Di nuovo, ma non mi lamento di certo perché è indispensabile darne notizia, devo cominciare il post con la cronaca delle proteste dei lavoratori del Teatro Verdi di Trieste che, come vedete dalla foto, 
si sono presentati alla recita dell’Otello di martedì 1 giugno vestiti in borghese, mentre i loro colleghi del Coro hanno indossato la coccarda gialla che è diventata il simbolo del “malumore” (eufemismo, gli girano proprio le palle) che serpeggia nelle Fondazioni Liriche italiane.
Opera difficile, l’Otello di Giuseppe Verdi, l’ho ricordato più volte e se ne è avuta conferma in quest’occasione.
L’allestimento era firmato da Giulio Ciabatti e se è vero che lo spettacolo è complessivamente riuscito è altrettanto vero che i cambi di scena (a sipario alzato, sempre per protesta) erano eccessivamente macchinosi, tanto da costringere a ben tre intervalli che hanno fatto sì che l’opera durasse quasi quattro ore.
Inevitabile che ci sia nel pubblico e nella compagnia di canto un calo di attenzione e tensione drammaturgica.
Giulio Ciabatti sceglie una via interpretativa minimalista, scarna ma non certo dimessa , che riduce all'essenziale i movimenti scenici dei protagonisti , Coro compreso, e fa muovere i personaggi in una scenografia poderosa e monumentale, assai ben realizzata da Pier Paolo Bisleri e impreziosita dalle belle luci di Iuraj Salieri. Piuttosto dimessi i costumi di Chiara Barrichello, ma funzionali ad uno spettacolo che si concentra esclusivamente sulla terribile vicenda dei protagonisti.

Lo spettacolo, produzione della fondazione triestina in collaborazione con il Teatro nazionale di Spalato, è gradevole, nel segno della tradizione con un tocco di modernità. Non ho notato incongruenze col libretto, tipo morti che camminano come nel recente Werther a Parma (smile).
La serata ha avuto due grandi protagonisti: il direttore Nello Santi e il baritono Juan Pons.
Cominciamo da Santi, che alla bella età di 177 anni (l’altr’anno in occasione dell’Aida ne aveva 176…si scherza Maestro!) ha diretto anche quest’opera senza partitura, a memoria.
Nel frattempo però, se la sua lucidità mentale non è certo peggiorata, deve aver subito un severo calo dell’udito. Perché, vi chiederete voi (ma anche no)? Perché il volume dell’orchestra è stato spesso così alto che ho pensato volesse uccidere qualche cantante a suon di decibel (strasmile). Considerate che, con l’unica eccezione di Juan Pons, i cantanti non avevano voci enormi oppure le avevano discrete ma ingolate e quindi con scarsa proiezione in teatro, perciò spesso si è notato il classico “effetto pesce in acquario”, bocche che si muovono e silenzio in sala. Silenzio di voci, s’intende, perché sembrava che la tempesta che principia l’opera fosse più che altro un nuovo uragano Katrina: ogni tanto riafforava con violenza inaudita. In particolare nella zuffa iniziale e nella chiusura del secondo e del terzo atto, ha grandinato forte (smile).
In altre occasioni l’accompagnamento agli artisti è stato magnifico, specialmente nel Credo di Jago, nel Dio mi potevi scagliar di Otello e nella Canzone del Salice di Desdemona. Anche nei concertati, che sono difficilissimi, le cose sono andate bene.
Insomma, una direzione, quella di Nello Santi, con molte zone d’ombra.
Walter Fraccaro era al debutto e, francamente, non è stato all’altezza della situazione. Immagino che i non melomani s’aspettino che io scriva di stecche o incidenti clamorosi, che in effetti non ci sono stati.
Il tenore, impegnato in una parte che è realmente difficilissima e che gravita in zona centrale con improvvisi sbalzi all’acuto ma anche discese in prima ottava, è sembrato lottare con il pentagramma per tutta l’opera. Il tenore si è aggrappato ai fa diesis, attorcigliato ai la, arrampicato ai si bemolle con sforzi notevolissimi. Ne è uscita un’interpretazione monocorde, sbilanciata sul forte o mezzoforte, solo di rado temperata da qualche timido tentativo d’addolcire il canto con la mezzavoce. Un Otello dimezzato, muscolare, trucibaldo, privo o quasi di ripiegamenti lirici nei passaggi più amorosi. Nel celeberrimo duetto Già nella notte densa ho sentito anche qualche problema d’intonazione. Non ho percepito quell’introversione dolorosa che è caratteristica principale del Moro, un uomo che crede d’essere tradito perché diverso (forse perché ho sul viso quest’atro tenebror– dice) o troppo vecchio per la sua compagna (forse perché discendo nella valle degli anni), solo per fare due esempi banali.

Insomma, se vuole ripresentare questa parte l’artista deve ripensarla, anche perché un Otello “alla Del Monaco” necessita di…Del Monaco, che aveva un’ampiezza di cavata e una gestione dei fiati, un volume, del tutto straordinari.
Juan Pons, invece, nonostante i problemi di salute che l’hanno afflitto negli ultimi anni, è stato un magnifico Jago. La voce è ancora salda anche se sporadicamente balla un po’, ma per esempio il Credo (con risatazza diabolica di tradizione, peccato) è riuscito benissimo, così come sono stati esemplari i duetti con Otello e Cassio. A questo proposito, da incorniciare il rilievo dato a quella piccola frase, ciò m’accora, che è il primo filo della tela diabolica in cui resterà mortalmente invischiato Otello. Inoltre il baritono conta su di una presenza scenica soggiogante e fa tesoro della lunga frequentazione con la parte, affrontata in tutti i teatri del mondo centinaia di volte.
Adriana Marfisi, Desdemona, ha una voce di timbro davvero ingrato che fa a pugni con le caratteristiche solari della sposa di Otello. Peraltro va dato atto al soprano di aver disegnato un personaggio credibile, scevro da bamboleggiamenti e manierismi, giovane e non matronale. Certo, le lunghe frasi verdiane richiederebbero un maggiore controllo dei fiati e un legato di qualità superiore, ma il fraseggio è parso intelligente e l’interprete misurata. Piuttosto debole la sua opposizione alle accuse nel duetto del terzo atto, mentre più convincente è sembrata nella Canzone del Salice e nella preghiera del quarto, anche grazie al fondamentale contributo del direttore che ha reso il sottofondo orchestrale impalpabile.
Una grande Desdemona, però è …altro.

Il Cassio di Sung Kyu Park si è distinto per la bella voce e per la musicalità, ma anche per l’inerzia interpretativa.
I comprimari Gregor Rozycki (Lodovico), Manrico Signorini (Montano) e Giovanni Palumbo (Araldo) sono stati complessivamente all’altezza, con l’unica eccezione di Gianluca Bocchino, Roderigo vocalmente sottodimensionato. Discreta la prestazione di Giovanna Lanza, Emilia.
L’Orchestra del Verdi si è disimpegnata discretamente, rispondendo con vigore alle sollecitazioni del podio e confermando una buona propensione all’esecuzione delle opere verdiane già rilevata in altre occasioni.
Da segnalare la serata non felicissima dei fiati, con particolare riferimento a qualche attacco sporco degli ottoni.
Bene il Coro, seppur costretto a cantare sempre molto forte dalle telluriche sonorità imposte dal direttore.
Teatro esaurito, ma qualche defezione per sinimento al terzo intervallo va rilevata.
Il pubblico ha tributato un sicuro successo a tutta la compagnia di canto, con qualche punta d’entusiasmo in più per Juan Pons e Nello Santi.
Nella valutazione generale della serata non si può prescindere dal ricordare l’atmosfera generale di tensione in cui si è rappresentato questo Otello, che sicuramente ha contagiato in modo negativo il rendimento degli artisti impegnati sul palcoscenico.
Questa era l'ultima opera in programma al Teatro Verdi di Trieste per quest'anno.
Il futuro si prospetta quanto mai incerto e non riesco a chiudere con un sorriso questa mia recensione semiseria.
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