha molte sfaccettature, smarcandolo da una certa routine che lo imprigiona nello stereotipo della macchinetta di acuti e, anzi, accentuando i momenti di riflessivi ripiegamenti. Nella sua grande aria ha ricevuto un uragano di applausi più che meritati.
Sophie Haagen (Compositore) è stata protagonista di una prova in crescendo dal lato vocale nonostante qualche acuto sia sembrato forzato, mentre ha ben figurato senza riserve dal lato attoriale.
Sufficiente il rendimento di Heiko Börner nella temibilissima parte di Bacco anche se , soprattutto negli interventi fuori scena, la voce è sembrata un po’ troppo flebile.
Marcello Rosiello ha riconfermato di essere un ottimo baritono e attore spigliato nella parte del Maestro di musica.
Molto bravi tutti gli interpreti – che trovate in locandina assieme agli altri coprotagonisti –  delle quattro maschere, dinamici in scena e validi dal lato vocale, e delle tre Ninfe che accompagnano il calvario emozionale di Arianna. Di buona routine la prestazione di tutti gli altri.
Pubblico, ahimè, non esattamente straripante ma attento e generoso di applausi per tutta la compagnia artistica. Trionfo per Simone Schneider, Liudmila Lokaichuk ed Enrico Calesso.
Si replica sino a domenica 25 febbraio, spettacolo da non perdere.



La Primadonna/AriannaSimone Schneider
ZerbinettaLiudmila Lokaichuk
Il tenore/BaccoHeiko Börner
Il Maestro di MusicaMarcello Rosiello
CompositoreSophie Haagen
BrighellaChristian Collia
NajadeOlga Dyadiv
EchoChiara Notarnicola
DriadeEleonora Vacchi
ArlecchinoGurgen Baveyan
Maestro di BalloAndrea Galli
Il maggiordomoPeter Harl
ScaramuccioMathias Frey
TruffaldinoVladimir Sazdovsky
Un lacchèFrancesco Samuele Venuti
Un parruccaioDario Giorgelè
Un ufficialeGianluca Sorrentino
  
DirettoreEnrico Calesso
  
RegiaPaul Curran
  
Regia ripresa daOscar Cecchi
Scene e costumiGary Mc Cann
LuciHoward Hudson
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste

Recensione di Anna Bolena di Gaetano Donizetti al Teatro Verdi di Trieste: un cast omogeneo onora la sfortunata regina Anna

Primo titolo dell’anno nuovo, Anna Bolena è tornata al Teatro Verdi di Trieste nella stessa produzione del 2012 firmata per la regia dal grande Graham Vick – ora purtroppo scomparso – e ripresa anche questa volta da Stefano Trespidi.
Gli esiti artistici sono stati complessivamente migliori in quest’ultima occasione, mentre nel 2012 brillò solo, lucentissima, la stella di Mariella Devia.
Per quanto riguarda l’allestimento non ho molto da aggiungere a quanto scrissi a suo tempo, anche se onestamente devo dire che negli anni lo spettacolo si è un po’ rivalutato, probabilmente perché la compagnia artistica più omogenea e una direzione più appropriata lo rendono più scorrevole.
Resta però, a mio parere, una regia irrisolta, che punta troppo sullo sfarzo – qualche volta di gusto discutibile – di scene e costumi e palesando una staticità di fondo che contraddice il tumulto di sentimenti dei protagonisti.
Le opere di Donizetti sono difficilissime da dirigere, abbondano i concertati, la gestione ritmica è complessa, l’accompagnamento ai cantanti deve essere espressivo e l’equilibrio sonoro bilanciato; inoltre, deve uscire la tinta dell’opera che in questo caso è un caleidoscopio di cromatismi dallo spettro molto ampio. Anna Bolena è poi un’opera lunga, ha obbiettivamente qualche momento in cui la tensione emotiva tende a smorzarsi.
Francesco Ivan Ciampa, con la sua lettura meditata e al contempo rovente del quale amo anche la sobrietà sul podio, è riuscito a calibrare tutte queste suggestioni in modo esemplare alla testa di un’Orchestra del Verdi in splendida serata in cui tutte le sezioni hanno brillato e concorso al favorevole esito della recita.
Come dicevo sopra la compagnia artistica era omogenea ed equilibrata e, a partire dalla protagonista, tutti hanno dato un contributo prezioso alla buona riuscita complessiva della serata.
Salome Jicia ha vestito i panni di Anna Bolena e lo ha fatto con pertinenza stilistica e vocalità adatta, per quanto nel primo atto qualche acuto sia uscito un po’ schiacciato. Il fraseggio e l’attenzione alla parola scenica però non sono mai mancati e dopo l’intervallo la sua prestazione è stata splendida e trascinante ed è culminata nel lungo finale in cui il soprano ha dato il meglio di sé sia dal lato vocale sia da quello attoriale.
Il pubblico, giustamente, l’ha premiata con applausi anche a scena aperta.
Molto brava anche Laura Verrecchia, anche lei artefice di una prova in crescendo dopo un inizio un po’ titubante probabilmente dovuto all’emozione della prima. Giovanna Seymour è forse il personaggio dell’opera più complesso psicologicamente, attanagliata da un lacerante disagio che si presenta nei duetti con Enrico e Anna all’inizio dei due atti in cui il mezzosoprano ha dato il meglio di sé.
Marco Ciaponi ha dato un’interpretazione da manuale di Riccardo Percy, superando con (apparente) facilità i numerosi scogli della difficilissima parte. Il tenore ha molte frecce al suo arco in questo repertorio: dizione chiara, voce non enorme ma squillante, facilità nella salita agli acuti e compostezza scenica. Accorata e partecipe l’interpretazione della meravigliosa “Vivi tu”, una delle arie più belle per tenore protoromantico.
Autorevole e al contempo autoritario, sprezzante e austero, Riccardo Fassi ha dato vita a un credibile ed eloquente Enrico VIII grazie a una presenza soggiogante e alla voce da basso di buon volume, ben timbrata e gradevole.
Veta Pilipenko ha tratteggiato con intelligenza la parte en travesti dell’ingenuo Smeton, figurando bene anche dal punto di vista scenico.
Bravi anche i coprotagonisti: Andrea Schifaudo è stato un Hervey di lusso, sonoro e dalla bella dizione; buona anche la caratterizzazione un po’ rude di Nicolò Donini di Rochefort.
Ottima la prova del Coro, in particolare nella sezione femminile.
Teatro non esattamente esaurito, probabilmente anche a causa del freddo pungente acuito dalla amatissima bora. Il pubblico ha però apprezzato lo spettacolo e ha manifestato approvazione con lunghi applausi a tutta la compagnia decretando un calorosissimo successo agli interpreti principali.

Anna BolenaSalome Jicia
Giovanna di SeymourLaura Verrecchia
Lord Riccardo PercyMarco Ciaponi
Enrico VIIIRiccardo Fassi
SmetonVeta Pilipenko
Lord RochefortAndrea Schifaudo
Sir HerveyNicolò Donini
  
DirettoreFrancesco Ivan Ciampa
  
Direttore del CoroPaolo Longo
  
RegiaGraham Vick ripresa da Stefano Trespidi
Scene e costumiPaul Brown
  
  
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste

Die Zauberflöte di Mozart raccoglie un buon successo al Teatro Verdi di Trieste grazie a una compagnia artistica omogenea e a un piacevole allestimento di Ivan Stefanutti.

Dopo la burrascosa produzione del 2017 che scatenò l’ira del solitamente sopito pubblico triestino, è tornata al Teatro Verdi una produzione di Die Zauberflöte molto rassicurante ed educata, che ha ricevuto notevoli consensi dagli spettatori.
L’opera di Mozart si presta a mille interpretazioni tanto è ricca di molteplici situazioni esplicite e reconditi sottotesti e il regista Ivan Stefanutti , che firma anche scene e costumi, sceglie la via della contaminazione tra culture diverse – un puzzle che profuma di esotismi orientali –  in cui si compenetrano fiabesche realtà e sfumate suggestioni oniriche accentuate dall’impianto luci di Emanuele Agliati, che valorizza scene e costumi.
Ne esce un allestimento di un certo pregio, in cui i costumi fantasmagorici hanno un’inusitata rilevanza per la narrazione e in qualche modo assolvono alla distinzione di rango tra i personaggi popolari, quelli più marcatamente bizzarri e stravaganti e gli altri che appartengono a una nobiltà di censo o di ieratica sacralità.
Lo spettacolo soffre di una certa staticità soprattutto nelle masse – il solito coro spesso schierato e immobile – ma le interazioni tra i protagonisti sono messe in luce con garbo e professionalità.
Manca, per scelta registica, una chiara rappresentazione della simbologia massonica, che chi conosce la trama e la genesi dell’opera intuisce a momenti ma che probabilmente non sarà percepita dalla maggioranza delle persone. Non è un male, nel senso che si tratta di un’opzione più volte percorsa nella storia interpretativa dell’opera che forse rende più lineare l’azione, anche se affiora qua e là qualche momento di stanchezza, soprattutto nella chiusura del primo atto.
La scelta di tradurre in italiano i dialoghi – Die Zauberflöte è un Singspiel, come è noto – non è proprio filologicamente ineccepibile ma la buona capacità di pronuncia di quasi tutti gli interpreti contribuisce a renderla accettabile.
L’interpretazione di Beatrice Venezi è sembrata in linea con la regia, nel senso che ha puntato al sodo senza troppi fronzoli ma anche senza troppe sfumature, una direzione di discreta routine che comunque mi è sembrata procedere priva di intoppi e concentrata soprattutto sulla gestione ritmica.
Certo, Mozart pretenderebbe qualche scelta agogica e dinamica più marcata, cosa che probabilmente avverrà nelle prossime recite perché le “prime”, notoriamente, sono l’ultima delle prove. Buona la prestazione dell’Orchestra del Verdi in tutte le sezioni, ma mi piace rimarcare l’ottimo rendimento dei legni. Anche il Coro si è portato con la consueta professionalità.
Tutta la compagnia di canto ha ben figurato sia per pertinenza stilistica sia per coinvolgimento emotivo e attoriale ma il soprano Darija Auguštan (Pamina) si è resa protagonista di una prestazione brillante. Intonazione perfetta, ottima pronuncia, voce gradevole che sale ai moderati acuti della parte con grande facilità e scioltezza, circostanze favorite da una tecnica vocale di vecchia scuola in cui l’emissione del suono è fluida perché tutta in avanti, sul fiato.
Paolo Nevi, che nella Manon Lescaut aveva palesato un volume non debordante, mi è sembrato più in forma nei panni di Tamino. Quello che è mancato, almeno ieri sera e comunque nell’ambito di un rendimento positivo, è stata una maggiore attenzione alla parola, nel senso che il personaggio è uscito monodimensionale nel fraseggio, privo di quella fierezza nobile e distaccata che caratterizza il tenore amoroso mozartiano.
Grintosa e aggressiva – come è giusto – Nicole Wacker quale sulfurea Regina della Notte. Il soprano ha cantato con buoni esiti artistici la sua parte che prevede due arie temibili e notissime al pubblico, raccogliendo applausi a scena aperta e un bel successo personale alla fine.
In parte anche Vincenzo Nizzardo, che di Papageno ha colto il lato schiettamente popolare sia dal punto di vista vocale sia da quello altrettanto importante della disinvoltura scenica.
Bravo anche Alessio Cacciamani, Sarastro di grande civiltà vocale e scenica, che ha cesellato un personaggio che deve sprigionare autorevolezza e umanità al contempo.
Il tenore Marcello Nardis, Monostatos, è uno di quegli artisti che impreziosiscono le produzioni teatrali perché caratterizza sempre con proprietà i personaggi che gli vengono affidati: anche ieri è stato così a riprova di una costanza di rendimento che ormai prosegue da anni.
Nella piccola parte di Papagena si è ben disimpegnata Chiara Maria Fiorani, efficace anche come spiritosa caratterista.
Gradevoli le prestazioni delle Tre Dame (Francesca Bruni, Eleonora Filipponi, Antonella Colaianni) e dei Tre Geni (Caterina Trevisan, Francesca Clemente, Marina Lombardi) e di buona routine tutti gli altri coprotagonisti che trovate in locandina.
Teatro affollato, spettatori contenti e prodighi di applausi per tutta la compagnia artistica, più volte chiamata al proscenio.

PaminaDarija Augustan
TaminoPaolo Nevi
Regina delle NotteNicole Wacker
SarastroAlessio Cacciamani
PapagenoVincenzo Nizzardo
PapagenaChiara Maria Fiorani
MonostatosMarcello Nardis
OratoreLiu Ytian
Prima DamaFrancesca Bruni
Seconda DamaEleonora Filipponi
Terza DamaAntonella Colaianni
Primo sacerdote/second armigeroViktor Shevchenko
Secono sacerdote/primo armigeroGianluca Moro
Tre geniCaterina Trevisan, Francesca Clemente, Marina Lombardi
Primo schiavoGianluca Di Canito
Secondo SchiavoLuigi Silvestre
Terzo schiavoFrancesco Paccorini
  
DirettoreBeatrice Venezi
Direttore del CoroPaolo Longo
  
Regia, scene e costumiIvan Stefanutti
Impianto luciEmanuele Agliati
  
  
Coproduzione Teatri di opera Lombardia, Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, Opera Carolina
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste



Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Die Zauberflöte di Mozart al Teatro Verdi di Trieste

Dunque, giovedì prossimo 7 dicembre il Teatro Verdi accoglie Die Zauberflöte (Il flauto magico) di Mozart. Dico, Wolfgang Amadeus Mozart, uno dei più grandi geni della storia dell’umanità, colto in questo caso nella sua ultima composizione teatrale. Perciò, dopo essermi genuflesso più volte, oso scrivere qualche sintetica e informale nota per chi verrà in teatro e magari non conosce molto di questo straordinario capolavoro.
Il flauto magico appartiene al genere musicale dello Singspiel, una forma teatrale tedesca e austriaca di origine popolare che prevedeva oltre al canto anche dialoghi parlati.

Ci sono nel teatro lirico molti altri esempi di Singspiel, lo stesso Mozart per esempio scrisse Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio). Altri esempi celebri sono il Fidelio di Beethoven e Der Freischütz (Il franco cacciatore) di Carl Maria von Weber.

Nel Flauto magico convivono felicemente molte suggestioni e le interpretazioni e le letture possono essere diverse e, a mio parere, tutte plausibili. Per molti è l’opera massonica per antonomasia, disseminata com’è di simboli esoterici: numeri (il tre, a partire dagli accordi iniziali, è una costante), il passaggio dal buio alla luce, la presenza delle prove dell’acqua e del fuoco e tanto altro ancora.

Personalmente amo considerare quest’opera come una fiaba per adulti mascherata da una semplicità empatica e colorata, un viaggio un po’ accidentato nell’inconscio e quindi estremamente personale, intimo, in cui come nei corsi d’acqua carsici ogni tanto riaffiora in superficie qualche ricordo che magari scompare subito dopo. Un viaggio iniziatico alla scoperta di noi stessi, se mi concedete la metafora azzardata.

La trama dell’opera si trova facilmente, anche sulla benemerita Wikipedia.

I tanti personaggi dell’opera parlano, dal punto di vista musicale, lingue differenti. Sono cioè caratterizzati da stili diversi che ne fotografano il lignaggio e la provenienza sociale. Inoltre, nel corso della narrazione succede che in qualche modo il nostro parere sul loro operato cambi, trasformando i buoni in cattivi e viceversa. Insomma anche in questo caso l’apparenza inganna. A seguire un breve cenno ai principali protagonisti dell’opera.

Papageno e Papagena sono di estrazione popolare e il loro stile è appunto quasi folcloristico, sanguigno nei versi, nelle intemperanze caratteriali e nelle melodie. Tamino e Pamina sono due innamorati ed esprimono sempre un canto amoroso e ispirato a una dignitosa sensibilità e sensualità, scevra di eccessivi languori larmoyant.

Sarastro non a caso è affidato alla voce di un basso profondo, perché deve esprimere autorevolezza, ieraticità in un ambito quasi oratoriale, da musica sacra e solenne. Monostatos è vicino agli stilemi di un carattere buffo, che sembra stridere con gli altri personaggi.

La Regina della notte (Königin der Nacht) è, forse, la protagonista più ambigua, vero motore della vicenda, che si esprime con un canto tipico dell’opera seria del periodo. Dominio dei soprani di coloratura, la parte richiede oltre che virtuosismo un accento fiero, dizione scandita, temperamento sulfureo.
l grande genio di Mozart riesce a far convivere tutte queste particolarità rendendole omogenee, liquide, filanti. Lo fa anche attraverso l’orchestra e con l’uso di strumenti come il Glockenspiel che, lo scrivo per i profani, ricorda tanto il suono dei carillon.

Gioverà ricordare che l’autore del libretto, Emanuel Schikaneder, fu anche il creatore di Papageno della prima assoluta che si svolse a Vienna, il 30 settembre 1791.
Per la buona riuscita artistica dell’opera mi pare indispensabile che i cantanti siano anche disinvolti in scena, mobili nel fraseggio ma anche buoni attori.

Il direttore d’orchestra ha un compito arduo, risolvere il problema del suono orchestrale che deve essere sempre trasparente ma mai lezioso, anodino. La musica esprime una vitalità prorompente che non può essere compromessa da clangori e allo stesso tempo restare virile e incisiva.

La regia…beh…si valuterà sul campo e cioè in teatro. Non esistono regie moderne o tradizionali, ma solo regie intelligenti o stupide. Al Teatro La Fenice ne vidi una splendida versione, per esempio.

Se potessi esaudire un desiderio, vorrei che a Trieste succedesse ciò che accadde in Germania, dopo il debutto dell’opera. La Zauberflöte uscì dai teatri e il popolo si impadronì delle sue melodie, improvvisando per strada le scene più famose o cantando le arie anche in modo sgangherato, chissenefrega.

Oddio, nella Trieste di oggi sarebbe un problema, ma non stiamo a sottilizzare.

Nel caso qualcuno volesse provarci, beh, credo che potrei essere un Papageno formidabile e, forse, anche una pittoresca Regina della notte (strasmile).

Un saluto a tutti, alla prossima!

Manon Lescaut di Puccini inaugura la stagione lirica del Teatro Verdi di Trieste. La regia di Guy Montavon deraglia nell’ultimo atto.

Dopo la sospensione per sciopero del vernissage, la pomeridiana di ieri è stata la prima occasione utile per ascoltare e vedere Manon Lescaut di Puccini, che ha aperto la stagione del Teatro Verdi di Trieste da cui mancava dal 2007.
C’era molta curiosità nell’aria perché da qualche tempo giravano voci su di una regia, nella migliore delle ipotesi, stravagante.
L’allestimento, proveniente da Montecarlo dove ottenne a suo tempo un successo clamoroso (con Anna Netrebko nei panni della protagonista), è il classico esempio di teatro di regia riuscito male proprio nella concezione drammaturgica.
Voglio dire che, piaccia o meno la trasposizione temporale, i caratteri dei personaggi sono perfettamente riconoscibili e coerenti con il libretto sino al terzo atto compreso, quando il regista Guy Montavon si inventa una specie di MacGuffin teatrale che trasforma a proprio uso e consumo Geronte – il personaggio più realistico e attuale dell’opera, ché di vecchi potentati che si attorniano di giovani ragazze la cronaca e la storia è piena – in un killer psicopatico. A scatenare la follia è il fatto che Des Grieux distrugge una sua presunta opera d’arte e cioè libera la povera Manon che nel secondo atto era stata trasformata in una specie di statua vivente, con un procedimento che richiamava qualcosa di perfidamente trasversale tra la Body art e il Body painting in salsa new age.
Per questo motivo,  il santone Geronte trasforma la compagnia di strampalati che lo segue come una setta in una scombinata giuria popolare che decide di condannare a morte Manon, la quale non vedrà mai alcuna nave e tanto meno deserti ma solo una tetra prigione adiacente a una stanza dalla quale Des Grieux osserva impotente il suo martirio.
Ecco, tutta questa parte che ho descritto affannosamente è insensata perché non c’entra nulla col livre abominable di Prévost né, tantomeno, con la Manon Lescaut di Puccini.
Spiace sottolinearlo perché sino a quel momento regia e messinscena erano singolari ma tutt’altro che sgradevoli: scenografie sfarzose e ben realizzate, luci splendide, controscene curate e approfondite le interazioni tra i personaggi. Un’altra criticità dell’allestimento sono le due lunghe pause per i cambi scena che, unite all’intervallo, rendono la serata estenuante e, soprattutto, spezzano in modo irreparabile la tensione emotiva della narrazione teatrale e musicale. Il pubblico si distrae in queste circostanze e infatti a un certo punto una inviperita Gianna Fratta ha fulminato con lo sguardo un paio di signore in prima fila che non volevano saperne di farle cominciare l’Intermezzo.

Gianna Fratta, appunto, la quale ha dato un’interpretazione al calor bianco della partitura pucciniana, sottolineandone la sensualità e la crudezza che grondano da ogni nota. Non è, appunto, la Manon di Puccini un’opera da sdilinquimenti e smancerie – lo è la Manon di Massenet – bensì una storia di amore, lacrime e dolore. Emozioni violente che si sono espresse anche con qualche decibel di troppo, soprattutto negli interventi del Coro, peraltro in ottima forma. L’inizio del secondo atto, con quella atmosfera fintamente raffinata, in cui gli echi della musica settecentesca sono artatamente involgariti sino al pacchiano, mi è sembrato un momento di grande musica.
L’Orchestra del Verdi, che ha il sound pucciniano nel DNA, si è espressa al meglio e mi piace sottolineare la bellissima prestazione dei legni, senza ovviamente voler togliere nulla alle altre sezioni.
La compagnia di canto mi è parsa, nel complesso, modesta dal punto di vista vocale e ottima da quello attoriale.
Unica eccezione Lana Kos, che di Manon Lescaut forse non ha il peso vocale in senso stretto, ma sopperisce con la tecnica alle parziali mende di volume. La voce è gradevole, ben proiettata negli acuti che passano la densa orchestra pucciniana e il fraseggio attento e partecipe che esalta quel canto di conversazione che è il marchio di fabbrica di Puccini. Inoltre l’interprete è accorata, vivace, attenta: la sua Manon è decisamente di buon livello e ha conquistato il pubblico triestino che l’ha premiata con un trionfo.
Roberto Aronica è stato un Des Grieux credibile scenicamente ma altalenante nel rendimento vocale, pur senza che ci siano inconvenienti particolari. Dopo un inizio piuttosto contratto, il tenore si è rinfrancato e nel lungo duetto del secondo atto si è espresso al meglio. È rimasta però una sensazione di incompiutezza, perché al suo cavaliere è mancata quella passionalità rovente che il personaggio pretenderebbe.
Viscido e opportunista al punto giusto il Lescaut di Fernando Cisneros, che vanta una voce di buon volume ma gestita in modo un po’ troppo grossier per quanto il personaggio non sia proprio un uomo da raffinatezze. Impeccabile, invece, la sua prestazione attoriale.
Matteo Peirone ha tratteggiato un Geronte in linea con le direttive della regia, ma spesso la voce non ha passato l’orchestra, almeno dalla mia posizione, circostanza che vale anche per il flebile Edmondo di Paolo Nevi.
Brava Magdalena Urbanowicz nei panni del musico e di routine gli interventi di Nicola Pamio e Giuseppe Esposito che hanno contribuito alla tutto sommato buona riuscita della recita.
Il pubblico, numeroso, ha apprezzato con moderazione la serata, applaudendo tutta la compagnia artistica e riservando grandi applausi per Lana Kos e Gianna Fratta.
I responsabili della regia non si sono presentati al proscenio, probabilmente perché dopo lo sciopero la prima ufficiale, quella con i carabinieri, le autorità, l’inno e i critici seri è stata spostata a mercoledì 8 novembre.

Manon LescautLana Kos
Il Cavaliere Renato Des GrieuxRoberto Aronica
LescautFernando Cisneros
Geronte di RavoirMatteo Peirone
EdmondoPaolo Nevi
Un musicoMagdalena Urbanowicz
Il Lamionaio/Maestro di BalloNicola Pamio
L’osteGiuseppe Esposito
  
DirettoreGianna Fratta
Direttore del coroPaolo Longo
  
Regia e luciGuy Montavon
SceneHank Irwin Kittel
CostumiKristopher Kempf
  
Orchestra e Coro del Teatro Giuseppe Verdi di Trieste