Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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La musica della notte illumina Trieste e il Politeama Rossetti: The Phantom of the Opera di Andrew Lloyd Webber per la prima volta in Italia.

Una scommessa che ex ante prevedeva molti rischi che è stata ampiamente vinta ex post. Così si potrebbe riassumere l’iniziativa intrapresa da Il Rossetti, Teatro stabile del Friuli-Venezia Giulia, di portare per la prima volta in Italia, a Trieste, il musical The Phantom of the Opera.
Ma probabilmente l’azzardo è stato ben ponderato a tavolino considerando i molti atout che può mettere sul tavolo Trieste, soprattutto negli ultimi anni; il numero di turisti, infatti, è salito – e si sta incrementando ancora con mia personalissima angoscia – in modo esponenziale. Non è un caso che alla recita di ieri, una delle ultime, salendo le scale che mi portavano in platea sentissi parlare poco italiano e quasi niente triestino. Un pubblico davvero internazionale, non solo giovane o giovanissimo, per un musical che è ormai una pietra miliare di questo genere musicale.
Certamente un pubblico diverso dai tempi in cui chi scrive ha cominciato a frequentare un teatro che è sempre stato all’avanguardia e in cui grandi artisti rodavano i loro spettacoli. Un nome per tutti, Giorgio Gaber che qui impostò la seconda parte della sua carriera, quella forse meno popolare ma sicuramente più prestigiosa e più culturalmente impegnata, con quei monologhi stralunati che stavano a metà tra lo stand up del Derby di Milano e la musica d’autore di De André, Jannacci e Guccini. Lo so che c’entra poco ma oggi l’indirizzo del Rossetti è Largo Gaber e perciò mi sono lasciato andare ai ricordi di gioventù, quando facevo finta di essere sano.
Portare a Trieste un musical così famoso e visto da milioni di persone in Inghilterra e negli USA e avere la sala piena per innumerevoli recite è una vittoria enorme, di cui Francesco Mario Granbassi – Presidente dello Stabile – può andare più che fiero.
Mi sono accostato alla vicenda del fantasma, tratta dal noto romanzo di Gaston Leroux, per vie traverse o meglio cinematografiche, quando nella prima metà degli anni Settanta del secolo scorso uscì in Italia Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma, che pur mantenendo nella sostanza il plot originale era però contaminato da altre oscure presenze e cioè gli incubi di Hugo, Goethe e Wilde. Fu un insuccesso al botteghino ma oggi è un cult movie propedeutico per chi, come me, poco sapeva di questa produzione.
È stato invece Andrew Lloyd Webber, nel 1986, a consacrare all’eternità il musical di cui ha scritto il libretto e le musiche con il contributo di Charles Hart e Richard Stilgoe. La regia e le scene sono di Federico Bellone, che riprende l’originale di Cameron Mackintosh.
Per me, che vengo dal teatro d’opera ma non ho alcuna puzza sotto al naso perché sono cresciuto a piattoni colmi di Jimi Hendrix e Beethoven, è stata una serata meravigliosa.
L’allestimento è sfarzoso, ricco, quasi abbagliante dal lato scenotecnico con un palco che ruota velocemente e porta in un attimo da una scena all’altra. Inoltre, sono rimasto impressionato dalla straordinaria precisione dei tempi teatrali, sia nei momenti più drammatici sia in quelli più distesi.
Alla fine credo si possa considerare questo musical un cugino stretto dell’opera, e del resto la vicenda di questo parla e i personaggi di contorno – si fa per dire – sono spesso caricature dei protagonisti dei teatri lirici: la primadonna isterica, la giovane stella emergente, il tenore trombone; gli impresari stessi, figura ormai scomparsa nell’attuale teatro lirico ma che ha avuto un’importanza fondamentale e mai troppo sottolineata nella diffusione del melodramma.
Nella trama si colgono qua e là riferimenti al Don Giovanni, all’opera buffa della tradizione napoletana e alla commedia dell’Arte. Nella musica echeggiano suggestioni pucciniane e – mutatis mutandis – certi concertati sembrano di un Donizetti o di Verdi: sapete quando l’azione si ferma, nulla succede e tutti parlano per loro conto? Ecco.
Le luci sono da Oscar, né più né meno, e chi ha occhio fotografico ne apprezza l’eloquente tridimensionalità al pari della distribuzione dei personaggi in scena, che ubbidiscono in modo sorprendente alle “regole” della composizione.
È una regia curata nella recitazione, nelle coreografie, nelle interazioni tra i personaggi, nelle controscene e che sfrutta sagacemente con le imponenti scenografie la profondità del palco. Nulla è lasciato al caso e, per un cascame marcio di teatro lirico come me vedere una regia vera e propria e non una piatta e anemica mise en scène , è una specie di miracolo da raccontare ai colleghi prima di andare a vedere i cantieri.
La parte musicale è amplificata con un occhio (o un orecchio, forse) alle nuove frontiere di tolleranza dei decibel, che fanno sembrare bisbigli le deflagrazioni della Götterdämmerung nella versione Decca diretta da Sir Georg Solti. Il suono dell’orchestra dal vivo è perfettamente bilanciato all’interno dell’imponente flusso sonoro di base.
Tutta la affollata compagnia artistica ha palesato un rendimento straordinario sia dal lato vocale sia da quello attoriale.
Ramin Karimloo, star della produzione, ha tratteggiato un fantasma certo inquietante e tetro ma anche ricchissimo di sfumature psicologiche che hanno ben illuminato il buio del suo vissuto. La sua è una presenza carismatica, che attira subito l’attenzione e colpisce per umanità e profondità di interpretazione. La voce è ricca di armonici, con sfumature sombre che ne accentuano il fascino.
Amelia Milo è stata pure lei efficace, per quanto dal punto di vista vocale -almeno a mio parere – sia stata contemporaneamente penalizzata e aiutata. L’amplificazione dopa il volume ma toglie armonici e la voce da soprano soubrette arriva piatta mentre, al contrario, si notava che l’artista fraseggiava con attenzione. La sua minuta Christine però è fresca, giovane e accorata e perciò risolta in pieno.
Convincente anche il Raoul di Bradley Jaden – già protagonista di altri lavori di Webber –  che ha un invidiabile physique du rôle e una voce gradevole oltre che assoluta padronanza del palcoscenico.
Irresistibile la coppia di impresari composta da Earl Carpenter (Monsieur André) e Ian Mowat (Monsieur Firmin), dinamici, affiatati e tragicamente frivoli.
Divertenti anche Anna Corvino (Carlotta Giudicelli) e Gianluca Pasolini (Ubaldo Piangi) bravissimi a prendere in giro vezzi e malvezzi delle star operistiche, tra l’altro con cospicui mezzi vocali di soprano e tenore. Siccome il nome della Corvino mi risultava familiare, ho cercato nel mio sterminato archivio e ho visto che aveva partecipato nel al Parsifal di Wagner rappresentato a Bologna nel 2014, con la regia straordinaria di Romeo Castellucci.
Brave anche la segaligna Madame Giry interpretata da Alice Mistroni e la adolescenziale e delicata Meg Giry impersonata da Zoe Nochi.
Successo infuocato (è il caso di dirlo) con pubblico impazzito che ha chiamato al proscenio tutto il cast più volte e avrà sanato il deficit di qualche Stato acquistando i gadget dello spettacolo.
Se potessi, ci tornerei.

he PhantomRamin Karimloo
Christine DaaéAmelia Milo
RaoulBradley Jean
Monsieur AndréEarl Carpenter
Monsieur FirminIan Mowat
Carlotta GiudicelliAnna Corvino
Ubaldo PiangiGian Luca Pasolini
Madame GiryAlice Mistroni
Meg GiryZoe Nochi
BuquetMatt Bond
Monsieur LefevreJeremy Rose
Dance CaptainMark Biocca
  
Parole delle canzoniCharles Hart
  
Libretto e parole aggiunte alle canzoniRichard Stilgoe
  
Regia e sceneFederico Bellone
  
CoreografieGillian Bruce
  
Impianto luciValerio Tiberi
  
Ensemble Nicola Ciulla, Luca Gaudiano, Antonio Orler, Chiara Vergassola, Marianna Bonansone, Martina Cenere, Robert Ediogu, Stefania Fratepietro, Jessica Lorusso, Marta Melchiorre, Margherita Toso

Macbeth di Giuseppe Verdi al Teatro Verdi di Trieste: le pulsioni sessuali inibite alla meta portano a disastri.

Opera ricca di simboli, di oscuri presagi, notturna, livida, piena di atmosfere oniriche e di pulsioni sessuali inibite alla meta: queste sono le caratteristiche che danno il mood al Macbeth di Verdi tratto dalla tragedia di Shakespeare. È da qui che bisogna partire per capire la brama di potere e di sangue che avvolge e distrugge la coppia protagonista e la rende perfetto archetipo della banalità del male.
Non c’è interpretazione registica che prescinda da queste considerazioni e non vale solo per la lirica, ma anche per il cinema; si pensi al film di Orson Welles o dell’adattamento in stile giapponese del Trono di sangue di Akira Kurosawa.
Al Teatro Verdi di Trieste è stato ripreso dopo dieci anni lo storico allestimento restaurato da Benito Leonori – le scene sono di Josef Svoboda –  e diretto da Henning Brockhaus, con i costumi di Nanà Cecchi e le coreografie di Valentina Escobar.
Sinceramente non ricordo se siano state apportate modifiche allo spettacolo, ma di certo nel caso non sono risultate sostanziali. Per questo motivo riporto ciò che scrissi a suo tempo anche se, obiettivamente – sarà l’età, mia intendo – le lunghe pause e gli intervalli per i cambi di scena mi sono parsi assai invadenti: tre ore e mezza per Macbeth sono davvero tante.


Brockhaus lavora per sottrazione, con pochi elementi scenici e molte buone idee coniuga felicemente l’esigenza di evidenziare il lato onirico e psicanalitico del dramma, che è ovunque striato di incubi e allucinazioni, contrapponendolo a una specie di manovalanza meccanica del male che mi ha ricordato l’incedere narrativo di qualche film di Michael Haneke in cui la malvagità diventa folle normalità.
Tutto è pervaso da un’atmosfera di malato e tetro erotismo, di gusto quasi gotico alla quale contribuiscono anche le interessanti proiezioni, lo splendido impianto luci (sempre di Brockhaus) e gli scarni ma funzionali costumi di Nanà Cecchi. La chiave di lettura della regia balza agli occhi all’entrata della Lady, la quale striscia sul palco, mi verrebbe da dire, strega tra le streghe.
Streghe che sono ossessivamente presenti (anche con acrobatiche evoluzioni aeree), veri e propri personaggi del dramma com’è sacrosanto che sia.
Mi sento di fare solo un appunto alla regia, e cioè la scelta di far leggere il testo della lettera da entrambi i protagonisti  – espediente non nuovissimo peraltro, da Strehler in poi – interpretati da voci registrate, ma siamo proprio a livello di sensibilità personali. L’allestimento, nel complesso, tradisce l’età (l’originale nasce nel 1995) solo per i cambi scena piuttosto lunghi che tendono a smorzare un po’ l’attenzione.

Fabrizio Maria Carminati, ben noto e apprezzato a Trieste, è uno degli ultimi custodi della nobile tradizione esecutiva italiana e anche in questa circostanza ne ha dato prova evidente. L’Orchestra del Verdi – eccellente in tutte le sezioni – ha nel DNA quel quid che risponde al nome di suono verdiano, ma le dinamiche sono sembrate spesso attenuate e uniformi. Il che, tanto per intendersi, è pur sempre meglio di clangori ed esplosioni bandistiche che con la musica di Verdi non c’entrano nulla. Forse, ma potrebbe essere che la mia infelice collocazione in un angolo in terza fila incida sul mio parere, al Macbeth di Carminati sono mancati un po’ di sangue, un pizzico di pancia, una spruzzata di ruvidezza. Del resto alle prime è spesso così, il direttore prende le misure ed eventualmente apporta aggiustamenti.
Straordinaria la prova del Coro, assai impegnato anche scenicamente, che ha cantato in modo splendido nonostante gli ormai cronici problemi di organico. Paolo Longo, alla testa del coro triestino, può essere più che soddisfatto del suo lavoro.

Ho trovato buona Silvia Dalla Benetta nella parte della diabolica Lady. Il soprano negli ultimi anni ha cambiato repertorio assecondando la naturale evoluzione del suo strumento. La pasta vocale è però pur sempre quella di soprano leggero di coloratura e di conseguenza le agilità di forza richieste dalla parte sono sembrate non proprio fluide ma comunque convincenti. Il registro centrale è sontuoso, gli acuti ancora brillanti ma con meno “punta” di un tempo. Però, e dal mio punto di vista è ciò che conta, la sua Lady emoziona per il coinvolgimento scenico e lo scavo sulla parola. Lo sleepwalking mi è sembrato riuscito, caratterizzato da un fraseggio mobilissimo e da colori cangianti del timbro che a volte – opportunamente – assumeva connotazioni infantili, come di una donna in preda a un’angosciante regressione psicologica.
Convincente anche il rendimento di Giovanni Meoni il quale, pur arrivando affaticato al finale della grande aria del quarto atto, ha creato un personaggio credibile nella sua pavida dipendenza dalla consorte che, come noto, lo manovra in modo spietato. Meoni è nel pieno della maturità artistica e perciò a proprio agio anche in una recitazione rattenuta e minimalista che ben si attaglia a una parte ombrosa, cupa, che il baritono completa con un canto sommesso e sussurrato.



Ragguardevole la prova di Dario Russo, che ha interpretato con voce da vero basso verdiano il personaggio di Banco; l’artista è sembrato a proprio agio anche dal lato scenico nella bellissima scena dell’agguato e nelle successive apparizioni.
Molto bravo Antonio Poli nei panni, sempre piuttosto difficili da indossare, di Macduff. Tutti aspettano l’aria del quarto atto, che il tenore ha portato a termine con efficacia nell’acuto finale ma facendosi apprezzare anche nel recitativo.
Sufficiente Gianluca Sorrentino, Malcolm corretto ma meno incisivo del solito.
Bene i coprotagonisti: Cinzia Chiarini (Dama della Lady) e Francesco Musinu (Medico) che con i loro pertichini hanno dato ulteriore tensione alla scena del sonnambulismo.
Le parti minori, che trovate in locandina, sono state al pari dei numerosi mimi e figuranti all’altezza di una serata che ha raccolto un notevole successo in un teatro pressoché esaurito.

MacbethGiovanni Meoni
Lady MacbethSilvia Dalla Benetta
MacduffAntonio Poli
BancoDario Russo
Dama di Lady MacbethCinzia Chiarini
MalcolmGianluca Sorrentino
MedicoFrancesco Musinu
Domestico di Macbeth/ApparizioneDamiano Locatelli
Sicario/ApparizioneGiuliano Pelizon
AraldoFrancesco Paccorini
  
ApparizioniIsabella Bisacchi, Maria Vittoria Capaldo, Sofia Cella, Crisanthi Narain
  
DirettoreFabrizio Maria Carminati
  
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaHenning Brockhaus
SceneJosef Svoboda
Ricostruzione dell’allestimento scenicoBenito Leonori
CostumiNanà Cecchi
CoreografieValentina Escobar
  
  
Orchestra e coro del Teatro Verdi di Trieste
  
Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti dal Maestro Cristina Semeraro



Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Macbeth di Giuseppe Verdi al Teatro Verdi di Trieste

Direi che in prossimità del Macbeth di Giuseppe Verdi che debutterà venerdì 27 gennaio al Teatro Verdi di Trieste si può cominciare a dare il solito sguardo sbilenco a questo straordinario capolavoro che io amo particolarmente. In questo longform (che è il modo figo di dire lenzuolata) troverete molte citazioni da testi antichi; noterete errori di ortografia, che ho voluto lasciare perché così compaiono negli originali.
Dovete sapere che il giovane Amfortas da ragazzino era rimasto colpito dalle immagini del film di Orson Welles, che evidentemente devo aver visto in televisione una di quelle sere nelle quali non andai a dormire subito dopo Carosello, dal momento che dubito fortemente che l’abbiano passato al cinema dell’oratorio salesiano (smile). Nel film la scena dello sleepwalking – quella appunto che m’è rimasta tanto impressa – è da 1h05 circa, per chi volesse vedere questo momento incredibile.

L’immagine bellissima ma terrificante della “maschera” di Jeanette Nolan ha disturbato frequentemente le mie notti. In particolare m’impressionò la scena che poi, nell’opera di Verdi, è descritta nell’aria “Una macchia è qui tuttora” e cioè il momento in cui la Lady vede le sue mani sporche di un sangue che non riesce a lavare. Già prima il suo consorte Macbeth propone la metafora del mare e del sangue. Questi i versi di Shakespeare:

Will all great Neptune’s ocean wash this blood clean from my hand

Che nel libretto di Piave (e Maffei) diventa:

Non potrebbe l’Oceano queste mani a me lavar

Ma, chissà perché, a me fece più impressione la donna che si sfregava le mani, allucinata. Nel libretto del Macbeth verdiano la frase è “Chi poteva in quel vegliardo tanto sangue immaginar?”

In questa scena di sonnambulismo regna sovrana e credo che continuerà a farlo per sempre Maria Callas, che proprio non posso fare a meno di proporre, nonostante che in questa parte si siano poi distinte anche altre cantanti: dalla Gencer alla Scotto, dalla Nilsson alla Bumbry, anche se la mia preferita è quella matta di Elena Suliotis.



Quindi (ri)vedere il Macbeth è per me particolarmente emozionante, perché trovo sia una delle opere migliori di Verdi e anche perché mi ricorda la mia lontanissima infanzia che, sia detto per inciso, fu turbata anche dal film “Il trono di sangue” di Kurosawa, che del Macbeth è un adattamento cinematografico.
Fatta questa inutile premessa, ecco i principali protagonisti della prima rappresentazione di Macbeth, il 14 marzo 1847 a Firenze.

  1. Macbeth (Felice Varesi)
  2. Lady Macbeth (Marianna Barbieri-Nini)
  3. Banco (Nicola Benedetti)
  4. Macduff (Angelo Brunacci)

Vale la pena approfondire un minimo le personalità dei due protagonisti.

Macbeth

Il creatore del ruolo fu Felice Varesi, del quale apprendiamo dai sacri testi che era “basso, tarchiato, un po’ sbilenco” e che aveva una voce “vibrante, sonora e pastosa”.
Inoltre:
Fu istruito nelle belle lettere, nella matematica, nella fisica, nel disegno, nell’architettura, nelle lingue, e tra’ Maestri ebbe il celebre Abate Pozzoni. Dotato d’una voce baritonale agile, pastosa, robusta, intuonata, imparò il canto, e l’autunno 1834 esordi col Furioso e il Torquato al Teatro di Varese, nell’ Eden della Lombardia, ove in quella stagione sono raccolti i più bei fiori e le menti più squisite e gentili della Capitale. Non sapremmo quale città d’Italia non l’abbia udito e apprezzato, poichè pel volgere d’anni moltissimi ei mai non ebbe un momento di tregua, dall’uno all’altro teatro passando. Anche la Spagna, anche il Portogallo, anche Parigi lo reputarono sommo nel tragico, nel semi-serio, nel giulivo, nel buffonesco, attribuendogli la duplice e rara qualità di cantante attore. Coppola scrisse per esso Giovanna I, e Verdi lo volle a protagonista delle principali sue Opere.
Se il Cigno di Busseto avesse ancora degli artisti della sua intelligenza, non direbbe con tanta fermezza di non voler più scrivere.
A Varesi stesso si rivolge Verdi in una famosa lettera, nella quale spiega dettagliatamente come interpretare il personaggio di Macbeth.
Il celebre baritono poi legò il suo nome a due opere della trilogia popolare di Verdi: Rigoletto e Traviata, anche se nella parte di Giorgio Germont non ebbe, alla prima, un grande successo e anzi fu considerato concausa del tonfo all’esordio.

Lady Macbeth

Della terribile Marianna Barbieri-Nini ho già parlato più volte, ma giova riprenderne in questo caso i tratti salienti.
La Marianna Barbieri-Nini fu un soprano di fama pari solo alla sua bruttezza, poverina.
Giuseppina Strepponi, la seconda moglie di Verdi, la omaggiò di questo sintetico e viperino parere:

S’ella ha trovato marito non può disperar più nessuna di trovarlo.

Oddio, bellissima non era di certo, almeno a giudicare dalla documentazione disponibile, ma evidentemente era anche molto brava, tanto che fu la prima interprete di parti monstre come Lucrezia Contarini nei Due Foscari e della diabolica Lady nel Macbeth, sempre di Verdi, oltre che di numerose opere di Donizetti.
Francesco Regli, (autore del libro dal titolo più lungo del mondo e cioè Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860.) la gratifica, tra gli altri complimenti, di questo giudizio:

Acclamatissima cantante fiorentina padre era impiegato alla Corte del Gran Duca di Toscana Il Maestro Cav Luigi Barbieri iniziolla il primo alla musica ea andò gloriosa d avere ad auspici e precettori una Giuditta Pasta il Vaccaj Dopo il felicissimo esperimento di due Teatri nel carnovale 1839 40 andò alla Scala di Milano ove apparve sotto spoglie d Antonina nel Belisario L Impresa si era sbagliata scelta del suo dèbut e poi per la ragione di tenerla a suoi stipendi non doveva esporre sopra scene di tanta esigenza una giovane principiante Non è dunque a maravigliare se la Barbieri ebbe la peggio L Appalto intanto da cui dipendeva anzichè sorreggerla la disanimò costringendola persino a cantare alla Ca nobbiana fra un atto e l altro della Commedia Però la Barbieri non si è prostrata sotto il pondo della sua sventura e fatti valere i suoi diritti in tribunale ne usci vincitrice si sciolse da quel malaugurato contratto e incominciò una nuova èra sotto gli auspici di Alessandro Lanari Da quell epoca non sapremmo quale Teatro non la festeggiasse in Italia ed all Estero Vi fu un momento nella professione musicale che non si parlava che della Barbieri La sua stupenda voce i suoi arditi slanci il suo esteso repertorio la resero per moltissimi anni la delizia e il sostegno dei Pubblici e degli Impresarii L Accademia di Santa Cecilia di Roma il Liceo di Belle Arti e la Filarmonica di Firenze tante altre accreditate Accademie la fecero loro Socia e il Gran Duca di Toscana la creò sua Cantante di camera Il Maestro Mabellini scrisse per essa Il Conte di Lavagna Giuseppe Verdi due Foscari Giovanni Pacini il Lorenzino de Medici Non sappiamo perchè da qualche tempo la si lasci oziosa nella sua nativa Firenze mentre potrebbe ancora prestare alle scene utili servigi.

Il fatto è che Verdi stesso scrisse che la sua Lady Macbeth doveva essere brutta e cattiva, dotata di una voce aspra, soffocata, cupa. E quindi la Barbieri-Nini, evidentemente, in questi panni faceva – come si suol dire elegantemente – la sua porca figura (smile).
Ora, mi chiedo, ovviamente scherzando, Silvia Dalla Benetta – la Lady di questa produzione triestina – avrà una voce brutta a sufficienza per cantare questa parte (strasmile)?

Mario Brunello torna al Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste e raccoglie un enorme successo. Nino Rota non sfigura affatto accanto alla famiglia Bach. Il buongusto sacrificato in piazza per la crudele dea Barcolana

Nell’imminenza della Barcolana, che notoriamente smuove masse di folla inconsuete per Trieste – ieri spostarsi in città era una cosa molto vicina a un girone infernale – si è svolto il quarto appuntamento della stagione sinfonica triestina.
Il protagonista è stato Mario Brunello, violoncellista e artista a tutto tondo, oltre che uomo di cultura impegnato felicemente da molti anni nel sociale.
In una bella intervista al quotidiano locale Brunello ha paragonato il suono del violoncello piccolo – il suo strumento per il concerto a Trieste – a quello della voce di controtenore. Entrambi, violoncello piccolo e controtenore, sono stati coinvolti nei cambiamenti di gusto del pubblico, il primo a favore dello strumento quale lo conosciamo oggi, il secondo travolto dalla comparsa della voce femminile di soprano. Ricordo che le donne non hanno potuto per secoli esibirsi in pubblico, tanto che la Chiesa le considerava nella migliore delle ipotesi meretrices honestae.
Il programma prevedeva nella prima parte due pagine musicali: il Concerto in re magg. BWV 1054 (dal Concerto per violino BWV 1042 di J. S. Bach) e il Concerto in la magg. per violoncello piccolo e orchestra H 439 (W 172) di Carl Philipp Emanuel Bach, quinto dei venti figli di Johann Sebastian. In questi due brani, quasi come un bonario convitato di pietra, emerge prepotente la figura di Antonio Vivaldi, il prete rosso, che della musica barocca è stato esponente sublime.
Padre, figlio e padre spirituale, uniti dalla koinè del Barocco.
E anche i due brani proposti confermano la stretta parentela di sangue artistico e storico: la struttura in tre movimenti, con il secondo a fare da cerniera emotiva (Largo mesto, Adagio, ovviamente entrambi in minore) tra i due Allegri lo conferma.
L’Orchestra del Verdi, ovviamente in formazione cameristica d’archi e supportata dalla bravissima Adele D’Aronzo al clavicembalo, ha assecondato con precisione e gusto l’estro interpretativo di Brunello, che per l’occasione era anche direttore.
Per quanto riguarda appunto Mario Brunello, non voglio neanche soffermarmi troppo per non risultare pleonastico: è in simbiosi col suo violoncello piccolo (il violinone, come l’ha definito) dal quale estrae passione, vitalità, inventiva. Il virtuosismo, ovviamente stellare, è solo la parte più esteriore della sua arte. Sono il controllo delle dinamiche, la capacità di trarre note dolenti e al contempo luminose, il lirismo controllato scevro della ricerca di facili effetti che delineano la statura dell’interprete.
Pubblico in visibilio, ulteriormente eccitato dai bis, entrambi trascrizioni per violoncello: un’anticipazione del programma della seconda parte dedicato a Nino Rota (Improvviso, Un dialogo sentimentale) e un grande classico bachiano (Andante Seconda sonata per violino).

Sono davvero grato al Teatro Verdi e a Mario Brunello – che nella prefata intervista esprime la necessità che la musica dialoghi con la quotidianità – per le scelte della seconda parte del programma, dedicato alla musica di quell’artista straordinario che è stato Nino Rota.
Troppo spesso liquidate come “musica da film” – una locuzione ignorante che puzza di diminutio eche scorda come la musica fosse strutturale ai tempi del muto-  le composizioni di Rota sono invece pagine musicali che reggono benissimo la serata anche se private di immagini cinematografiche, perché sono frutto dell’Arte di un artista di primo livello che si è cimentato con successo in generi musicali diversi, dall’opera lirica alla musica sacra.
Simpaticamente sceneggiata dalla compagine triestina, con i professori d’orchestra che hanno citato Fellini all’inizio e in chiusura hanno abbandonato un po’ alla volta il palcoscenico a concerto in corso, la musica di Rota è stata eseguita mirabilmente. L’ascolto attento ha rivelato come il compositore fosse capace non solo di venire incontro alle esigenze dei registi ma anche di catturarne l’anima in una specie di portfolio emotivo. Il gusto per il grottesco di Fellini, il sentimentalismo un po’ mieloso di Zeffirelli, la briosa decadenza di Visconti.
Eccellente la prestazione dell’Orchestra del Verdi, che se nella prima parte del concerto aveva palesato la morbidezza degli archi, nel proseguo ha convinto pienamente in tutte le sezioni con ottoni e percussioni in grande evidenza. Ci tengo a citare, in particolare, lo splendido rendimento di Paola Fundarò, primo oboe della fondazione triestina.
Chiudo con una nota di amarezza: all’uscita dal teatro sono ripiombato nel girone infernale dantesco che ho citato all’inizio. La Dea Barcolana richiede sacrifici e, maledizione, il buongusto è stato giustiziato ferocemente coram populo in Piazza Verdi.

Johann Sebastian BachConcerto in re magg. BWV 1054 (dal Concerto per violino BWV 1042 di J. S. Bach)
Carl Philipp Emanuel Bach
 
Concerto in la magg. per violoncello piccolo e orchestra H 439 (W 172)
Nino RotaSuite dai film Prova d’orchestra e Romeo e Giulietta, Ballabili dal film Il Gattopardo
  
Violoncello e DirettoreMario Brunello
  
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste


 

Recensione seria di Don Pasquale di Donizetti al Teatro Verdi di Trieste: i ruggenti anni sessanta e i fumetti.

Anche Donizetti, come altri compositori, dopo aver scritto perlopiù grandiosi drammi – si pensi solo a Lucia, o alla cosiddetta Trilogia Tudor – sentì il bisogno di lasciarci con un malinconico sorriso. Don Pasquale è, infatti, quasi il canto del cigno del compositore bergamasco il quale, quando compose codesta opera buffa dal retrogusto amarognolo, era già preda della malattia che a breve l’avrebbe portato prima all’inattività e poi alla morte.
Don Pasquale è una sorta di summa del genere comico italiano, perché vi si riconoscono alcuni archetipi ricorrenti: l’uomo anziano che non si arrende allo scorrere del tempo, la ragazzetta scaltra, l’amoroso un po’ bambinone, il mestatore truffaldino ma simpatico. Caratteri e personalità che hanno convinto il regista di questa produzione che risale a parecchi anni fa, Gianni Marras, ad ambientare la vicenda negli anni 60 del secolo scorso strizzando l’occhio al fortunato filone cinematografico della commedia all’italiana.
Ne esce un allestimento colorato, moderatamente spassoso, che alterna gag spiritose a qualche caduta di gusto, ma nel complesso divertente.
Le scene e i costumi di Davide Amadei sono di stampo fumettistico con didascalie da fotoromanzo scritte sui pannelli che riproducono angoli di Roma, in cui si riconoscono citazioni da “Vacanze romane” – la Vespa con Norina/Audrey Hepburn -, surreali richiami all’allora attuale primo viaggio spaziale e la presenza di un notaro caricatura di Groucho Marx. Si nota attenzione alle interazioni tra i personaggi per gestire in modo efficace i tempi comici del susseguirsi delle varie situazioni.
Nonostante qualche sbavatura qua e là, che nella musica dal vivo è inevitabile, buona la direzione di Roberto Gianola, alla quale sono mancati forse solo un po’ di brio e brillantezza che potranno essere un valore aggiunto nelle prossime recite. Bella la Sinfonia, nessun clangore, buon accompagnamento ai cantanti. Segnalo, inoltre, che almeno dalla mia posizione (palco in secondo piano) la disposizione dell’orchestra dovuta alle regole anti Covid ha privilegiato in modo notevole il suono dei legni, in particolare dei flauti che assumevano un’imponenza wagneriana.
Ottima la prova del Coro, anche dinamico in scena nel terzo atto e ben diretto da Paolo Longo.
Nina Muho si è rivelata un’efficace Norina, connotandola di quella viperina civetteria che appartiene al personaggio. La voce tende ad espandersi negli acuti ed è di bel colore, le agilità sono state affrontate con qualche cautela ma il soprano è sembrato disinvolto in scena ed elegante nella figura snella.
Antonino Siragusa bravissimo come sempre e anche spiritoso nel caratterizzare un Ernesto a metà tra un cantante melodico di successo (con un ciuffo inguardabile, va detto con un sorriso) e un ragazzino immaturo. Ottima l’intesa con il soprano nel duetto del terzo atto e voce salda, acuti penetranti, capacità di cantare con l’espressività giusta per l’amoroso di turno.
Convincente la prestazione di Pablo Ruiz, Don Pasquale a proprio agio nel fraseggio e nel canto sillabato, spiritoso e al contempo malinconico ed eloquente in scena, con tempi comici da attore consumato.
L’allampanato Malatesta di Vincenzo Nizzardo ha convinto sia dal lato vocale sia da quello attoriale, in cui ha mostrato un indispensabile affiatamento nei dialoghi con gli altri interpreti.
Completavano il cast il bravo Armando Badia (Notaro) e il dinamico mimo Daniele Palumbo, attivissimo trait d’union tra una scena e l’altra.
Teatro discretamente affollato e pubblico che ha apprezzato tutta la compagnia artistica nonostante qualche isolata contestazione alla regia.

ErnestoAntonino Siragusa
NorinaNina Muho
Don PasqualePablo Ruiz
Dottor MalatestaVincenzo Nizzardo
Un notaroArmnado Badia
MimoDaniele Palumbo
  
DirettoreRoberto Gianola
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaGianni Marras
Scene e costumiDavide Amadei
  
Orchestra e Coro del Teatro Giuseppe Verdi di Trieste
  

Recensione semiseria e sintetica di Macbeth di Giuseppe Verdi al Teatro alla Scala: l’allestimento del regista Livermore addomestica la follia per il pubblico di RAI1.

prima scala

Dopo la presentazione di pochi giorni fa, è il momento della recensione.
Quest’anno alcune dichiarazioni di Davide Livermore, regista del Macbeth che ha aperto la stagione scaligera, rendono più plausibile la mia consueta recensione espressa.
Livermore ha infatti dichiarato che “per una volta i privilegiati saranno gli spettatori a casa che, grazie a piccole telecamere disseminate sul palco e alla realtà aumentata, vedranno uno spettacolo che in teatro non si vedrà.”
Nonostante questo, apro con la solita avvertenza:

Questa recensione è frutto della visione televisiva della prima scaligera, perciò attenzione: solo dal vivo uno spettacolo può essere valutato in modo completo, per ragioni tanto evidenti che non sto neanche a elencare. Detto questo, andiamo avanti.

Livermore, che si avvale del suo collaudato team (scene di Giò Forma, proiezioni D-Wok, costumi Gianluca Falaschi), torna a trarre ispirazione dal cinema immergendo la vicenda in un ambiente che s’ispira al bellissimo film Inception di Christopher Nolan: futuro distopico – ma quale futuro non lo è, soprattutto nel sentire odierno – , con la presenza opprimente della skyline di una metropoli che potrebbe essere ovunque con i conseguenti rischi di alienazione di chi ci vive.
A mio parere non c’è molto altro da dire se non che l’allestimento è curato in modo maniacale e per certi versi spettacolare nello sfruttare il massimo possibile della tecnologia televisiva e non solo. Il regista ha messo molta attenzione anche nelle controscene e alle interazioni tra i personaggi e il coro. Le luci di Antonio Castro sono livide e taglienti e insieme alle complesse coreografie di Daniel Ezralow danno un valore aggiunto alla messa in scena. La domanda è: questo spettacolo coglie il senso della tragedia scespiriana e poi verdiana? Secondo me sì, ma l’allestimento è troppo esplicito, manca di mistero, svela troppo lasciando poco al territorio dell’onirico allucinato. Cerco di dire che è un allestimento troppo patinato, levigato, per una musica e una vicenda che sono invece selvagge e caotiche.

Riccardo Chailly, almeno dall’ascolto televisivo, dà una lettura tradizionale della partitura verdiana cogliendone in pieno la tinta cupa, scura e soffocante. Un’interpretazione di ampio respiro, in cui la retorica non prevale mai sulla maestosità del suono nonostante le dinamiche siano importanti e dirompenti. L’accompagnamento ai cantanti, tutti molto esposti per le arie difficili e celebri, mi è sembrato davvero rimarchevole. Nel complesso, mi pare che Chailly non si sia discostato di molto dalla sua magnifica lettura risalente al 1987, quando incise per la Decca l’opera e il seguente film-opera.

Luca Salsi (Macbeth) è oggi uno degli interpreti più affermati di Macbeth e ne ha dato conferma anche stasera. La voce, scura, è adattissima al personaggio. L’accento, l’attenzione alla parola scenica sono davvero encomiabili al pari della disinvoltura sul palco. Fantastico nella scena delle apparizioni! Oltretutto Chailly ha scelto di finire l’opera con l’aria “Mal per me che m’affidai”, che appesantisce la parte già molto impegnativa.

Anna Netrebko (Lady Macbeth) è un’artista che divide gli appassionati e anche questa sera, dal lato vocale, ha prestato il fianco a qualche critica. Impeccabile l’accento e migliorata la dizione rispetto a un tempo ma, soprattutto nei gravi, qualche suono è uscito artefatto. Il registro centrale è invece più che mai rigoglioso e gli acuti davvero notevoli. Solo elogi, invece, per le sue capacità di immedesimarsi nella parte, in cui è risultata molto convincente. Stupenda la scena del sonnambulismo.

Ildar Adbrazakov è stato un ottimo Banquo, che ha sfoggiato uno strumento imponente e timbrato (bellissima “come dal ciel precipita”) e brillante presenza scenica.

Francesco Meli (Macduff) affronta con baldanza una parte che è insidiosa nonostante sia breve e dà segnatamente il meglio nella sua aria “Ah! La paterna mano”.

Iván Ayón Rivas è, come si conviene, uno squillante Malcolm.

Meraviglioso il Coro, impegnato anche dal lato attoriale, ed eccellente la prestazione dell’Orchestra della Scala.

Validissime le prove dei comprimari: Chiara Isotton (Dama), Andrea Pellegrini (medico), Leonardo Galeazzi (domestico) e Costantino Finucci (apparizione).

Domani vedrò che ne pensano gli altri amici appassionati, intanto se avete voglia commentate pure, risponderò a tutti, magari con calma.
Se ci sono orrori ortografici abbiate pazienza (strasmile).

Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Macbeth di Giuseppe Verdi, che aprirà la stagione del Teatro alla Scala di Milano.

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Direi che in prossimità del Macbeth di Giuseppe Verdi che aprirà la stagione alla Scala di Milano il 7 dicembre si può cominciare a dare il solito sguardo sbilenco a questo straordinario capolavoro che amo particolarmente. Oltretutto sembra che Anna Netrebko si sia incastrata in un ascensore durante le prove e perciò potrebbe uscirne una serata memorabile (strasmile).
Macbeth di Verdi è stato protagonista di altri tre vernissage di stagione: 1952, 1975, 1997. La versione scelta da Riccardo Chailly sembra essere quella parigina del 1865 e la regia sarà di Davide Livermore, ormai di casa alla Scala, che ha di essersi ispirato al film Inception di Christopher Nolan (film bellissimo, peraltro). I protagonisti principali saranno Luca Salsi (Macbeth, baritono), Anna Netrebko (Lady, soprano), Ildar Abdrazakov (Banquo, basso), Francesco Meli (Macduff, tenore).
L’opera si potrà vedere in televisione sui RAI1 a partire dalle 17.45 e ascoltare su RADIO3 alla stessa ora.
Dovete sapere che il giovane Amfortas da ragazzino era rimasto colpito dalle immagini del film di Orson Welles, che evidentemente devo aver visto in televisione una di quelle sere nelle quali non andai a dormire subito dopo Carosello, dal momento che dubito fortemente che l’abbiano passato al cinema dell’oratorio salesiano (smile).
Nel film la scena dello sleepwalking – quella appunto che m’è rimasta tanto impressa – è da 1h e 30 minuti circa, per chi volesse vedere questo momento così emozionante.
L’immagine bellissima della terrificante “maschera” di Jeanette Nolan ha disturbato frequentemente le mie notti.
In particolare m’impressionò la scena che poi, nell’opera di Verdi, è descritta nell’aria “Una macchia è qui tuttora” e cioè il momento in cui la Lady vede le sue mani sporche di un sangue che non riesce a lavare.

Già prima il suo consorte Macbeth propone la metafora del mare e del sangue. Questi i versi di Shakespeare:

Will all great Neptune’s ocean wash this blood clean from my hand

Che nel libretto di Piave (e Maffei) diventa:

Non potrebbe l’Oceano queste mani a me lavar

Ma, chissà perché, a me fece più impressione la donna che si sfregava le mani, allucinata. Nel libretto del Macbeth verdiano la frase è “Chi poteva in quel vegliardo tanto sangue immaginar?”

In questa scena di sonnambulismo regna sovrana e credo che continuerà a farlo per sempre Maria Callas, che proprio non posso fare a meno di proporre, nonostante che in questa parte si siano poi distinte anche altre cantanti: dalla Gencer alla Scotto, dalla Nilsson alla Bumbry sino, si parva licet, a Vittoria Yeo (la penultima Lady che ho ascoltato in teatro) dei nostri giorni.

Quindi rivedere e risentire il Macbeth è per me particolarmente emozionante, perché trovo sia una delle opere migliori di Verdi e anche perché mi ricorda la mia lontanissima infanzia.

Fatta questa inutile premessa, ecco i principali protagonisti della prima rappresentazione di Macbeth, il 14 marzo 1847 a Firenze.

    Macbeth (Felice Varesi)

    Lady Macbeth (Marianna Barbieri-Nini)

    Banco (Nicola Benedetti)

    Macduff (Angelo Brunacci)

Vale la pena approfondire un minimo le personalità dei due protagonisti “primi interpreti” dell’opera.

Macbeth

Il creatore del ruolo fu Felice Varesi, del quale apprendiamo dai sacri testi che era “basso, tarchiato, un po’ sbilenco” e che aveva una voce “vibrante, sonora e pastosa”.

Varesi

Inoltre:
Fu istruito nelle belle lettere, nella matematica, nella fisica, nel disegno, nell’architettura, nelle lingue, e tra’ Maestri ebbe il celebre Abate Pozzoni. Dotato d’una voce baritonale agile, pastosa, robusta, intuonata, imparò il canto, e l’autunno 1834 esordi col Furioso e il Torquato al Teatro di Varese, nell’ Eden della Lombardia, ove in quella stagione sono raccolti i più bei fiori e le menti più squisite e gentili della Capitale. Non sapremmo quale città d’Italia non l’abbia udito e apprezzato, poichè pel volgere d’anni moltissimi ei mai non ebbe un momento di tregua, dall’uno all’altro teatro passando. Anche la Spagna, anche il Portogallo, anche Parigi lo reputarono sommo nel tragico, nel semi-serio, nel giulivo, nel buffonesco, attribuendogli la duplice e rara qualità di cantante attore. Coppola scrisse per esso Giovanna I, e Verdi lo volle a protagonista delle principali sue Opere.

A Varesi stesso si rivolge Verdi in una famosa lettera, nella quale spiega dettagliatamente come interpretare il personaggio di Macbeth.
Il celebre baritono poi legò il suo nome a due opere della trilogia popolare di Verdi: Rigoletto e Traviata, anche se nella parte di Giorgio Germont non ebbe, alla prima, un grande successo e anzi fu considerato concausa del tonfo all’esordio.

Lady Macbeth

BarbieriNini

Della terribile Marianna Barbieri-Nini ho già parlato più volte, ma giova riprenderne in questo caso i tratti salienti.
La Marianna Barbieri-Nini fu un soprano di fama pari solo alla sua bruttezza, poverina.
Giuseppina Strepponi, la seconda moglie di Verdi, la omaggiò di questo sintetico e viperino parere:

S’ella ha trovato marito non può disperar più nessuna di trovarlo.

Oddio, bellissima non era di certo, almeno a giudicare dalla documentazione disponibile, ma evidentemente era anche molto brava, tanto che fu la prima interprete di parti monstre come Lucrezia Contarini nei Due Foscari e della diabolica Lady nel Macbeth, sempre di Verdi, oltre che di numerose opere di Donizetti.

Francesco Regli, (autore del libro dal titolo più lungo del mondo e cioè Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860.) la gratifica, tra gli altri complimenti, di questo giudizio:

Acclamatissima cantante fiorentina padre era impiegato alla Corte del Gran Duca di Toscana Il Maestro Cav Luigi Barbieri iniziolla il primo alla musica ea andò gloriosa d avere ad auspici e precettori una Giuditta Pasta il Vaccaj Dopo il felicissimo esperimento di due Teatri nel carnovale 1839 40 andò alla Scala di Milano ove apparve sotto spoglie d Antonina nel Belisario L Impresa si era sbagliata scelta del suo dèbut e poi per la ragione di tenerla a suoi stipendi non doveva esporre sopra scene di tanta esigenza una giovane principiante Non è dunque a maravigliare se la Barbieri ebbe la peggio L Appalto intanto da cui dipendeva anzichè sorreggerla la disanimò costringendola persino a cantare alla Ca nobbiana fra un atto e l altro della Commedia Però la Barbieri non si è prostrata sotto il pondo della sua sventura e fatti valere i suoi diritti in tribunale ne usci vincitrice si sciolse da quel malaugurato contratto e incominciò una nuova èra sotto gli auspici di Alessandro Lanari Da quell epoca non sapremmo quale Teatro non la festeggiasse in Italia ed all Estero Vi fu un momento nella professione musicale che non si parlava che della Barbieri La sua stupenda voce i suoi arditi slanci il suo esteso repertorio la resero per moltissimi anni la delizia e il sostegno dei Pubblici e degli Impresarii L Accademia di Santa Cecilia di Roma il Liceo di Belle Arti e la Filarmonica di Firenze tante altre accreditate Accademie la fecero loro Socia e il Gran Duca di Toscana la creò sua Cantante di camera Il Maestro Mabellini scrisse per essa Il Conte di Lavagna Giuseppe Verdi due Foscari Giovanni Pacini il Lorenzino de Medici Non sappiamo perchè da qualche tempo la si lasci oziosa nella sua nativa Firenze mentre potrebbe ancora prestare alle scene utili servigi.

Il fatto è che Verdi stesso scrisse che la sua Lady Macbeth doveva essere brutta e cattiva, dotata di una voce aspra, soffocata, cupa. E quindi la Barbieri-Nini, evidentemente, in questi panni faceva – come si suol dire elegantemente – la sua porca figura (smile).
Insomma, vedremo come Anna Netrebko riuscirà a trasformarsi!

Per ora è tutto, un saluto a tutti, ci rileggiamo per la consueta recensione semiseria e fulminea.

Trionfo per Sergej Krylov nel secondo concerto della stagione autunnale al Teatro Verdi di Trieste.

Sergej Krylov e l’Orchestra del Teatro Verdi trionfano a Trieste in un emozionante concerto. Teatro esaurito per la seconda volta consecutiva. Il Covid-19 resta a casa (strasmile). Leggi il resto dell’articolo

Recensione espressa, scarna ed essenziale di Tosca di Giacomo Puccini alla Scala di Milano, ovvero Profondo russo.

Repetita iuvant.

Questa recensione è frutto della visione televisiva della prima scaligera, perciò attenzione: solo dal vivo uno spettacolo può essere valutato in modo completo, per ragioni tanto evidenti che non sto neanche a elencare. Detto questo, andiamo avanti.
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Il genio di Leonardo da Vinci trova un omaggio all’altezza della sua fama al Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste.

Ora, di questo lavoro ci sono millanta recite al Teatro Verdi e io, indisposto alla prima del 23 ottobre, quando decido di andare? Ovviamente all’unica replica in cui la protagonista si ammala. La sfiga! Certo più per lei che per me, ma insomma…(strasmile)

È sempre un piacere assistere alla nascita di una nuova opera d’Arte, soprattutto di questi tempi, in cui la cultura è messa ai margini del dibattito sociale a favore di risse pretestuose condotte con una volgarità di fondo che è l’antitesi del bello. Leggi il resto dell’articolo