Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Recensione severa di Turandot di Giacomo Puccini al Teatro Verdi di Trieste: tanto rumore per nulla (o quasi).

No, non è stata la “stessa” Turandot del 2019, per quanto la sostanza dell’impianto scenico e i due interpreti principali fossero gli stessi.
L’allestimento ha guadagnato molto dai nuovi costumi di Danilo Coppola, più vicini alla concezione registica di Davide Garattini Raimondi e, tutto sommato, meno scontati di quelli che a suo tempo furono ripresi dal Teatro di Odessa. La divisione – certo un po’ manicheista – tra buoni e cattivi, tra popolo e regale nobiltà è risultata più chiara. Allo stesso modo, il costume nero si prestava bene al teorico anonimato di Calaf, alla triste parabola della vita di Liù e all’accorata partecipazione del coro, notoriamente protagonista nell’opera al pari degli altri personaggi. Le tre maschere sono state dinamiche, sulfuree, com’è giusto che sia, Turandot fredda e distaccata, ma con qualche cedimento dopo la scena degli enigmi.
La versione scelta è stata, come a suo tempo, quella che si interrompe con la morte di Liù e a questo proposito ho trovato giusto il taglio – che si ascoltava con superstizioso disagio – della voce registrata che ricordava la morte di Puccini.
Le proiezioni invece dopo un po’ stufano, e se assolvono al loro dovere di dare tridimensionalità allo spettacolo al contempo non aggiungono nulla alla comprensione dello stesso, soprattutto quelle che sembravano uno spot per promuovere il Test di Rorschach.
Purtroppo, nonostante qualche criticità veniale, la parte migliore della serata è stato proprio l’allestimento, perché sul fronte musicale – nel teatro lirico bisogna pur cantare e suonare, e farlo bene – le cose non sono andate nel verso giusto.
Nulla da eccepire sulla prestazione dell’Orchestra del Verdi, i cui standard sono sempre elevati, mentre qualche perplessità ha suscitato la lettura di Jordi Bernàcer, decisamente orientata su dinamiche spaccatimpani, agogiche frettolose e poco attenta a valorizzare le parti meno estroverse di una partitura che vive sì di contrasti anche importanti ma che non deve essere ridotta a un’edonistica esibizione di suono bombastico.
Le percussioni erano spesso sovrastanti, almeno dalla mia posizione. Il Coro, disciplinato e puntuale dal lato scenico, ha cantato bene ma con troppa foga e forse di questo eccesso di decibel è responsabile proprio il podio. Bene i ragazzini del coro di voci bianche, preparati da Cristina Semeraro.
È auspicabile che nelle prossime recite si trovi un maggior equilibrio sonoro.
Kristina Kolar, eccellente nel 2019, ieri sera è sembrata meno convincente soprattutto nella sortita – certo, di rara difficoltà – in cui è sembrata disorientata e con un’intonazione non ineccepibile. Il soprano si è poi ripresa ma la sensazione è che possa fare molto meglio perché la voce resta adatta alla parte e di rilievo per volume e consistenza. Da migliorare invece la dizione e la pronuncia.
Amadi Lagha, convincente Calaf quattro anni fa, è stato al solito generoso ed empatico ma l’accento è parso generico, il fraseggio non approfondito e gli acuti, notoriamente punto di forza dell’artista e infatti esibiti con grande entusiasmo, privi di punta e più grossi che penetranti.
Liù è stata interpretata da Ilona Revolskaja che ha una voce assai particolare, di tinta quasi contraltile, che prende corpo negli acuti ma anche affetta da un vibrato stretto molto pronunciato e sostanzialmente inudibile nei registri medio e grave. Buone un paio di messe di voce, ma complici anche una partecipazione scenica dimessa e dizione e pronuncia rivedibili a essere generosi il personaggio non è uscito nella sua tragica grandezza.
Problematica anche la prestazione di Marco Spotti, Timur poco incisivo e ondivago nell’intonazione.
Molto buono il rendimento delle Tre Maschere che sono state ineccepibili sia dal lato vocale sia dal punto di vista attoriale. Un plauso particolare, non me ne vogliano gli altri colleghi, va al Ping del sempre solidissimo Nicolò Ceriani.
All’altezza del cimento anche le parti di contorno che trovate in locandina.
Teatro affollato da un pubblico che ha contestato – dal loggione – in modo piuttosto ingeneroso la regia e applaudito con moderazione una compagnia artistica che probabilmente migliorerà di molto il proprio rendimento nelle prossime recite.

TurandotKristina Kolar
CalafAmadi Lagha
LiùIlona Revolskaja
TimurMarco Spotti
PingNicolò Ceriani
PangSaverio Pugliese
PongEnrico Iviglia
L’Imperatore AltoumGianluca Sorrentino
MandarinoItalo Proferisce
Prima ancellaFederica Guina
Seconda ancellaLuisella Capoccia
Il Principe di PersiaMassimo Marsi
  
DirettoreJordi Bernàcer
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaDavide Garattini Raimondi
Scene e luciPaolo Vitale
CostumiDanilo Coppola
Assistente alla regia e movimenti sceniciAnna Aiello
  
Piccoli Cantori della città di Trieste diretti da Cristina Semeraro
Orchestra di fiati Giuseppe Verdi
  
Orchestra e Coro del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste



Recensione seria e disperata di Orfeo ed Euridice di Gluck al Teatro Verdi di Trieste: O vista, o vista orribile.

Orfeo ed Euridice, qui a Trieste proposta nella versione 1762 scritta per Vienna, è un’opera di svolta nella storia del melodramma perché rappresenta – insieme ad Alceste dello stesso Gluck – quella che è ormai nota come la riforma gluckiana e cioè il rinnovamento (o il primo tentativo di agire in tal senso) dell’opera seria italiana.
Ovviamente il discorso sarebbe ampio e da circostanziare ma la recensione di uno spettacolo non è la sede adatta e perciò mi limiterò alla cronaca di una serata che ha presentato luci e ombre.
Al Verdi di Trieste Orfeo ed Euridice mancava dal 2015, quando il regista Giulio Ciabatti ne allestì un pregevole allestimento.
In questa occasione la regia è stata affidata a un promettente artista triestino, Igor Pison, che a mio discutibilissimo parere ha completamente frainteso il senso dell’opera sia dal lato della pertinenza stilistica sia dal punto di vista della realizzazione della propria idea.
Da sempre sostengo che certi allestimenti polverosi e ripetitivi fanno male al teatro lirico e perciò il mio disappunto non è certo legato al fatto che Pison abbia optato per una trasposizione temporale dell’opera, trasformando Orfeo in una rock star dei giorni nostri con problemi di dipendenza.
Il problema è che il dolore per la scomparsa di una persona cara – che è quello che dà la tinta all’opera – non si affronta in lustrini e vestiti sgargianti e sguaiati, senz’altro funzionali all’idea registica ma di gusto almeno dubbio, e che tanta abbondanza di colori contraddice lo spirito austero, severo e minimalista dell’opera, che è lo snodo di una riforma che voleva evitare proprio gli eccessi interpretativi e la pletora di ornamenti barocchi e baroccheggianti degli artisti.
Inoltre, le grandi rock star sono eccentriche, esagerate negli atteggiamenti, sovrabbondanti di gigioneria, è vero, ma lo sono sul palco e non nella vita privata in cui al contrario di frequente sono insicure, ipersensibili, spesso in conflitto con se stesse e con il mondo. Ne sono esempi proprio Kurt Kobain e Amy Winehouse, loro malgrado membri del Club dei 27, che Pison cita nella presentazione del suo lavoro nel libretto di sala. Quindi avrei preferito che Orfeo, pur rimanendo una rockstar, nel momento del dolore smettesse i panni del grande incantatore di folle e si presentasse in una veste straziata di vita vera e non ancora in quella, finta e artefatta, del palcoscenico.
Perciò, col massimo rispetto del lavoro di Pison, mi chiedo: che valore aggiunto ha apportato la sua regia? Mi ha illuminato su qualcosa? Ha indagato nei rapporti tra i personaggi trovando connessioni nascoste? La risposta a tutte queste domande è no e non solo, viste le prefate considerazioni l’opera ne è uscita impoverita nel suo intimo.
Poi, certo, nel contesto dell’allestimento ho apprezzato l’impianto luci, le scene di Nicola Reichert – soprattutto nella parte “infernale” – ,  ho trovato a tratti suggestive e ben eseguite le coreografie di Lukas Zuschlag in cui i due ballerini rappresentano i Doppelgänger dei protagonisti, mentre i costumi di Manuela Paladin mi sono risultati intrinsecamente indigeribili a prescindere da qualsivoglia considerazione, con l’eccezione delle ombre grigie dell’Ade. L’interazione tra i personaggi mi è sembrata ridotta al minimo e il coro una volta di più statico, con l’eccezione della scena delle Furie.
Enrico Pagano, direttore giovane, non ha ancora trent’anni, era alla testa dell’Orchestra del Verdi opportunamente ridotta nell’organico e ha risolto solo parzialmente la plastica maestosità neoclassica, quasi oratoriale, della partitura gluckiana. La sua è stata un’interpretazione equilibrata ma generica, con dinamiche e agogiche prudenti, pacate, che hanno però appiattito una partitura che invece gronda calore e sensualità. Cito solo l’esempio del quasi recitativo Che puro ciel (eccellente l’oboe) in cui Pagano non ha certo fatto all’orchestra triestina quello che la primavera fa ai ciliegi.
Daniela Barcellona, dopo un inizio prudente, è stata protagonista di una recita in crescendo in cui ha dimostrato totale padronanza del palcoscenico, la capacità di rendere espressivi e convincenti i lunghi recitativi e che per lei le parti en travesti sono quasi il pane quotidiano. La voce è sempre morbida e vellutata, adatta alla parte e gradevole, con alcune sfumature sombre cheimpreziosiscono da sempre il timbro dell’artista triestina.
Ruth Iniesta
era nei panni di Euridice che ha interpretato con una grazia e con un sentimento che facevano a pugni con il terribile costume e la spaventosa parrucca impostale dalla regia. Brava nell’accento e nel fraseggio, il soprano è stata all’altezza anche dal punto di vista scenico e attoriale.
Olga Dyadiv si è discretamente disimpegnata nella parte di Amore, qui tratteggiato dalla regia in modo eccessivamente petulante e frivolo.
Il Coro,
vero e proprio personaggio dell’opera, ha dato ulteriore prova della propria eccellenza.
Pubblico non certo numeroso, che ha applaudito anche con timing rivedibile (a metà dell’aria Che farò senza Euridice) e che alla fine ha apprezzato tutta la compagnia artistica e in particolare Daniela Barcellona, artista di casa. Qualche contestazione per la regia, che però ha anche incassato applausi convinti.
Si replica sino a sabato prossimo, secondo me è uno spettacolo da vedere, nonostante le criticità ampiamente espresse nelle righe precedenti.

OrfeoDaniela Barcellona
EuridiceRuth Iniesta
AmoreOlga Dyadiv
  
DirettoreEnrico Pagano
  
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaIgor Pison
SceneNicola Reichert
CostumiManuela Paladin
CoreografieLukas Zuschlag
Ballerini solistiAlexandru Ioan Barbu, Georgeta Capriarou
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
  
Solisti del corpo di ballo della SNG Opera in Balet Ljubliana



Recensione de I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini al Teatro Verdi di Trieste: una buona compagnia artistica onora l’opera di Bellini che mancava a Trieste da quasi cinquanta anni.

Per capire come il melodramma italiano sia diventato un fenomeno artistico straordinario, bisognerebbe spendere qualche parola anche su di una figura che ormai – almeno nell’accezione dell’Ottocento – è scomparsa. Sto parlando dell’impresario: il suo lavoro è stato fondamentale per la diffusione delle opere che oggi vediamo a teatro in tutto il mondo.
Nello specifico, riferendosi a I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, la persona in questione è Alessandro Lanari, collega del più noto Domenico Barbaja, che sostanzialmente lanciò Rossini.
La figura dell’impresario si può paragonare a quella dell’agente ai giorni nostri, ma con tanto potere in più, perché gestiva non solo la allocazione dei cantanti ma anche quella di librettisti, compositori, teatri. Insomma una vera eminenza grigia che contribuì in modo fondamentale alla distribuzione di opere dei più grandi compositori italiani: Donizetti, Bellini, Verdi e altri ancora.
Verso la fine degli anni Trenta dell’Ottocento Lanari aveva la gestione della Fenice di Venezia e pensò di “usare” Bellini per ridare lustro a un teatro che soffriva, come tutti i teatri italiani, l’esilio di Rossini.
Fu così che I Capuleti debuttarono alla Fenice l’undici marzo 1830 seppure tra mille problemi che non è il caso di affrontare in questa sede.
Bellini è il classico compositore di confine, che traghetta la musica dalle suggestioni rossiniane e mozartiane a quel gran calderone – in senso buono – che è il Romanticismo.
Capuleti (che mancavano a Trieste dal 1974, quando Giulietta fu una sfolgorante Katia Ricciarelli) è un’opera fragile, delicata, la poetica è ancora belcantistica ma, come dicevo prima, guarda avanti. L’espressività di orchestra e cantanti è la parte più importante, quella che può decidere il destino di una rappresentazione.
Poi è vero, la vicenda dei Capuleti e Montecchi non sta in piedi, oggi, soprattutto nella riduzione teatrale di Felice Romani il quale, attenzione, non prese spunto dal testo di Shakespeare (pressoché sconosciuto in Italia a quei tempi) bensì da una novella di Matteo Bandello e dalla tragedia “Giulietta e Romeo” di Luigi Scevola. Poco importa perché se cambiano alcuni particolari, soprattutto per quanto riguarda la figura e il ruolo drammaturgico di Tebaldo, la sostanza non cambia. La differenza sta nella musica di Bellini, che avvolge la trama di una specie d’incantesimo fatto di melodie purissime che non a caso compaiono di frequente nei recital dei cantanti.
Nell’allestimento pensato da Arnaud Bernard, più volte recensito da OperaClick, la vicenda si svolge in una pinacoteca in cui si stanno svolgendo restauri. Gli operai vanno e vengono, spostano quadri, lavorano con gli strumenti del mestiere, fanno le pulizie. I quadri, prevalentemente in stile rinascimentale – molto bella la scena finale, con i protagonisti letteralmente incorniciati in un suggestivo gioco di luci – raccontano anche della storia degli sfortunati amanti veronesi.
L’idea non è particolarmente originale –  i tableaux vivants si vedono con una certa frequenza anche nel teatro di prosa – e funziona sino a un certo punto per un motivo molto semplice: troppo spesso i prefati lavoratori vagano per il palcoscenico e, detta fuori dai denti, sviano l’attenzione dalla musica, soprattutto all’inizio. Per il resto l’allestimento è di discreto livello, per quanto le interazioni tra i personaggi siano appena accennate e i costumi soffrano di cromatismi opachi poco valorizzati da un impianto luci piuttosto monotono.
Ma Bellini esprime se stesso nella musica, in quelle melodie lunghe amate da Wagner e Verdi, e da questo punto di vista la serata si può considerare riuscita tout court.
Enrico Calesso, sul podio di un’Orchestra del Verdi in ottima forma – brillanti tra l’altro le prestazioni delle prime parti, Paolo Rizzuto (corno), Marco Masini (clarinetto) e Matteo Salizzoni (violoncello) – è stato capace di ricreare quell’atmosfera onirica che è sempre presente in Bellini senza rendere il flusso sonoro sfilacciato o monotono, circostanze che affliggono spesso le esecuzioni belliniane dovute all’equivoco che tutto si possa risolvere con le prestazioni dei cantanti. Al contrario, se c’è un compositore che ha bisogno di nerbo e corpo orchestrale questo è proprio Bellini, solo così la compagnia di canto può respirare con l’orchestra e trovare gli accenti più corretti per le melodie di cui sopra.
Caterina Sala, da me recentemente ammirata come Nannetta all’inaugurazione della Fenice di Venezia, conferma qui di avere le doti per essere una belcantista di razza. Le manca solo ancora un po’ di maturità artistica, di esperienza, vista la giovane età. Però la sua Giulietta commuove ed è cantata con gusto e pertinenza stilistica, voce adatta alla parte, acuti facili, filati di scuola, legato impeccabile e fraseggio curato. La grande aria Oh quante volte è risolta con efficacia ed eloquenza anche nel bellissimo recitativo che la precede. Giustificato e meritato l’applauso a scena aperta che le ha tributato il pubblico. Inoltre è parso evidente l’affiatamento con Laura Verrecchia nei duetti (in cui davvero gli echi di Norma sono evidenti) e ha recitato con compostezza e intelligenza.
Romeo è notoriamente una parte difficile per tanti motivi: è lunga, piuttosto acuta ma soprattutto impegnativa dal lato interpretativo perché Romeo è personaggio ardimentoso e al contempo morbido negli slanci d’affetto. Il mezzosoprano ha vinto la sfida con grande autorevolezza grazie a una voce sonora, smagliante nel registro centrale e sicura negli acuti. Essenziale anche la capacità di essere eloquente senza troppe forzature veriste che con Bellini non c’entrano nulla. Anche per lei, in questa parte en travesti serotina, applausi a scena aperta più che giustificati.
Tebaldo, personaggio ingrato perché canta pochino e deve subito superare lo scoglio di un’aria famosa (È serbata a questo acciaro) che si presta a confronti ingenerosi, è stato intrepretato con garbo e sicurezza da Marco Ciaponi, tenore giovane e in ascesa che ha il grande pregio di essere sempre pertinente nell’accento e nello stile. Bellini si canta con grazia e sentimento, e gli slanci testosteronici sono del tutto inopportuni.
Bravo il solido Emanuele Cordaro (Lorenzo) e tutto sommato sufficiente anche la prova di Paolo Battaglia, Capellio forse non perfettamente a fuoco dal lato vocale ma efficace da quello scenico.
Bene il Coro, come sempre preparato da Paolo Longo.
Successo indiscutibile per questa prima, con il pubblico – teatro abbastanza affollato, ma non esaurito – che ha lungamente applaudito tutta la compagnia artistica e ha riservato un trionfo a Caterina Sala e Laura Verrecchia.

GiuliettaCaterina Sala
RomeoLaura Verrecchia
TebaldoMarco Ciaponi
CapellioPaolo Battaglia
LorenzoEmanuele Cordaro
  
DirettoreEnrico Calesso
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaArnaud Bernard
SceneAlessandro Camera
CostumiCarla Ricotti
LuciPaolo Mazzon
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste

Divulgazione semiseria dell’opera lirica: I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, da venerdì 24 febbraio al Teatro Verdi di Trieste.

A causa della mostra fotografica, ancora in essere perché prorogata a “furor di popolo” di una settimana, questa presentazione arriva solo il giorno prima della recita: me ne scuso con i miei happy few, ma le mie energie sono limitate (smile).

Per capire come il melodramma italiano sia diventato un fenomeno artistico straordinario, bisognerebbe spendere qualche parola anche su di una figura che ormai – almeno nell’accezione dell’Ottocento – è scomparsa. Sto parlando dell’impresario: il suo lavoro è stato fondamentale per la diffusione delle opere che oggi vediamo a teatro in tutto il mondo.
Nello specifico, riferendosi a I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, la persona in questione è Alessandro Lanari, collega del più noto Domenico Barbaja, che sostanzialmente lanciò Rossini.
La figura dell’impresario si può paragonare a quella dell’agente ai giorni nostri, ma con tanto potere in più, perché gestiva non solo la distribuzione dei cantanti ma anche quella di librettisti, compositori, teatri. Insomma una vera eminenza grigia che contribuì in modo fondamentale alla distribuzione di opere dei più grandi compositori italiani: Donizetti, Bellini, Verdi e altri ancora.
Verso la fine degli anni Trenta dell’Ottocento Lanari aveva la gestione della Fenice di Venezia e pensò di “usare” Bellini per ridare lustro a un teatro che soffriva, come tutti i teatri italiani, l’esilio di Rossini.
Fu così che I Capuleti debuttarono alla Fenice l’undici marzo 1830 seppure tra mille problemi che non è il caso di affrontare in questa sede.
Ma quali sono le caratteristiche dell’opera, che debutterà venerdì prossimo 24 febbraio al Teatro Verdi di Trieste?
Innanzitutto la prevalenza delle parti femminili, perché persino la parte di Romeo è affidata a un mezzosoprano en travesti. Il tenore (Tebaldo) ha una parte difficile ma non particolarmente lunga, il basso (Capellio) è poco più che un comprimario. La situazione fa presagire che questa è opera da primadonna, Giulietta, appunto.
Assolutamente imprescindibile la presenza di un buon direttore (ma quando non lo è?) perché gli equilibri dinamici (più che agogici, a mio parere) sono fragilissimi.
Bellini è il classico compositore di confine, che traghetta la musica dalle suggestioni rossiniane e mozartiane a quel gran calderone – in senso buono – che è il Romanticismo.
Capuleti (per brevità) è un’opera fragile, delicata, la poetica è ancora belcantistica ma, come dicevo prima, guarda avanti. L’espressività di orchestra e cantanti è la parte più importante, quella che può decidere il destino di una rappresentazione.
Poi è vero, la vicenda dei Capuleti e Montecchi non sta in piedi, oggi, soprattutto nella riduzione teatrale di Felice Romani il quale, attenzione, non prese spunto dal testo di Shakespeare (pressoché sconosciuto in Italia a quei tempi) bensì da una novella di Matteo Bandello e dalla tragedia “Giulietta e Romeo” di Luigi Scevola. Poco importa perché se cambiano alcuni particolari, soprattutto per quanto riguarda la figura e il ruolo drammaturgico di Tebaldo, la sostanza non cambia. La differenza sta nella musica di Bellini, che avvolge la trama di una specie d’incantesimo fatto di melodie purissime che non a caso compaiono di frequente nei recital dei cantanti.
Conosco già l’allestimento che sarà proposto al Verdi perché l’ho visto alla Fenice di Venezia nel 2015: in quell’occasione non mi soddisfò per nulla ma ho la mente aperta, per cui magari rivisto in altro contesto e con interpreti diversi può essere che la situazione cambi radicalmente.
Lo sapremo, come sempre, dopo la recensione.

Macbeth di Giuseppe Verdi al Teatro Verdi di Trieste: le pulsioni sessuali inibite alla meta portano a disastri.

Opera ricca di simboli, di oscuri presagi, notturna, livida, piena di atmosfere oniriche e di pulsioni sessuali inibite alla meta: queste sono le caratteristiche che danno il mood al Macbeth di Verdi tratto dalla tragedia di Shakespeare. È da qui che bisogna partire per capire la brama di potere e di sangue che avvolge e distrugge la coppia protagonista e la rende perfetto archetipo della banalità del male.
Non c’è interpretazione registica che prescinda da queste considerazioni e non vale solo per la lirica, ma anche per il cinema; si pensi al film di Orson Welles o dell’adattamento in stile giapponese del Trono di sangue di Akira Kurosawa.
Al Teatro Verdi di Trieste è stato ripreso dopo dieci anni lo storico allestimento restaurato da Benito Leonori – le scene sono di Josef Svoboda –  e diretto da Henning Brockhaus, con i costumi di Nanà Cecchi e le coreografie di Valentina Escobar.
Sinceramente non ricordo se siano state apportate modifiche allo spettacolo, ma di certo nel caso non sono risultate sostanziali. Per questo motivo riporto ciò che scrissi a suo tempo anche se, obiettivamente – sarà l’età, mia intendo – le lunghe pause e gli intervalli per i cambi di scena mi sono parsi assai invadenti: tre ore e mezza per Macbeth sono davvero tante.


Brockhaus lavora per sottrazione, con pochi elementi scenici e molte buone idee coniuga felicemente l’esigenza di evidenziare il lato onirico e psicanalitico del dramma, che è ovunque striato di incubi e allucinazioni, contrapponendolo a una specie di manovalanza meccanica del male che mi ha ricordato l’incedere narrativo di qualche film di Michael Haneke in cui la malvagità diventa folle normalità.
Tutto è pervaso da un’atmosfera di malato e tetro erotismo, di gusto quasi gotico alla quale contribuiscono anche le interessanti proiezioni, lo splendido impianto luci (sempre di Brockhaus) e gli scarni ma funzionali costumi di Nanà Cecchi. La chiave di lettura della regia balza agli occhi all’entrata della Lady, la quale striscia sul palco, mi verrebbe da dire, strega tra le streghe.
Streghe che sono ossessivamente presenti (anche con acrobatiche evoluzioni aeree), veri e propri personaggi del dramma com’è sacrosanto che sia.
Mi sento di fare solo un appunto alla regia, e cioè la scelta di far leggere il testo della lettera da entrambi i protagonisti  – espediente non nuovissimo peraltro, da Strehler in poi – interpretati da voci registrate, ma siamo proprio a livello di sensibilità personali. L’allestimento, nel complesso, tradisce l’età (l’originale nasce nel 1995) solo per i cambi scena piuttosto lunghi che tendono a smorzare un po’ l’attenzione.

Fabrizio Maria Carminati, ben noto e apprezzato a Trieste, è uno degli ultimi custodi della nobile tradizione esecutiva italiana e anche in questa circostanza ne ha dato prova evidente. L’Orchestra del Verdi – eccellente in tutte le sezioni – ha nel DNA quel quid che risponde al nome di suono verdiano, ma le dinamiche sono sembrate spesso attenuate e uniformi. Il che, tanto per intendersi, è pur sempre meglio di clangori ed esplosioni bandistiche che con la musica di Verdi non c’entrano nulla. Forse, ma potrebbe essere che la mia infelice collocazione in un angolo in terza fila incida sul mio parere, al Macbeth di Carminati sono mancati un po’ di sangue, un pizzico di pancia, una spruzzata di ruvidezza. Del resto alle prime è spesso così, il direttore prende le misure ed eventualmente apporta aggiustamenti.
Straordinaria la prova del Coro, assai impegnato anche scenicamente, che ha cantato in modo splendido nonostante gli ormai cronici problemi di organico. Paolo Longo, alla testa del coro triestino, può essere più che soddisfatto del suo lavoro.

Ho trovato buona Silvia Dalla Benetta nella parte della diabolica Lady. Il soprano negli ultimi anni ha cambiato repertorio assecondando la naturale evoluzione del suo strumento. La pasta vocale è però pur sempre quella di soprano leggero di coloratura e di conseguenza le agilità di forza richieste dalla parte sono sembrate non proprio fluide ma comunque convincenti. Il registro centrale è sontuoso, gli acuti ancora brillanti ma con meno “punta” di un tempo. Però, e dal mio punto di vista è ciò che conta, la sua Lady emoziona per il coinvolgimento scenico e lo scavo sulla parola. Lo sleepwalking mi è sembrato riuscito, caratterizzato da un fraseggio mobilissimo e da colori cangianti del timbro che a volte – opportunamente – assumeva connotazioni infantili, come di una donna in preda a un’angosciante regressione psicologica.
Convincente anche il rendimento di Giovanni Meoni il quale, pur arrivando affaticato al finale della grande aria del quarto atto, ha creato un personaggio credibile nella sua pavida dipendenza dalla consorte che, come noto, lo manovra in modo spietato. Meoni è nel pieno della maturità artistica e perciò a proprio agio anche in una recitazione rattenuta e minimalista che ben si attaglia a una parte ombrosa, cupa, che il baritono completa con un canto sommesso e sussurrato.



Ragguardevole la prova di Dario Russo, che ha interpretato con voce da vero basso verdiano il personaggio di Banco; l’artista è sembrato a proprio agio anche dal lato scenico nella bellissima scena dell’agguato e nelle successive apparizioni.
Molto bravo Antonio Poli nei panni, sempre piuttosto difficili da indossare, di Macduff. Tutti aspettano l’aria del quarto atto, che il tenore ha portato a termine con efficacia nell’acuto finale ma facendosi apprezzare anche nel recitativo.
Sufficiente Gianluca Sorrentino, Malcolm corretto ma meno incisivo del solito.
Bene i coprotagonisti: Cinzia Chiarini (Dama della Lady) e Francesco Musinu (Medico) che con i loro pertichini hanno dato ulteriore tensione alla scena del sonnambulismo.
Le parti minori, che trovate in locandina, sono state al pari dei numerosi mimi e figuranti all’altezza di una serata che ha raccolto un notevole successo in un teatro pressoché esaurito.

MacbethGiovanni Meoni
Lady MacbethSilvia Dalla Benetta
MacduffAntonio Poli
BancoDario Russo
Dama di Lady MacbethCinzia Chiarini
MalcolmGianluca Sorrentino
MedicoFrancesco Musinu
Domestico di Macbeth/ApparizioneDamiano Locatelli
Sicario/ApparizioneGiuliano Pelizon
AraldoFrancesco Paccorini
  
ApparizioniIsabella Bisacchi, Maria Vittoria Capaldo, Sofia Cella, Crisanthi Narain
  
DirettoreFabrizio Maria Carminati
  
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaHenning Brockhaus
SceneJosef Svoboda
Ricostruzione dell’allestimento scenicoBenito Leonori
CostumiNanà Cecchi
CoreografieValentina Escobar
  
  
Orchestra e coro del Teatro Verdi di Trieste
  
Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti dal Maestro Cristina Semeraro



Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Macbeth di Giuseppe Verdi al Teatro Verdi di Trieste

Direi che in prossimità del Macbeth di Giuseppe Verdi che debutterà venerdì 27 gennaio al Teatro Verdi di Trieste si può cominciare a dare il solito sguardo sbilenco a questo straordinario capolavoro che io amo particolarmente. In questo longform (che è il modo figo di dire lenzuolata) troverete molte citazioni da testi antichi; noterete errori di ortografia, che ho voluto lasciare perché così compaiono negli originali.
Dovete sapere che il giovane Amfortas da ragazzino era rimasto colpito dalle immagini del film di Orson Welles, che evidentemente devo aver visto in televisione una di quelle sere nelle quali non andai a dormire subito dopo Carosello, dal momento che dubito fortemente che l’abbiano passato al cinema dell’oratorio salesiano (smile). Nel film la scena dello sleepwalking – quella appunto che m’è rimasta tanto impressa – è da 1h05 circa, per chi volesse vedere questo momento incredibile.

L’immagine bellissima ma terrificante della “maschera” di Jeanette Nolan ha disturbato frequentemente le mie notti. In particolare m’impressionò la scena che poi, nell’opera di Verdi, è descritta nell’aria “Una macchia è qui tuttora” e cioè il momento in cui la Lady vede le sue mani sporche di un sangue che non riesce a lavare. Già prima il suo consorte Macbeth propone la metafora del mare e del sangue. Questi i versi di Shakespeare:

Will all great Neptune’s ocean wash this blood clean from my hand

Che nel libretto di Piave (e Maffei) diventa:

Non potrebbe l’Oceano queste mani a me lavar

Ma, chissà perché, a me fece più impressione la donna che si sfregava le mani, allucinata. Nel libretto del Macbeth verdiano la frase è “Chi poteva in quel vegliardo tanto sangue immaginar?”

In questa scena di sonnambulismo regna sovrana e credo che continuerà a farlo per sempre Maria Callas, che proprio non posso fare a meno di proporre, nonostante che in questa parte si siano poi distinte anche altre cantanti: dalla Gencer alla Scotto, dalla Nilsson alla Bumbry, anche se la mia preferita è quella matta di Elena Suliotis.



Quindi (ri)vedere il Macbeth è per me particolarmente emozionante, perché trovo sia una delle opere migliori di Verdi e anche perché mi ricorda la mia lontanissima infanzia che, sia detto per inciso, fu turbata anche dal film “Il trono di sangue” di Kurosawa, che del Macbeth è un adattamento cinematografico.
Fatta questa inutile premessa, ecco i principali protagonisti della prima rappresentazione di Macbeth, il 14 marzo 1847 a Firenze.

  1. Macbeth (Felice Varesi)
  2. Lady Macbeth (Marianna Barbieri-Nini)
  3. Banco (Nicola Benedetti)
  4. Macduff (Angelo Brunacci)

Vale la pena approfondire un minimo le personalità dei due protagonisti.

Macbeth

Il creatore del ruolo fu Felice Varesi, del quale apprendiamo dai sacri testi che era “basso, tarchiato, un po’ sbilenco” e che aveva una voce “vibrante, sonora e pastosa”.
Inoltre:
Fu istruito nelle belle lettere, nella matematica, nella fisica, nel disegno, nell’architettura, nelle lingue, e tra’ Maestri ebbe il celebre Abate Pozzoni. Dotato d’una voce baritonale agile, pastosa, robusta, intuonata, imparò il canto, e l’autunno 1834 esordi col Furioso e il Torquato al Teatro di Varese, nell’ Eden della Lombardia, ove in quella stagione sono raccolti i più bei fiori e le menti più squisite e gentili della Capitale. Non sapremmo quale città d’Italia non l’abbia udito e apprezzato, poichè pel volgere d’anni moltissimi ei mai non ebbe un momento di tregua, dall’uno all’altro teatro passando. Anche la Spagna, anche il Portogallo, anche Parigi lo reputarono sommo nel tragico, nel semi-serio, nel giulivo, nel buffonesco, attribuendogli la duplice e rara qualità di cantante attore. Coppola scrisse per esso Giovanna I, e Verdi lo volle a protagonista delle principali sue Opere.
Se il Cigno di Busseto avesse ancora degli artisti della sua intelligenza, non direbbe con tanta fermezza di non voler più scrivere.
A Varesi stesso si rivolge Verdi in una famosa lettera, nella quale spiega dettagliatamente come interpretare il personaggio di Macbeth.
Il celebre baritono poi legò il suo nome a due opere della trilogia popolare di Verdi: Rigoletto e Traviata, anche se nella parte di Giorgio Germont non ebbe, alla prima, un grande successo e anzi fu considerato concausa del tonfo all’esordio.

Lady Macbeth

Della terribile Marianna Barbieri-Nini ho già parlato più volte, ma giova riprenderne in questo caso i tratti salienti.
La Marianna Barbieri-Nini fu un soprano di fama pari solo alla sua bruttezza, poverina.
Giuseppina Strepponi, la seconda moglie di Verdi, la omaggiò di questo sintetico e viperino parere:

S’ella ha trovato marito non può disperar più nessuna di trovarlo.

Oddio, bellissima non era di certo, almeno a giudicare dalla documentazione disponibile, ma evidentemente era anche molto brava, tanto che fu la prima interprete di parti monstre come Lucrezia Contarini nei Due Foscari e della diabolica Lady nel Macbeth, sempre di Verdi, oltre che di numerose opere di Donizetti.
Francesco Regli, (autore del libro dal titolo più lungo del mondo e cioè Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860.) la gratifica, tra gli altri complimenti, di questo giudizio:

Acclamatissima cantante fiorentina padre era impiegato alla Corte del Gran Duca di Toscana Il Maestro Cav Luigi Barbieri iniziolla il primo alla musica ea andò gloriosa d avere ad auspici e precettori una Giuditta Pasta il Vaccaj Dopo il felicissimo esperimento di due Teatri nel carnovale 1839 40 andò alla Scala di Milano ove apparve sotto spoglie d Antonina nel Belisario L Impresa si era sbagliata scelta del suo dèbut e poi per la ragione di tenerla a suoi stipendi non doveva esporre sopra scene di tanta esigenza una giovane principiante Non è dunque a maravigliare se la Barbieri ebbe la peggio L Appalto intanto da cui dipendeva anzichè sorreggerla la disanimò costringendola persino a cantare alla Ca nobbiana fra un atto e l altro della Commedia Però la Barbieri non si è prostrata sotto il pondo della sua sventura e fatti valere i suoi diritti in tribunale ne usci vincitrice si sciolse da quel malaugurato contratto e incominciò una nuova èra sotto gli auspici di Alessandro Lanari Da quell epoca non sapremmo quale Teatro non la festeggiasse in Italia ed all Estero Vi fu un momento nella professione musicale che non si parlava che della Barbieri La sua stupenda voce i suoi arditi slanci il suo esteso repertorio la resero per moltissimi anni la delizia e il sostegno dei Pubblici e degli Impresarii L Accademia di Santa Cecilia di Roma il Liceo di Belle Arti e la Filarmonica di Firenze tante altre accreditate Accademie la fecero loro Socia e il Gran Duca di Toscana la creò sua Cantante di camera Il Maestro Mabellini scrisse per essa Il Conte di Lavagna Giuseppe Verdi due Foscari Giovanni Pacini il Lorenzino de Medici Non sappiamo perchè da qualche tempo la si lasci oziosa nella sua nativa Firenze mentre potrebbe ancora prestare alle scene utili servigi.

Il fatto è che Verdi stesso scrisse che la sua Lady Macbeth doveva essere brutta e cattiva, dotata di una voce aspra, soffocata, cupa. E quindi la Barbieri-Nini, evidentemente, in questi panni faceva – come si suol dire elegantemente – la sua porca figura (smile).
Ora, mi chiedo, ovviamente scherzando, Silvia Dalla Benetta – la Lady di questa produzione triestina – avrà una voce brutta a sufficienza per cantare questa parte (strasmile)?

Recensione polemica de La bohème di Giacomo Puccini al Teatro Verdi di Trieste: ovvero la critica al pubblico oltre che quella allo spettacolo

Dopo il vernissage – tutto sommato felice – di qualche settimana fa con Otello, il Teatro Verdi di Trieste ha proposto La bohème di Giacomo Puccini in una produzione della fondazione che era stata cancellata nel 2020 a causa dell’emergenza sanitaria causata dal COVID-19.
È stata una serata particolare, che mi ha suggerito una riflessione che spero non sia banale: mi sono trovato dimezzato, come il Visconte di calviniana memoria. L’allestimento, niente più che dignitoso, mi ha catapultato nel mondo della cosiddetta tradizione senza tempo – ma anche priva di particolari meriti – e non ben definita; le voci mi hanno riportato al 2022.
Mi spiego: la regia di Carlo Antonio De Lucia è inoffensiva, c’è tutto quello che ci si aspetta in una Bohème. La soffitta, i tetti di Parigi con tanto di Torre Eiffel sullo sfondo, i giovani squattrinati che dimagriscono di sogni e speranze, un Café Momus un po’ moscio ma pur sempre vivace, la Musetta soubrette, la neve alla barrière d’Enfer e qui mi fermo perché avrete capito.
Poi si comincia a cantare e appare evidente che le voci, peraltro educate, di alcuni protagonisti sono nel solco della liricizzazione delle parti che oggi impera in tutti i teatri del mondo.
Azer Zada – che ha sostituito last minute il previsto Alessandro Scotto Di Luzio, indisposto – non si sente, soprattutto all’inizio, nonostante in buca Christopher Franklin cerchi di contenere (così mi è parso) il volume dell’orchestra.
L’unica voce davvero “pucciniana” è quella di Lavinia Bini, che infatti lo sovrasta ogni volta che ne ha l’occasione; non per cattiveria ovviamente, è proprio una questione di volume.
Il tenore poi si rinfranca – essere catapultato in una compagnia di canto non deve essere facile – ma il suo Rodolfo manca di anima, di trasporto, di passione. Di sangue. Azer Zada è corretto, non stona, ha gusto, una buona dizione, ma impersonare Rodolfo, sia detto col massimo rispetto per un giovane e promettente artista, richiede un coinvolgimento anche emozionale diverso.
Dicevo dell’allestimento: le scene sono semplici, l’impianto luci essenziale, i costumi più o meno centrati, la caratterizzazione dei personaggi tranquillizzante. Però è proprio in questo tipo di messa in scena che tutto deve essere perfetto, altrimenti si nota subito l’incongruenza. Per esempio, i versi “s’accomodi un momento” e “la prego, entri” di Rodolfo a Mimì non hanno senso se Mimì è già entrata da un pezzo. Sono troppo puntiglioso? Se calligrafismo, perdonate la parolaccia, deve essere che lo sia sino in fondo altrimenti viva le bohème ambientate sulla Luna.
Christopher Franklin ha dato una lettura che definirei prudente della partitura, molto attenta all’accompagnamento ai cantanti e alle dinamiche, un po’ pigra nelle agogiche ma comunque efficace e coinvolgente. Nell’ambito di una narrazione coerente, mi è piaciuto molto il finale, una di quelle pagine in cui il genio di Puccini è abbagliante, con l’orchestra che riprende le note del primo incontro tra Mimì e Rodolfo in un contesto drammaticamente diverso. Inoltre Franklin ha ottenuto dalla brillante Orchestra del Verdi un suono caldo e limpido al contempo, in cui anche quando gli archi spingono i legni si sentono distintamente.
Lavinia Bini, credo al debutto nella parte, è stata pienamente convincente sia dal lato vocale – fraseggio curato, attenzione alla parola scenica – sia da quello attoriale. Ottima la gestione della respirazione, che le ha consentito di legare e alleggerire le note, di “dire” con efficacia ed eloquenza. La voce è ampia, sicura nei gravi, smagliante nel registro centrale e puntuta negli acuti che si espandono in sala grazie a un’emissione di alta scuola. Una Mimì di rilievo, a tutto tondo, molto italiana per passione e smarrimenti quasi adolescenziali.
Discreto anche il rendimento della dinamica Federica Vitali, Musetta giustamente sopra le righe che forse ha gridato un po’ troppo nella scena da Momus ma che ha palesato anche affinità col canto di conversazione più sommesso nel proseguo.
Bravo Leon Kim, Marcello gagliardo, spaccone e iracondo ma anche capace di ripiegamenti riflessivi assai efficaci e dotato di voce adatta per la parte.
Più che sufficienti Fabrizio Beggi, Colline spiritoso nella sua buffa retorica ma anche umanissimo e partecipe compagno di tutti, al pari di Clemente Antonio Daliotti, Schaunard divertente nel soliloquio del pappagallo.
Interessante l’interpretazione di Alessandro Busi, che ha caratterizzato con efficacia sia l’avido Alcindoro sia l’attualissimo Benȏit.
Come sempre solido il rendimento delle parti minori che trovate in locandina e brillanti i ragazzini del coro di voci bianche, ottimo il Coro.
Alla fine successo per tutti, in particolare, mi è sembrato, per Leon Kim e Lavinia Bini.
Il pubblico era abbastanza numeroso ma non straripante e partecipe come dovrebbe essere per un’opera così popolare. Lo spettatore triestino è pacato, sempre inamidato, spesso fané.  A questo punto, se fossi parte del management del teatro rischierei per la prossima stagione qualche titolo desueto e/o una spruzzata di novità con allestimenti che diano una scossa culturale a noi zombie. Erwartung di Schönberg in lingua originale con sottotitoli in cinese potrebbe essere una buona scelta. Una provocazione, la mia? Sì.

La locandina

MimìLavinia Bini
RodolfoAzer Zada 
MusettaFederica Vitali
MarcelloLeon Kim
CollineFabrizio Beggi
SchanaurdClemente Antonio Daliotti
Alcindoro/BenoitAlessandro Busi
ParpignolAndrea Schifaudo
Il sergente dei doganieriDamiano Locatelli
Un doganiereGiovanni Palumbo
Un venditore ambulanteAndrea Fusari
  
DirettoreCristopher Franklin
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaCarlo Antonio De Lucia
SceneCarlo Antonio De Lucia e Alessandra Polimeno
CostumiGiulia Rivetti
  
I Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti da Cristina Semeraro
  
Orchestra e coro del Teatro Verdi di Trieste




Divulgazione semiseria dell’opera lirica: La Bohème di Puccini, da venerdì 9 novembre al Teatro Verdi di Trieste. Di puccinismi, pornazzi e baracconate di regime.

Sempre cercando di mantenere uno stile divulgativo e non serioso – ne sento particolarmente il bisogno, in questi giorni – comunico che venerdì prossimo al Teatro Verdi di Trieste va in onda, per l’ennesima volta, la Bohème di Giacomo Puccini.

Di un’opera così popolare e nota è ancora più difficile scrivere qualcosa non voglio dire di originale, ma almeno che non sia scontato.

Ci provo.
Qual è il principale problema, oggi e sempre, nell’allestire una Bohème?

Il primo credo sia non cadere nella trappola del puccinismo, che è una malattia grave e greve che rischia di rovinare il piacere dell’ascolto di quest’opera straordinaria. Ne possono essere afflitti tutti: direttore d’orchestra, regista e compagnia artistica.
Il puccinismo si manifesta in modo subdolo, con alcuni sintomi che all’inizio possono passare inosservati ma che poi si rivelano per ciò che sono: i prodromi di una devastazione artistica in piena regola.
Soprani che assumono dall’entrata pose che avrebbero fatto apparire Eleonora Duse come un’attrice sobria e morigerata negli accenti, direttori che mugolano dal podio, imponendo calamitosi rallentando all’orchestra e/o gonfiandone il suono con l’anabolizzante di archi strappalacrime, paurose tempeste di decibel alla chiusura del secondo quadro, registi che mettono in scena un migliaio di persone, compresi amanti e parenti. Sono solo esempi, potrei continuare a lungo.
In realtà la vicenda narrata è semplice e non richiederebbe tanta enfasi: quattro studenti in soffitta, per non parlare della fioraia.
Il secondo problema, che si manifesta con sintomi abbastanza simili al primo, è di sprofondare nel verismo più deteriore –a conferma che dagli “ismi” vari è sempre meglio diffidare – perché Bohème è un’opera estranea all’estetica verista.
Una delle grandi novità di questo lavoro pucciniano è infatti il canto di conversazione che per sua natura deve risultare sommesso, lieve, anni luce distante dalle grida e dai drammi di un’opera verista. Una novità così spiazzante che fece dire a uno studioso e critico come Eduard Hanslick “sembra che parlino invece di cantare”. Appunto, a conferma che i critici assai spesso prendono lucciole per lanterne. Al pari del pubblico, peraltro, che alla prima del 1° febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino restò un po’ titubante, per poi ravvedersi già alle prime repliche.
L’opera poi esplose artisticamente in tutto il mondo dall’Europa agli USA.
Allora, per evitare la consueta routine sulla genesi dell’opera e relativa vivisezione della partitura ho pensato di scrivere:

Dieci cose semiserie da sapere sulla Bohème di Puccini.

1)      La vicenda è narrata in un romanzo di Henri Murger (Scènes de la vie de bohème), dal quale Giuseppe Giacosa e Luigi Illica trassero il libretto, riuscitissimo perché calibra magnificamente momenti di spensieratezza a quelli più drammatici.

2)      Esiste anche una Bohème composta da Ruggero Leoncavallo, tratta dalla stessa fonte (Murger). Debuttò alla Fenice di Venezia il 6 maggio 1897. Tra le due Bohème, Gustav Mahler non solo preferiva quella di Leoncavallo, ma disprezzava apertamente l’altra.

3)      Puccini e Leoncavallo bisticciarono per la Bohème. Rivelando il suo spirito toscano Puccini chiamava il collega e rivale Leonbestia!
Addirittura, quando il grande Giacomo seppe che il pubblico veneziano non gradì troppo la Bohème del rivale, scrisse una non memorabile poesiola:
Il Leone fu trombato,
il Cavallo fu suonato
di Bohème ce n’è una
tutto il resto è una laguna

4)      Giulio Ricordi, editore di Puccini, per ragioni cabalistiche volle che Bohème debuttasse a Torino, nello stesso giorno nel quale, tre anni prima, vide la luce Manon Lescaut, primo successo clamoroso di Puccini.

5)      Il compositore francese Claude Debussy disse, testualmente: “Non conosco nessuno che abbia descritto la Parigi di quel tempo tanto bene come Puccini nella Bohème”

6)      La prima fu diretta da Arturo Toscanini, che all’epoca aveva 29 anni.

7)      Ci sono pochissime incisioni discografiche che sono considerate “di riferimento” dalla stragrande maggioranza degli appassionati. Una di queste è la Bohème incisa nel 1972 per la Decca, protagonisti tra gli altri Mirella Freni e Luciano Pavarotti, assolutamente straordinari. Addirittura mirabolante la direzione di Herbert von Karajan.

8)      Sempre a proposito di dischi, nella perfida (per me) incisione diretta da Georg Solti, protagonisti Placido Domingo e Montserrat Caballé, c’è un momento esilarante.
Quando i due cercano la chiave caduta sul pavimento della soffitta, le loro mani si sfiorano e Mimì deve emettere una specie di sospiro di sorpresa. La Caballé, alla quale piaceva strafare, sostanzialmente finge un orgasmo, producendosi in un imbarazzante ahhhhhhh che potrebbe benissimo appartenere a qualche pornazzo.
Provare per credere (l’incisione, non i pornazzi).

9)      Il mio verso preferito della Bohème, che rispecchia perfettamente la mia ottimistica filosofia di vita è: Già dell’apocalisse appariscono i segni, che ripeto come un mantra da quasi 67 anni.

10)   La Bohème favorisce gigionate di gusto rivedibile. Tra le più nefande e note, questa qui sotto, in cui vediamo Domingo&Pavarotti in versione “le star fanno comunque audience e quindi chissenefrega”.

Vi lascio alla visione di questa baracconata di regime, in puro stile trash amerikano e a rileggerci presto. Qui Pavarotti e Domingo vanno fuori tempo, gigioneggiano come nessuno, inventano di tutto. Forse fanno spettacolo, boh.
It’s all folks

Otello di Giuseppe Verdi al Teatro Verdi di Trieste: buona inaugurazione della stagione lirica triestina.

Otello di Giuseppe Verdi mancava dal teatro triestino dal 2010, quando a dirigere l’orchestra fu Nello Santi. L’atmosfera era tesa perché c’erano state proteste contro l’allora famigerato Decreto Bondi e la prima prevista per il 27 maggio saltò per sciopero.
Sembrano notizie di un paio di secoli fa, ma in questi dodici anni il mondo è cambiato sotto ogni punto di vista e il teatro, che non vive avulso dalla realtà ma anzi ne è parte propulsiva, non fa eccezione. Ieri, dal punto di vista psicologico, credo che tutti gli spettatori celebrassero il ritorno ufficiale alla tanto agognata libertà post pandemia in una specie di rito liberatorio collettivo.
Perciò questa produzione di Otello, firmata come la precedente da Giulio Ciabatti, si è svolta in un clima diverso e più disteso. Il ritorno di Daniel Oren a Trieste, città in cui principiò la carriera artistica, ha catalizzato l’attenzione di molti e scatenato parecchi entusiasmi nonostante la lunga collaborazione abbia potuto contare sì su grandi trionfi di pubblico ma anche su alcune vicende non propriamente limpide. Di là delle prefate considerazioni resta il fatto, inequivocabile, che ieri il Teatro Verdi di Trieste era non esaurito ma molto affollato, ed è una notizia eccellente per chiunque ami la cultura.
George Bernard Shaw affermò paradossalmente che Otello non è un’opera italiana in stile scespiriano ma che Othello è un dramma teatrale affine alla lirica italiana e trovo che sia un’intuizione geniale.
Il libretto di Arrigo Boito, meraviglioso, arricchisce di suggestioni la vicenda anche se, per ovvie questioni di linguaggi artistici diversi, immola sull’altare della brevità e del fuoco personaggi e situazioni della tragedia originale.
La regia di Giulio Ciabatti è gradevole, di impronta minimalista e non si scosta molto dal punto di vista concettuale a quella di dodici anni fa, concentrandosi più sui personaggi che sul contesto storico della vicenda. La scena è fissa, un ampio spazio delimitato da colonne con una pedana al centro sulla quale si svolge l’azione, e nel proseguo dell’opera cambia solo la disposizione, ma direi meglio la prospettiva, dei protagonisti.
Ciabatti cura con attenzione le interazioni tra i personaggi con particolare riguardo, mi è sembrato, per quanto concerne il rapporto Otello/Jago e le scene corali come la settima del terzo atto, quando all’esplodere dell’ira di Otello nei confronti di Desdemona tutti distolgono lo sguardo a eccezione di Jago e Roderigo. Il “fuoco di gioia” trova una corrispondenza visiva con delle figuranti vestite di rosso che metaforicamente simboleggiano il guizzare delle fiamme. Nel grande duetto che chiude il primo atto Otello e Desdemona sono forse un po’ troppo distanti e, a parer mio, ne risente la temperatura emotiva del momento.
Le luci, spesso livide, di Fiammetta Baldiserri e i sobri costumi (Margherita Platè) contribuiscono alla riuscita dell’allestimento che, come sto per dire, si inserisce nel solco di quella mai troppo indagata prassi registica ed esecutiva che si definisce di tradizione.

La direzione di Oren – che si alternerà sul podio con Francesco Ivan Ciampa – mi è sembrata appunto andare di pari passo con la regia, e non è certo un male. Il passo teatrale è sicuro, omogeneo, favorito da dinamiche controllate e agogiche anche sin troppo meditate con l’eccezione di una chiusura un po’ frettolosa del secondo atto. L’accompagnamento ai cantanti è paterno nel gesto e anche nella gestione volumetrica del suono orchestrale che rimane sempre limpido ma screziato da un fraseggio mobile ed eloquente.
Al netto di qualche veniale imprecisione – eravamo dal vivo, non stavamo ascoltando un disco – eccellente in tutte le sezioni l’Orchestra del Verdi, capace di suoni morbidi e avvolgenti come di fiammate corrusche e presaghe di infelici avvenimenti. Il Coro ha cantato bene, come sempre peraltro, nonostante sia sottodimensionato. Efficace anche la prestazione dei ragazzini del coro di voci bianche.
Arsen Soghomonyan ha interpretato con grande sensibilità una parte notoriamente ostica. Il timbro scuro e una recitazione pertinente, scevra da eccessi, lo aiutano a disegnare un Otello tormentato e autorevole ma non sguaiato che personalmente mi ha convinto. Qualche sfumatura in più non avrebbe guastato ma ragionevolmente credo che il rendimento del tenore possa salire con le prossime recite.
Nessun distinguo per Roman Burdenko, uno Jago già tra i migliori dell’attuale panorama artistico del quale ho apprezzato la caratterizzazione a tutto tondo del personaggio, supportata certo da una disinvolta presenza scenica ma soprattutto da un’interpretazione vocale di rilievo. Interessante come Burdenko abbia centrato la doppiezza di Jago, differenziandone i comportamenti istituzionali e quelli, diciamo così, privati.
Lianna Haroutounian ha interpretato una Desdemona giovane, per nulla manierata, spontanea e aristocratica con gusto scenico controllato e al contempo espressivo. La voce è gradevole, ampia nei centri, timbrata nel registro grave e qualche piccola imperfezione (l’acuto finale dell’Ave Maria è risultato un po’sporco) non inficia una prova di buon livello.
Bravo Mario Bagh nei panni di un Cassio dalla voce chiara e brillante.
Giovanni Battista Parodi è stato un Lodovico autorevole e accorato al contempo.
Buone anche le prestazioni dei coprotagonisti: la sensibile Marina Ogii (Emilia), il ruspante Roderigo (Enzo Peroni), il dolente Montano (Fulvio Valenti) e il sempre solido Giuliano Pelizon (Araldo).
Alla fine successo pieno per tutta la compagnia artistica più volte chiamata al proscenio. Trionfo, meritatissimo, per Roman Burdenko e Daniel Oren del quale, onestamente, contesto solo gli eccessi emotivi sul podio, tra pittoreschi cachinni e un’ipercinesi incontrollabile.

La locandina

OtelloArsen Soghomonyan
JagoRoman Burdenko
DesdemonaLianna Haroutounian
CassioMario Bahg
EmiliaMarina Ogii
LodovicoGiovanni Battista Parodi
RoderigoEnzo Peroni
MontanoFulvio Valenti
Un AraldoGiuliano Pelizon
  
DirettoreDaniel Oren
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaGiulio Ciabatti
CostumiMargherita Platè
LuciFiammetta Baldiserri
  
Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti da Cristina Semeraro
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste