Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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La Cenerentola di Rossini ottiene un buon successo al Teatro Verdi di Trieste

La Cenerentola di Gioachino Rossini è una di quelle opere che per molti, troppi anni è rimasta nell’oblio. Sino all’inizio degli anni 50 del secolo scorso nei cartelloni dei teatri Rossini era identificato in gran parte, se non esclusivamente, con Il Barbiere di Siviglia. Si deve a un grandissimo direttore d’orchestra italiano, Vittorio Gui, la “riscoperta” del lavoro rossiniano.

Anche il Teatro Verdi di Trieste non fece eccezione: scorrendo la cronologia delle stagioni balza all’occhio un buco di settanta anni in cui questo melodramma giocoso fu assente dal palcoscenico triestino. È infatti del 1951 la prima ripresa del XX secolo, con Giulietta Simionato nei panni della protagonista. Cenerentola rimane però un titolo – rispetto ad altri – poco frequentato alle nostre latitudini, forse perché un po’ estraneo a quella sfuggente propensione del pubblico triestino per opere più vicine alla propria introversa indole caratteriale, quelle che manifestano sì grazia, ma anche una bella grattugiata di scontrosità.
Ieri, in un teatro affollato, l’opera è stata riproposta nell’allestimento che ha debuttato nel 2022 al Teatro Carlo Felice di Genova per la regia di Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi che si sono ispirati allo storico spettacolo di Emanuele Luzzati.
La dimensione fiabesca, che avrebbe dovuto essere il tratto distintivo della serata, è stata un po’ offuscata da alcune scelte registiche che sono parse gratuite: il coro maschile quasi perennemente tarantolato, per esempio, non mi pare abbia aggiunto granché all’atmosfera di fanciullesco incanto che invece suggerivano le proiezioni – episodicamente un po’ invadenti – e le scene. Altri momenti sono sembrati più riusciti, come gli slow motion ben interpretati dalla compagna artistica e la scena del temporale. Belle le luci, costumi giustamente colorati e fantasiosi ma un po’ anonimi. In linea con la tradizione più nota il lavoro di regia sugli interpreti a conferma di un allestimento gradevole ma che non decolla mai davvero né offre spunti di riflessione particolari.
Brillante la direzione di Enrico Calesso, che ha interpretato la partitura con stile, eleganza e una sobrietà di fondo che ha esaltato sia il brio scoppiettante sia il malinconico abbandono che pervadono il capolavoro rossiniano in cui convivono felicemente un personaggio di opera seria, Angelina, e opera buffa.
La narrazione teatrale ne è uscita pulita, omogenea, e ha permesso di apprezzare sin dall’inizio – penso alla bellissima Sinfonia d’apertura – il virtuosismo dell’Orchestra del Verdi che ha dato esempio preclaro di cosa significhi il crescendo rossiniano.
Detto dell’ottimo rendimento del Coro, molto impegnato anche dal lato scenico, la compagnia di canto è sembrata di buon livello.
Laura Verrecchia, nei panni della protagonista Angelina, ha confermato tutte le qualità già ampiamente note al pubblico triestino che l’ha apprezzata di frequente negli ultimi anni.
Le armi vincenti sono state la voce di bel colore ambrato e il fraseggio vario e mobile, che le ha consentito di tratteggiare una protagonista convincente senza scadere in manierismi zuccherosi. Il mezzosoprano ha risolto senza troppi problemi anche il difficile rondò finale Nacqui all’affanno ed è sembrata disinvolta nella recitazione, improntata a un’introversa sobrietà appropriata al personaggio.
Ottimo il rendimento di Dave Monaco nella parte di Don Ramiro, che è caratterizzata da una scrittura vocale molto acuta e richiede la capacità di spiegare la voce a slanci quasi eroici in alternanza a improvvise parentesi elegiache: paradigmatica, in questo senso, l’aria Sì ritrovarla io giuro nel secondo atto, applaudita a scena aperta dal pubblico.
Carlo Lepore è stato convincente come Don Magnifico, del quale ha saputo restituire l’originaria provenienza dalla commedia dell’arte napoletana. Disinvolto dal lato scenico, Lepore ha anche una voce sonora di bel timbro e ha affrontato con sicurezza l’arduo sillabato rossiniano.
Bravo Giorgio Caoduro, che ha tratteggiato con arguzia lo spassosissimo Dandini, uno dei personaggi più divertenti dell’opera italiana. Il baritono, in una parte di tessitura piuttosto alta, ha cantato con pertinenza stilistica e grande civiltà vocale, evitando quegli eccessi interpretativi che con la musica di Rossini c’entrano nulla.
Alidoro è il protagonista occulto dell’opera ed è stato ben interpretato da Matteo D’Apolito, che ne ha esaltato l’umanità e l’autorevolezza.
A completare il cast Carlotta Vichi e Federica Sardella che erano le due insopportabili e viperine, ma divertenti, sorelle Tisbe e Clorinda.
La serata è stata apprezzata dal pubblico che ha applaudito spesso a scena aperta e alla fine ha tributato un grande successo a tutta la compagnia a artistica.

AngelinaLaura Verrecchia
Don RamiroDave Monaco
DandiniGiorgio Caoduro
Don MagnificoCarlo Lepore
AlidoroMatteo D’Apolito
TisbeCarlotta Vichi
ClorindaFederica Sardella
  
DirettoreEnrico Calesso
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaPaolo Gavazzeni e Piero Maranghi
Scene e costumi ispirati all’allestimento di Emanuele Luzzati 
Costumi ripresi daNicoletta Ceccolini
Contributi videoGiuseppe Ragazzini
  
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste




Recensione seria di Mefistofele al Teatro La Fenice di Venezia. La musica salverà il mondo? No.

Opera sostanzialmente ormai quasi sconosciuta grazie alla lungimiranza delle direzioni artistiche dei teatri che ci propongono sino alla nausea Traviate e Bohème, Mefistofele è una perla della cultura italiana in toto e dovrebbe essere frequentata al pari di altri capolavori. Ed è così per molti motivi di cui il primo è probabilmente che l’opera, tratta dal Faust di Goethe, è uno dei simboli di una temperie trasversale devastante, quella della “scapigliatura”, che sconquassò le acquisite certezze dell’establishment culturale nella seconda metà dell’Ottocento e di cui ancora oggi si percepiscono le conseguenze.
Perciò grazie allo staff del Teatro La Fenice per aver riproposto – dopo più di cinquant’anni – il capolavoro di Arrigo Boito.
Definire tormentata la genesi di Mefistofele è davvero sottile eufemismo perché, dopo il fiasco della prima del 1868, il compositore rimaneggiò completamente il proprio lavoro che purtroppo nella forma originale è andato perduto, forse distrutto da Boito stesso. Il gioco evidentemente valse la candela, in quanto nel 1875 l’opera rivisitata, a Bologna, ottenne un franco successo.
I grandi capolavori si distinguono perché sono senza tempo e parlano al pubblico di tutte le epoche e, in questo senso, Mefistofele è il paradigma dell’opera d’Arte tout court.
La lotta tra il Bene e il Male è ovunque, nella cronaca di ogni giorno, nelle guerre acclarate o sottotraccia, nel labirinto inestricabile dei rapporti personali, nei femminicidi, nel razzismo, nel girone infernale del Silos di Trieste, nello stupro della Natura.
Lo spettacolo è firmato per la regia da Moshe Leiser e Patrice Caurier e, nonostante qualche criticità nel Prologo che mi è sembrato prolisso e statico a dispetto dello spunto creativo, il duo francese centra l’obbiettivo con un allestimento sfolgorante, a tratti barbarico, spesso sopra le righe e temperato da squarci quasi minimalisti.
In un teatro abbandonato, in pieno clima urbex, un Mefistofele annoiato dopo aver fatto una doccia si mette a guardare la televisione dove passano le consuete scene di guerre, sermoni religiosi e amenità varie.
La sua diabolica attenzione viene catturata dal mite e rassegnato Faust, che filosofeggia sulla vita e sulla morte studiando il violoncello. Decide quindi di tentarlo con la promessa di una vita straordinaria e rutilante, piena di emozioni forti e proibite e lo inizia alla droga più pesante.
Da questo momento in poi lo spettacolo decolla, anche grazie alle scenografie – dello stesso Leiser – e soprattutto all’impianto luci rutilante di Christophe Forey, oltre che ai costumi fantasmagorici di Agostino Cavalca. Buone e funzionali allo spettacolo le proiezioni di Etienne Guiol e le coreografie di Beate Vollack.
La scena del Sabba è risultata efficacissima ma la regia non ha mancato di caratterizzare con puntualità anche i singoli personaggi, avvalendosi di una scenotecnica realizzabile grazie all’avanzata tecnologia del palcoscenico del teatro lagunare.
Una riflessione personale sul finale, che sembra quasi suggerire che la musica (e l’Arte in generale) potrebbe salvare il mondo: no, non è così è un’impostura della gente plebea.

Nicola Luisotti, alla testa di un’Orchestra della Fenice in serata eccellente in tutte le sezioni, lavora in simbiosi con la regia. L’interpretazione ha un passo teatrale incalzante, con qualche saltuario eccesso di decibel – ma stiamo parlando del Mefistofele, che è opera di eccessi – ma anche con la dovuta attenzione ai momenti di raccoglimento, che non sono pochi, in cui l’accompagnamento ai cantanti è delicato e amorevole. Perciò dinamiche segnatamente contrastate, agogiche forse un po’ pigre in qualche occasione, ma la narrazione teatrale alla fine è sembrata efficace e scorrevole.
Alex Esposito si conferma ottimo cantante e attore consumato, per quanto la voce manchi di quel timbro e colore da basso puro che in questa parte aiuterebbe a tratteggiare meglio la tenebrosa ambiguità del ghiribizzoso personaggio. L’artista però è di primo piano e il fraseggio, le nuance interpretative e la dinamicità in scena contribuiscono a far sì che il suo Mefistofele emozioni e arrivi al pubblico, che infatti lo ha premiato con un trionfo.
Piero Pretti è stato adeguato nei panni di Faust sia dal lato scenico, che lo voleva un po’ dimesso, sia da quello vocale. La scrittura della parte risente probabilmente dell’originaria stesura per baritono, perciò è impegnativa e onerosa in quanto gravita parecchio sul passaggio e gli acuti sono scomodi. Nonostante ciò le arie sono state eseguite con proprietà, pertinenza stilistica e smalto.
In crescendo la prova di Maria Agresta la quale, dopo una sortita prudente, è risultata emozionante e coinvolta nella scena del carcere in cui ha connotato il personaggio di tutta la drammaticità necessaria e arricchendo di tensione emotiva le due difficili arie del terzo atto.
Buona anche la prestazione di Maria Teresa Leva nei panni di Elena, in cui ha potuto evidenziare il bel colore ambrato della voce.
Hanno ben completato il cast Kamelia Kader (Marta/Pantalis) ed Enrico Casari (Wagner/Nereo).
Eccellente il rendimento del Coro in un’opera che lo vede protagonista al pari dei solisti e bravissimi anche i ragazzi del Coro di voci bianche.
Teatro esaurito da mesi e pubblico che ha tributato un notevole successo a tutta la compagnia artistica e in particolare ad Alex Esposito.

Mefistofele Alex Esposito
Faust Piero Pretti

Margherita

Maria Agresta
Marta Torbidoni
(20/4)

Marta/Pantalis Kamelia Kader
Elena Maria Teresa Leva
Wagner/Nereo Enrico Casari

Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
direttore Nicola Luisotti
maestro del Coro Alfonso Caiani

coro voci bianche Piccoli Cantori Veneziani
maestro del Coro Diana D’Alessio
altro maestro del Coro Zoya Tukhmanova

regia Moshe LeiserPatrice Caurier
scene Moshe Leiser
costumi Agostino Cavalca
light designer Christophe Forey
video designer Etienne Guiol
coreografia Beate Vollack

Recensione di Anna Bolena di Gaetano Donizetti al Teatro Verdi di Trieste: un cast omogeneo onora la sfortunata regina Anna

Primo titolo dell’anno nuovo, Anna Bolena è tornata al Teatro Verdi di Trieste nella stessa produzione del 2012 firmata per la regia dal grande Graham Vick – ora purtroppo scomparso – e ripresa anche questa volta da Stefano Trespidi.
Gli esiti artistici sono stati complessivamente migliori in quest’ultima occasione, mentre nel 2012 brillò solo, lucentissima, la stella di Mariella Devia.
Per quanto riguarda l’allestimento non ho molto da aggiungere a quanto scrissi a suo tempo, anche se onestamente devo dire che negli anni lo spettacolo si è un po’ rivalutato, probabilmente perché la compagnia artistica più omogenea e una direzione più appropriata lo rendono più scorrevole.
Resta però, a mio parere, una regia irrisolta, che punta troppo sullo sfarzo – qualche volta di gusto discutibile – di scene e costumi e palesando una staticità di fondo che contraddice il tumulto di sentimenti dei protagonisti.
Le opere di Donizetti sono difficilissime da dirigere, abbondano i concertati, la gestione ritmica è complessa, l’accompagnamento ai cantanti deve essere espressivo e l’equilibrio sonoro bilanciato; inoltre, deve uscire la tinta dell’opera che in questo caso è un caleidoscopio di cromatismi dallo spettro molto ampio. Anna Bolena è poi un’opera lunga, ha obbiettivamente qualche momento in cui la tensione emotiva tende a smorzarsi.
Francesco Ivan Ciampa, con la sua lettura meditata e al contempo rovente del quale amo anche la sobrietà sul podio, è riuscito a calibrare tutte queste suggestioni in modo esemplare alla testa di un’Orchestra del Verdi in splendida serata in cui tutte le sezioni hanno brillato e concorso al favorevole esito della recita.
Come dicevo sopra la compagnia artistica era omogenea ed equilibrata e, a partire dalla protagonista, tutti hanno dato un contributo prezioso alla buona riuscita complessiva della serata.
Salome Jicia ha vestito i panni di Anna Bolena e lo ha fatto con pertinenza stilistica e vocalità adatta, per quanto nel primo atto qualche acuto sia uscito un po’ schiacciato. Il fraseggio e l’attenzione alla parola scenica però non sono mai mancati e dopo l’intervallo la sua prestazione è stata splendida e trascinante ed è culminata nel lungo finale in cui il soprano ha dato il meglio di sé sia dal lato vocale sia da quello attoriale.
Il pubblico, giustamente, l’ha premiata con applausi anche a scena aperta.
Molto brava anche Laura Verrecchia, anche lei artefice di una prova in crescendo dopo un inizio un po’ titubante probabilmente dovuto all’emozione della prima. Giovanna Seymour è forse il personaggio dell’opera più complesso psicologicamente, attanagliata da un lacerante disagio che si presenta nei duetti con Enrico e Anna all’inizio dei due atti in cui il mezzosoprano ha dato il meglio di sé.
Marco Ciaponi ha dato un’interpretazione da manuale di Riccardo Percy, superando con (apparente) facilità i numerosi scogli della difficilissima parte. Il tenore ha molte frecce al suo arco in questo repertorio: dizione chiara, voce non enorme ma squillante, facilità nella salita agli acuti e compostezza scenica. Accorata e partecipe l’interpretazione della meravigliosa “Vivi tu”, una delle arie più belle per tenore protoromantico.
Autorevole e al contempo autoritario, sprezzante e austero, Riccardo Fassi ha dato vita a un credibile ed eloquente Enrico VIII grazie a una presenza soggiogante e alla voce da basso di buon volume, ben timbrata e gradevole.
Veta Pilipenko ha tratteggiato con intelligenza la parte en travesti dell’ingenuo Smeton, figurando bene anche dal punto di vista scenico.
Bravi anche i coprotagonisti: Andrea Schifaudo è stato un Hervey di lusso, sonoro e dalla bella dizione; buona anche la caratterizzazione un po’ rude di Nicolò Donini di Rochefort.
Ottima la prova del Coro, in particolare nella sezione femminile.
Teatro non esattamente esaurito, probabilmente anche a causa del freddo pungente acuito dalla amatissima bora. Il pubblico ha però apprezzato lo spettacolo e ha manifestato approvazione con lunghi applausi a tutta la compagnia decretando un calorosissimo successo agli interpreti principali.

Anna BolenaSalome Jicia
Giovanna di SeymourLaura Verrecchia
Lord Riccardo PercyMarco Ciaponi
Enrico VIIIRiccardo Fassi
SmetonVeta Pilipenko
Lord RochefortAndrea Schifaudo
Sir HerveyNicolò Donini
  
DirettoreFrancesco Ivan Ciampa
  
Direttore del CoroPaolo Longo
  
RegiaGraham Vick ripresa da Stefano Trespidi
Scene e costumiPaul Brown
  
  
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste

Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Anna Bolena di Gaetano Donizetti, da venerdì 19 gennaio al Teatro Verdi di Trieste

Il primo articolo dell’anno è dedicato alla consueta presentazione di Anna Bolena di Donizetti che debutterà – nello stesso allestimento già visto nel 2012, quando il ruolo del titolo fu interpretato da Mariella Devia – il 19 gennaio al Teatro Verdi di Trieste.
Anna Bolena è uno dei titoli simbolo del Belcanto in senso stretto, anzi ne è una delle vette più alte e impegnative per vari motivi che appaiono evidenti già solo nello scorrere il cast presente all’esordio dell’opera il 26 dicembre del 1930 al Teatro Carcano di Milano.

G.B.Rubini
Giuditta Pasta


Sono nomi leggendari: Giuditta Pasta (Anna Bolena), Giovanni Battista Rubini (Percy) e Filippo Galli (Enrico VIII). Da non trascurare anche la presenza di Elisa Orlandi nei panni di Giovanna Seymour.
l destino delle opere è strano, si sa. La storia della musica è piena di capolavori che incassarono successi clamorosi al debutto per poi scomparire misteriosamente. Anna Bolena è una di queste opere.

Riproposta con una certa continuità sino al 1870, anche perché ripresa da altri artisti straordinari come Giulia Grisi, Luigi Lablache, Matteo de Candia (il celeberrimo tenore Mario), di Anna Bolena poi si persero le tracce, sostanzialmente, sino al 1957, anno in cui fu riproposta alla Scala di Milano.

Maria Callas nei panni di Anna Bolena

Il discorso che riguarda l’oblio di alcune opere che oggi, ai nostri tempi, consideriamo capolavori imprescindibili è piuttosto complesso. Le riscoperte difficilmente avvengono per caso, di solito sono episodi inseriti nel contesto di movimenti culturali di ampio respiro che abbracciano arti diverse e artisti lungimiranti. Spesso entrambi i fattori insieme.
Indovinate chi fu la protagonista di questa riscoperta? Ma certo, la solita Maria Callas che in questa parte credo sia inarrivabile ancora di più che in altre celebrate occasioni. La registrazione – precaria, ma accettabile – di quella serata, ne è testimonianza inequivocabile.
In una lettera Donizetti dopo la prima del 1830 scrisse così:

Trionfo, successo, delirio, sembrava che il pubblico fosse impazzito. Nessuno ricordava un successo così pieno e completo.

Parole che potrebbero benissimo essere usate per la ripresa scaligera del 1957.

E pensare che il management della Scala, come già prima quello del Metropolitan di New York, non era convinto delle potenzialità esplosive dell’operazione, tanto che chiamarono il regista Luchino Visconti per ricreare il binomio vincente con la Callas e puntare sull’effetto “grandi nomi”. Ricordo che negli anni precedenti la strana coppia Visconti-Callas aveva già collaborato più volte alla Scala (La Vestale, La Sonnambula, La Traviata). Successi che sicuramente hanno dato spinta propulsiva al progetto, che con ogni probabilità non sarebbe andato in porto con altri nomi.

Unica pecca, ma erano altri tempi, il Maestro Gianandrea Gavazzeni decise tagli pesanti – a partire addirittura dall’Ouverture ridotta a un moncherino – e abbastanza incomprensibili vista la compagnia di canto che aveva a disposizione. Insieme alla Callas infatti c’erano Giulio Neri, Giulietta Simionato, Gianni Raimondi e una magnifica Gabriella Carturan.
Particolarmente doloroso, tra gli altri, il taglio di una delle romanze tenorili più rappresentative del Belcanto, la bellissima Vivi tu che propongo qui in un’interpretazione di Chris Merritt.

Una curiosità, prima di proseguire.

La vicenda di Anna Bolena ispirò anche il famoso regista Ernst Lubitsch che nel 1920 diresse un film che ebbe una certa notorietà, soprattutto per la presenza della grande attrice tedesca Henny Porten.

Per Gaetano Donizetti l’Anna Bolena fu il primo grande successo, indiscusso, che gli schiuse le porte dei grandi teatri europei di Parigi e Londra. E dire che aveva già composto più di trenta opere!

Per l’occasione tornò ad avvalersi, dopo precedenti esperienze non così positive, del librettista Felice Romani che trasse ispirazione dalla tragedia di Ippolito Pindemonte “Enrico VIII, ossia Anna Bolena” (scritta nel 1816 ma a sua volta largamente attinta all’Henri VIII di Marie-Joseph Chénier del 1791) e da Anna Bolena di Alessandro Pepoli (1788).

Il risultato, anche grazie ai suggerimenti di Giuditta Pasta che seguì da vicino la stesura dell’opera, fu un lavoro che nonostante una certa lunghezza mantiene una costante tensione narrativa e drammaturgica.

La chiave del successo che ottenne l’opera è sicuramente il felice innesto d’innovazione in un contesto tradizionale, e cioè la capacità di Donizetti di non “sconvolgere” il pubblico pur facendo echeggiare i primi vagiti del Romanticismo.

La figura di Anna Bolena, come notò la stessa Callas, è privata quasi del tutto di valenze politiche mentre è approfondita e curata la vicenda umana, il privato della donna offesa e ingiustamente accusata.

Tutti i protagonisti, con l’eccezione di Enrico VIII che però è una specie di convitato di pietra del quale si sentono l’autorità e la presenza anche quando non compare sul palco, possono contare su momenti solistici.

Sono belle le arie affidate a Smeton e a Giovanna, magnifiche quelle di Percy e Anna. Drammaturgicamente importante anche l’uso del coro, e impegnativi i concertati, i duetti.

Ovviamente la protagonista può contare su di una straordinaria scena finale di pazzia (molto diversa da quella della Lucia, che vedrà la luce qualche anno dopo), nella quale le primedonne – se ce la fanno (strasmile) – possono raccogliere successi leggendari.

Propongo appunto questa scena nell’interpretazione di Nostra Signora Maria Callas.
Per completezza segnalo che la discografia ufficiale (in studio) di Anna Bolena non è particolarmente nutrita, mentre sono abbastanza numerose le versioni live.


Mahler, Schumann e… Svevo al Teatro Verdi di Trieste. Grande prestazione della compagine orchestrale triestina guidata dal Maestro Enrico Calesso.

Il 2023 è l’anno del centenario della pubblicazione di “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, romanzo iconico per noi triestini e non solo.
Soprattutto nelle ultime settimane le celebrazioni si sono susseguite senza soluzione di continuità: dibattiti, pièce teatrali, manifestazioni varie che hanno coinvolto tutta la città.
In questa temperie il Teatro Verdi di Trieste, massima istituzione culturale della regione, ha dato un importante contributo programmando per l’ultimo concerto della stagione sinfonica una pagina musicale di Giulio Viozzi – compositore triestino – dedicata proprio al concittadino scrittore: “Musica per Italo Svevo”, un brano sostanzialmente sconosciuto che è stato riscoperto recentemente e che risale al 1962.
È sempre difficile dare un giudizio al primo ascolto, ma qualche indicazione si può esprimere.
Scritta per una grande orchestra, la pagina musicale è tipicamente novecentesca come ha ben spiegato Enrico Calesso, all’esordio ieri nelle vesti di nuovo Direttore stabile della fondazione triestina.
Il tema inziale percorre tutto il brano ed è di carattere principalmente eroico, tanto che ascoltando – nonostante l’interruzione di un cellulare, il mio – il primo accostamento che m’è passato per la testa è stato con la colonna sonora di qualche film. L’uso piuttosto intenso delle percussioni e i contrasti dinamici mi hanno anche ricordato Stravinsky e il Puccini della Turandot, ma sono codeste suggestioni di un modesto recensore che ha anche apprezzato la splendida prova degli archi gravi.
Difficile, anche per chi come me conosce quasi a memoria il romanzo di Svevo, trovare qualche collegamento con le vicende di Zeno Cosini.
A seguire, dopo l’immersione nell’esprit di una Trieste culla della Mitteleuropa e fucina di talenti trasversali, il Concerto in la minore per pianoforte e orchestra op.54 di Robert Schumann, interpretato da Massimo Gon.
Strutturato in tre movimenti – l’Intermezzo e l’Allegro sono stati eseguiti senza interruzione, come da indicazioni del Compositore – il brano è uno dei capisaldi del Romanticismo ed è un esempio di dialogo alla pari tra orchestra e solista, che si compenetrano in un flusso sonoro in cui quasi mai prevale un virtuosismo esasperato e che esalta la poetica di una narrazione a tutto tondo innervata da mutevoli stati d’animo screziati da tenere malinconie. Molto buona la prestazione dei legni, nello specifico.
Gon ha un tocco delicato, quasi timido nella sua dolcezza e nella raffinata eleganza nell’affrontare gli arpeggi che ha reso luminosa e al contempo riflessiva, in alcuni momenti quasi ombrosa, l’esecuzione. Successo pieno, suggellato da due bis dedicati a Chopin e Scarlatti.

Dopo l’intervallo è stato servito il piatto forte della serata, la Prima sinfonia in re maggiore di Gustav Mahler che credo non abbia bisogno di presentazioni, sia perché è notissima sia perché è una delle vette più alte della musica sinfonica tout court.
E qui ci starebbe un lungo e particolareggiato peana all’Orchestra del Verdi che, come più volte rilevato nelle recensioni – non solo qui su OperaClick, ma ovunque ci sia qualcuno sensato che si occupa di musica –  va a concludere un anno in cui l’ensemble di casa ha acclarato una crescita artistica e professionale straordinaria. E questa crescita si è manifestata in tutte le sezioni, credo di poterlo affermare con sicurezza visto che seguo le recite di musica lirica e sinfonica da…qualche anno: diciamo cinquanta.
Il Titano presenta enormi difficoltà esecutive – insomma, è Mahler, il rischio di confondere tutto in un indistinto magma sonoro è altissimo – eppure ieri il suono è uscito pulito, devastante nelle dinamiche impreziosite da agogiche che non erano pigre, bensì meditate e analitiche, che è tutt’altra cosa.
Gli archi gravi e gli ottoni sono stati straordinari (bravissima Chiara Molent, primo contrabbasso della fondazione), ma tutte le sezioni hanno suonato in modo eccellente.
Le compagini orchestrali hanno però bisogno di una guida per rendere al meglio e ieri, anche se sembra superfluo sottolinearlo, Enrico Calesso ha dato una lettura davvero emozionante di questo formidabile affresco naturalistico di Mahler, in cui c’è tutta un’umanità che si esprime con slanci popolareschi di danze, di fiabe per bambini dai risvolti resi lugubri e grotteschi, di gioie e di dolori. Di vita, una vita palpitante come la parabola di tutti noi nel nostro breve viaggio sulla terra.
Il pubblico, assai numeroso, ha capito l’impegno e la passione dei protagonisti e li ha premiati con un tripudio di applausi e innumerevoli chiamate al proscenio.

Giulio ViozziMusica per Italo Svevo per orchestra sinfonica
Robert SchumannConcerto in la minore op.54 per pianoforte e orchestra
Gustav MahlerPrima sinfonia in re maggiore
  
DirettoreEnrico Calesso
PianoforteMassimo Gon
  
Orchestra del Teatro Giuseppe Verdi di Trieste



Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Die Zauberflöte di Mozart al Teatro Verdi di Trieste

Dunque, giovedì prossimo 7 dicembre il Teatro Verdi accoglie Die Zauberflöte (Il flauto magico) di Mozart. Dico, Wolfgang Amadeus Mozart, uno dei più grandi geni della storia dell’umanità, colto in questo caso nella sua ultima composizione teatrale. Perciò, dopo essermi genuflesso più volte, oso scrivere qualche sintetica e informale nota per chi verrà in teatro e magari non conosce molto di questo straordinario capolavoro.
Il flauto magico appartiene al genere musicale dello Singspiel, una forma teatrale tedesca e austriaca di origine popolare che prevedeva oltre al canto anche dialoghi parlati.

Ci sono nel teatro lirico molti altri esempi di Singspiel, lo stesso Mozart per esempio scrisse Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio). Altri esempi celebri sono il Fidelio di Beethoven e Der Freischütz (Il franco cacciatore) di Carl Maria von Weber.

Nel Flauto magico convivono felicemente molte suggestioni e le interpretazioni e le letture possono essere diverse e, a mio parere, tutte plausibili. Per molti è l’opera massonica per antonomasia, disseminata com’è di simboli esoterici: numeri (il tre, a partire dagli accordi iniziali, è una costante), il passaggio dal buio alla luce, la presenza delle prove dell’acqua e del fuoco e tanto altro ancora.

Personalmente amo considerare quest’opera come una fiaba per adulti mascherata da una semplicità empatica e colorata, un viaggio un po’ accidentato nell’inconscio e quindi estremamente personale, intimo, in cui come nei corsi d’acqua carsici ogni tanto riaffiora in superficie qualche ricordo che magari scompare subito dopo. Un viaggio iniziatico alla scoperta di noi stessi, se mi concedete la metafora azzardata.

La trama dell’opera si trova facilmente, anche sulla benemerita Wikipedia.

I tanti personaggi dell’opera parlano, dal punto di vista musicale, lingue differenti. Sono cioè caratterizzati da stili diversi che ne fotografano il lignaggio e la provenienza sociale. Inoltre, nel corso della narrazione succede che in qualche modo il nostro parere sul loro operato cambi, trasformando i buoni in cattivi e viceversa. Insomma anche in questo caso l’apparenza inganna. A seguire un breve cenno ai principali protagonisti dell’opera.

Papageno e Papagena sono di estrazione popolare e il loro stile è appunto quasi folcloristico, sanguigno nei versi, nelle intemperanze caratteriali e nelle melodie. Tamino e Pamina sono due innamorati ed esprimono sempre un canto amoroso e ispirato a una dignitosa sensibilità e sensualità, scevra di eccessivi languori larmoyant.

Sarastro non a caso è affidato alla voce di un basso profondo, perché deve esprimere autorevolezza, ieraticità in un ambito quasi oratoriale, da musica sacra e solenne. Monostatos è vicino agli stilemi di un carattere buffo, che sembra stridere con gli altri personaggi.

La Regina della notte (Königin der Nacht) è, forse, la protagonista più ambigua, vero motore della vicenda, che si esprime con un canto tipico dell’opera seria del periodo. Dominio dei soprani di coloratura, la parte richiede oltre che virtuosismo un accento fiero, dizione scandita, temperamento sulfureo.
l grande genio di Mozart riesce a far convivere tutte queste particolarità rendendole omogenee, liquide, filanti. Lo fa anche attraverso l’orchestra e con l’uso di strumenti come il Glockenspiel che, lo scrivo per i profani, ricorda tanto il suono dei carillon.

Gioverà ricordare che l’autore del libretto, Emanuel Schikaneder, fu anche il creatore di Papageno della prima assoluta che si svolse a Vienna, il 30 settembre 1791.
Per la buona riuscita artistica dell’opera mi pare indispensabile che i cantanti siano anche disinvolti in scena, mobili nel fraseggio ma anche buoni attori.

Il direttore d’orchestra ha un compito arduo, risolvere il problema del suono orchestrale che deve essere sempre trasparente ma mai lezioso, anodino. La musica esprime una vitalità prorompente che non può essere compromessa da clangori e allo stesso tempo restare virile e incisiva.

La regia…beh…si valuterà sul campo e cioè in teatro. Non esistono regie moderne o tradizionali, ma solo regie intelligenti o stupide. Al Teatro La Fenice ne vidi una splendida versione, per esempio.

Se potessi esaudire un desiderio, vorrei che a Trieste succedesse ciò che accadde in Germania, dopo il debutto dell’opera. La Zauberflöte uscì dai teatri e il popolo si impadronì delle sue melodie, improvvisando per strada le scene più famose o cantando le arie anche in modo sgangherato, chissenefrega.

Oddio, nella Trieste di oggi sarebbe un problema, ma non stiamo a sottilizzare.

Nel caso qualcuno volesse provarci, beh, credo che potrei essere un Papageno formidabile e, forse, anche una pittoresca Regina della notte (strasmile).

Un saluto a tutti, alla prossima!

Manon Lescaut di Puccini inaugura la stagione lirica del Teatro Verdi di Trieste. La regia di Guy Montavon deraglia nell’ultimo atto.

Dopo la sospensione per sciopero del vernissage, la pomeridiana di ieri è stata la prima occasione utile per ascoltare e vedere Manon Lescaut di Puccini, che ha aperto la stagione del Teatro Verdi di Trieste da cui mancava dal 2007.
C’era molta curiosità nell’aria perché da qualche tempo giravano voci su di una regia, nella migliore delle ipotesi, stravagante.
L’allestimento, proveniente da Montecarlo dove ottenne a suo tempo un successo clamoroso (con Anna Netrebko nei panni della protagonista), è il classico esempio di teatro di regia riuscito male proprio nella concezione drammaturgica.
Voglio dire che, piaccia o meno la trasposizione temporale, i caratteri dei personaggi sono perfettamente riconoscibili e coerenti con il libretto sino al terzo atto compreso, quando il regista Guy Montavon si inventa una specie di MacGuffin teatrale che trasforma a proprio uso e consumo Geronte – il personaggio più realistico e attuale dell’opera, ché di vecchi potentati che si attorniano di giovani ragazze la cronaca e la storia è piena – in un killer psicopatico. A scatenare la follia è il fatto che Des Grieux distrugge una sua presunta opera d’arte e cioè libera la povera Manon che nel secondo atto era stata trasformata in una specie di statua vivente, con un procedimento che richiamava qualcosa di perfidamente trasversale tra la Body art e il Body painting in salsa new age.
Per questo motivo,  il santone Geronte trasforma la compagnia di strampalati che lo segue come una setta in una scombinata giuria popolare che decide di condannare a morte Manon, la quale non vedrà mai alcuna nave e tanto meno deserti ma solo una tetra prigione adiacente a una stanza dalla quale Des Grieux osserva impotente il suo martirio.
Ecco, tutta questa parte che ho descritto affannosamente è insensata perché non c’entra nulla col livre abominable di Prévost né, tantomeno, con la Manon Lescaut di Puccini.
Spiace sottolinearlo perché sino a quel momento regia e messinscena erano singolari ma tutt’altro che sgradevoli: scenografie sfarzose e ben realizzate, luci splendide, controscene curate e approfondite le interazioni tra i personaggi. Un’altra criticità dell’allestimento sono le due lunghe pause per i cambi scena che, unite all’intervallo, rendono la serata estenuante e, soprattutto, spezzano in modo irreparabile la tensione emotiva della narrazione teatrale e musicale. Il pubblico si distrae in queste circostanze e infatti a un certo punto una inviperita Gianna Fratta ha fulminato con lo sguardo un paio di signore in prima fila che non volevano saperne di farle cominciare l’Intermezzo.

Gianna Fratta, appunto, la quale ha dato un’interpretazione al calor bianco della partitura pucciniana, sottolineandone la sensualità e la crudezza che grondano da ogni nota. Non è, appunto, la Manon di Puccini un’opera da sdilinquimenti e smancerie – lo è la Manon di Massenet – bensì una storia di amore, lacrime e dolore. Emozioni violente che si sono espresse anche con qualche decibel di troppo, soprattutto negli interventi del Coro, peraltro in ottima forma. L’inizio del secondo atto, con quella atmosfera fintamente raffinata, in cui gli echi della musica settecentesca sono artatamente involgariti sino al pacchiano, mi è sembrato un momento di grande musica.
L’Orchestra del Verdi, che ha il sound pucciniano nel DNA, si è espressa al meglio e mi piace sottolineare la bellissima prestazione dei legni, senza ovviamente voler togliere nulla alle altre sezioni.
La compagnia di canto mi è parsa, nel complesso, modesta dal punto di vista vocale e ottima da quello attoriale.
Unica eccezione Lana Kos, che di Manon Lescaut forse non ha il peso vocale in senso stretto, ma sopperisce con la tecnica alle parziali mende di volume. La voce è gradevole, ben proiettata negli acuti che passano la densa orchestra pucciniana e il fraseggio attento e partecipe che esalta quel canto di conversazione che è il marchio di fabbrica di Puccini. Inoltre l’interprete è accorata, vivace, attenta: la sua Manon è decisamente di buon livello e ha conquistato il pubblico triestino che l’ha premiata con un trionfo.
Roberto Aronica è stato un Des Grieux credibile scenicamente ma altalenante nel rendimento vocale, pur senza che ci siano inconvenienti particolari. Dopo un inizio piuttosto contratto, il tenore si è rinfrancato e nel lungo duetto del secondo atto si è espresso al meglio. È rimasta però una sensazione di incompiutezza, perché al suo cavaliere è mancata quella passionalità rovente che il personaggio pretenderebbe.
Viscido e opportunista al punto giusto il Lescaut di Fernando Cisneros, che vanta una voce di buon volume ma gestita in modo un po’ troppo grossier per quanto il personaggio non sia proprio un uomo da raffinatezze. Impeccabile, invece, la sua prestazione attoriale.
Matteo Peirone ha tratteggiato un Geronte in linea con le direttive della regia, ma spesso la voce non ha passato l’orchestra, almeno dalla mia posizione, circostanza che vale anche per il flebile Edmondo di Paolo Nevi.
Brava Magdalena Urbanowicz nei panni del musico e di routine gli interventi di Nicola Pamio e Giuseppe Esposito che hanno contribuito alla tutto sommato buona riuscita della recita.
Il pubblico, numeroso, ha apprezzato con moderazione la serata, applaudendo tutta la compagnia artistica e riservando grandi applausi per Lana Kos e Gianna Fratta.
I responsabili della regia non si sono presentati al proscenio, probabilmente perché dopo lo sciopero la prima ufficiale, quella con i carabinieri, le autorità, l’inno e i critici seri è stata spostata a mercoledì 8 novembre.

Manon LescautLana Kos
Il Cavaliere Renato Des GrieuxRoberto Aronica
LescautFernando Cisneros
Geronte di RavoirMatteo Peirone
EdmondoPaolo Nevi
Un musicoMagdalena Urbanowicz
Il Lamionaio/Maestro di BalloNicola Pamio
L’osteGiuseppe Esposito
  
DirettoreGianna Fratta
Direttore del coroPaolo Longo
  
Regia e luciGuy Montavon
SceneHank Irwin Kittel
CostumiKristopher Kempf
  
Orchestra e Coro del Teatro Giuseppe Verdi di Trieste



Nel sesto concerto della stagione sinfonica al Teatro Verdi di Trieste brilla la stella di Stefan Milenkovich. Ottima la prova dell’orchestra triestina ben guidata da Francesco Ivan Ciampa

Come ho avuto occasione di rimarcare spesso, la stagione sinfonica triestina quest’anno ha una caratteristica molto gradita: il pubblico affolla il teatro e così è stato anche ieri sera per il penultimo concerto.
Sicuramente la presenza di una star come Stefan Milenkovich è stata determinante – erano molti gli stranieri, anche suoi connazionali – ma la tendenza, rispetto agli anni scorsi che hanno visto il teatro spesso vuoto a metà, è decisamente cambiata.
E poi, di là degli esiti artistici davvero rimarchevoli, ieri è successo uno di quegli episodi che rendono le serate a teatro uniche, divertenti e irripetibili. Durante l’esibizione del solista serbo è saltata una corda del suo violino che l’ha costretto a un funambolico cambio di strumento al volo con Stefano Furini, Konzertmeister dell’orchestra triestina: non gli è andata malissimo, perché ha ricevuto in cambio uno Stradivari. A seguire siparietti vari, prima del bis dedicato a Bach, che hanno dimostrato che l’atmosfera era innervata dalla voglia e dal piacere di fare musica insieme.
Francesco Ivan Ciampa, sul podio dell’Orchestra del Verdi, è stato protagonista della serata alla pari del prestigioso ospite perché non si è limitato a mere esecuzioni ma ha cesellato la sua interpretazione personale di entrambe le pagine previste dal programma.
Nel Concerto per violino e orchestra in re maggiore op.77 di Brahms, dedicato al sommo Joseph Joachim, ha non solo assecondato le esigenze del solista ma, ben conoscendo il respiro sinfonico del brano, si è speso anche per dare risalto all’orchestra nell’importante e severa introduzione. La compagine triestina, che ribadisco essere da tempo in forma spettacolare, ha risposto alla perfezione in tutte le sezioni, anche se mi piace sottolineare la morbidezza degli archi e il bellissimo suono dei legni.
Che dire di Milenkovich? Dal mio punto di vista la sua grandezza non è tanto nel virtuosismo che è quasi scontato in musicisti di questa levatura ma nella statura dell’artista in toto, in quella capacità di esprimere sentimento ed eloquenza attraverso un legato e un controllo delle dinamiche eccezionale che gli consentono di sviscerare quello che c’è dietro alle note rendendole vive e palpitanti. Inoltre, e non guasta di certo, ha un bellissimo portamento, composto ed elegante e scevro da inutili orpelli. Ha cioè la consapevolezza di arrivare al cuore del pubblico solo attraverso la musica. Meritatissimo perciò il trionfo che il pubblico gli ha riservato.
La Sesta sinfonia in si minore op. 74 di Čaikovskij, più nota come Patetica, è sempre assai emozionante da ascoltare, soprattutto dal vivo, in teatro, quando si percepiscono le tensioni emotive degli interpreti.
Così è stato ieri, perché ero molto vicino all’orchestra e al podio e ho potuto apprezzare il coinvolgimento di Ciampa il quale, anche attraverso una mimica e una gestualità accentuata, ha vissuto e indagato la partitura del lacerato uomo Čaikovskij, che dopo un terzo movimento vitale e adrenalinico piazza, a chiudere la sinfonia, un Adagio che è un abisso straziante di malinconia e mal di vivere.
Poco importa se si è percepita qualche imperfezione e anzi, considero queste peculiarità al pari della corposa pastosità degli archi o della deflagrante espressività delle percussioni. Sono caratteristiche che rendono un’interpretazione originale, degna di essere ascoltata nella concezione del direttore che ha sviscerato tutta la passionalità sanguigna e delicata al contempo di un compositore che ha vissuto una vita tormentata e per il quale nutro una venerazione che va ben oltre l’ammirazione per il suo lascito artistico. Essere Achab e Moby Dick allo stesso tempo non è facile per nessuno.
Pubblico, alla fine, in visibilio, ed è giusto così.

Johannes BrahmsConcerto per violino e orchestra in re maggiore op.77
Petr Il’ic CaikovskijSesta sinfonia in si minore op. 74
  
DirettoreFrancesco Ivan Ciampa
ViolinoStefan Milenkovich
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste

Partita la stagione sinfonica del Teatro Verdi di Trieste: Beethoven, Weber e Schumann schiudono le porte del Romanticismo

Inserita nella meritoria manifestazione Il Festival di Trieste/Faro della Musica è partita col primo concerto la stagione sinfonica del Teatro Verdi di Trieste. L’apertura è stata dedicata al Romanticismo, movimento trasversale, che sconvolse l’Europa a cavallo degli anni tra il 1700 e il 1800 con pagine musicali di compositori che di codesta temperie culturale sono il paradigma: Carl Maria von Weber, Robert Schumann e Ludwig van Beethoven.
L’Ouverture da Oberon ha principiato la serata e non poteva essere che così per un concerto romantico; il suono del corno evoca immediatamente quel mondo che, soprattutto nei primi anni, ha portato la magia fiabesca delle fate, dei folletti e anche di visioni demoniache nella musica.
Hartmut Haenchen, il quale già l’anno scorso battezzò la stagione sinfonica triestina, ha dato ulteriore prova della sua grande capacità di esprimere il carattere inquieto di una pagina musicale attraverso l’uso misuratissimo delle dinamiche. Eccellente, in questo senso, la risposta dell’Orchestra del Verdi, una compagine che sta crescendo a vista d’occhio e alla quale la recente nomina di Enrico Calesso come Direttore Musicale non potrà che fare bene.

A seguire il ritorno a Trieste di Antonio Menenes, uno dei maggiori virtuosi del violoncello, che all’inizio della carriera (1978) fu già ospite della Società dei Concerti interpretando il Concerto per violoncello e orchestra in re maggiore di Haydn per tornare poi, nel 1985, per la stagione sinfonica del Verdi con lo stesso Concerto in la minore per violoncello e orchestra di Robert Schumann eseguito anche stasera.
Brano per certi versi enigmatico, sofferto e più volte rivisto da Schumann che forse non riuscì nemmeno ad ascoltarlo a causa della prematura dipartita. Nonostante la classica struttura in tre movimenti è eseguito senza interruzioni – circostanza che ha colto di sorpresa qualche spettatore – e l’orchestra si limita a un accompagnamento ponderato del solista fatto di riprese e accentuazioni, anche se ovviamente il dialogo col podio è indispensabile.
Il violoncello è assoluto protagonista quindi, e Menenes ne ha data ampia dimostrazione sfoderando un suono molto bello, caldo, avvolgente e sin troppo perfetto anche nella cadenza conclusiva. Insomma, un’interpretazione ineccepibile, da applaudire, ma che forse non ha indagato tra le pieghe delle inquietudini sottese alle note.
Meritatissimo trionfo per Antonio Menenes, che ha concesso anche due bis (Villas Lobos e Bach).
Dopo la pausa è sbocciato Beethoven nell’affollato teatro triestino, con la Sesta sinfonia che già con il Pastorale che l’accompagna si presenta da sola, almeno per un primo livello di lettura.
Poi certo ci sono i pareri, anche autorevolissimi, di chi invita a un ascolto più consapevole e meditato ma io credo che oggi, nel 2023, un ascolto epidermico renda attualissimo questo capolavoro.
Chi non desidera un ritorno alla vita serena della campagna, al rumore soffice e al contempo impetuoso dello scorrere dell’acqua e del gentile cinguettare degli uccelli? Poco importa se l’ispirazione ha avuto una matrice pittorica o letteraria, quello che conta è che la musica emana serenità e gioia.
E perciò lode incondizionata ad Haenchen, che tutte queste meraviglie ha saputo ridestare tramite l’Orchestra del Verdi, eccellente in tutte le sezioni e brillante in particolare nei legni e negli ottoni.
Anche in quest’occasione teatro molto affollato e spettatori attenti e coinvolti, peccato che un’anziana signora si sia quasi arresa al suono del cellulare nonostante l’intervento di un giovane che le sedeva davanti. Ma è il teatro, nessuno è perfetto neanche qui in queste sale dedicate alla musica e comunque fuori c’è un mondo di turisti per caso sempre fracassone, spesso volgare e intontito dal proprio vagare senza senso.

Carl Maria von WeberOuverture da Oberon
Robert SchumannConcerto in la minore per violoncello e orchestra
Ludwig van BeethovenSinfonia n.6 in fa maggiore (Pastorale)
  
DirettoreHartmut Haenchen
VioloncelloAntonio Meneses
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste

Trieste – Teatro Verdi: Jordi Savall e l’Ensemble Hesperion XXI inaugurano Il Festival di Trieste

È sempre emozionante assistere a una nascita in generale, nello specifico all’esordio di una manifestazione culturale alla quale, da queste pagine dedicate alla Musica, OperaClick fa gli auguri di una vita lunga e felice.
Sto parlando di Il Festival di Trieste-Il Faro della musica, un’iniziativa in sinergia tra due grandi e gloriose istituzioni culturali triestine: La Società dei Concerti e il Teatro Verdi di Trieste.
Un progetto che ha richiesto – come specificato nell’intervento che ha preceduto la serata dalle autorità e dai dirigenti – anni di lavoro e che ha coinvolto moltissime realtà culturali e non solo del territorio.
Il primo concerto è andato alla ricerca metaforica della scaturigine della musica per come la intendiamo oggi e cioè la musica antica. Ovviamente è una semplificazione, perché alla musica e all’Arte in generale poco si attagliano le etichette o le tassonomie: l’estro artistico, per fare un paragone geograficamente calzante, è come un fiume carsico che riaffiora per poi scomparire e formare ancora nuove sorgenti anche in luoghi inaspettati e sorprendenti.
Jordi Savall insieme all’Ensemble Hesperion XXI è da sempre uno dei divulgatori più prestigiosi e costanti di questo repertorio, che ha alcune caratteristiche che bisogna conoscere se si vuole apprezzarne la bellezza.
La circostanza fondamentale da considerare è che quasi mai ci sono edizioni critiche come per la lirica o la sinfonica, ma semplicemente delle trascrizioni che assomigliano a un work in progress che comprende improvvisazioni anche fulminee, come è norma in ambito musicale jazzistico.
Voglio dire non è il dipanarsi di una sinfonia tardo romantica con la sua architettura stabile suddivisa in movimenti e tempi in cui lo spazio per l’interpretazione c’è ma deve rispondere a vincoli precisi: la musica fluisce in soluzioni armoniche reiterate e “mascherate” creando atmosfere cangianti che si compenetrano, si attorcigliano, si completano vicendevolmente. Sono composizioni anarchiche, libere dalle forme.
L’ispirazione è etnica e folclorica, nella serata di ieri di provenienza spagnola e portoghese con sfumature celtiche, italiane e inglesi. Le danze popolari, le cantilene, le nenie nelle loro infinite variazioni sono il fulcro di una serata dedicata a questa musica.
Non starò qui a sottolineare il magistero tecnico e il virtuosismo di Savall, che vive in simbiosi con la viola e la viola da gamba, qualità che distinguono anche Andrew Lawrence-King (arpa) e David Mayoral (percussioni).
Quello che conta è che nell’arco della serata il trio tra sguardi, sorrisi e ammiccamenti ha creato un’atmosfera incantata e fiabesca alla quale ha contribuito anche il pubblico con un silenzio e un’attenzione che non riscontravo da anni in un teatro o in una sala da concerto. L’ambiente immacolato deve essere stato terapeutico perché ha miracolato all’istante i tossitori seriali e gli scartatori compulsivi di caramelle, neanche fosse uno di quegli elisir portentosi di cui si favoleggia nella lirica.
Anche nelle fasi più accese e sensuali – penso a Savall che amoreggia con la viola – la tensione emotiva era altissima e al contempo eterea, impalpabile come la visione in un sogno di cui si ricordano a stento solo i frammenti.
Arpa e percussioni non sono state certo ancelle in questa festa della musica, ma protagoniste al pari della viola. In particolare l’intervento anche delicatissimo delle percussioni ha dato sempre una profonda tridimensionalità all’esecuzione.
Pubblico più che numeroso che ha tributato un uragano di applausi agli artisti i quali, generosamente considerando che la serata non aveva intervalli, hanno concesso bis a ripetizione.
Un Festival che è nato sotto una buona stella, che nella seconda serata affronterà tutt’altro repertorio.

Jordi SavallViola da gamba
Andrew Lawrence-KingArpa
David MayoralPercussioni