Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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A Lubiana bellissima produzione di Evgenij Onegin, protagonista una compagnia artistica giovane e affiatata.

Il Teatro dell’opera di Lubiana ha una programmazione stringente, tipica delle capitali europee; nelle alzate di sipario sostanzialmente giornaliere si alternano opere, operette e balletti.
La produzione di Evgenij Onegin che ho seguito in questa occasione ha debuttato nel maggio del 2023 e, nonostante le tantissime serate, anche ieri il pubblico ha affollato il teatro.
Vinko Möderndorfer, artista poliedrico, firma la regia di questo allestimento che si può definire minimalista nell’ispirazione e al contempo più che sovrabbondante di idee pur rientrando nella categoria delle interpretazioni “fedeli al libretto”.
Le scenografie sono scarne ed essenziali, con qualche citazione magrittiana e un’attenzione di stampo cinematografico per le simmetrie e in generale per la distribuzione sul palco degli elementi scenici e dei protagonisti. Ogni atto è trattato con grande cura anche per ciò che riguarda la recitazione e le interazioni tra i cantanti, le controscene interessanti e non fini a se stesse perché aggiungono sostanza alla narrazione senza appesantirla inutilmente.
Allo stesso modo le coreografie – i balli, come noto, hanno un’importanza capitale nell’Onegin – sono trattate con misura ma senza rinunciare alla spettacolarità. I costumi, appropriati, sono spesso nello spettro delle cromie pastello e mantengono un’eleganza sobria. L’impianto luci è efficace e dà tridimensionalità allo spettacolo.
Nel complesso si tratta di una produzione riuscita anche perché sul podio il direttore, Marko Hribernik, va nella stessa direzione del regista e non c’è distonia tra la musica e quello che si vede sul palco.
L’Orchestra del teatro risponde benissimo soprattutto col suono, magnifico, degli archi, ma tutte le sezioni hanno brillato per pertinenza stilistica e omogeneità. Forse nei momenti più infuocati della meravigliosa partitura un po’ di calore ed enfasi in più non avrebbero guastato, ma il rischio sarebbe poi stato di spalmare di melassa le note di Ciajkovskij e quindi di commettere un atto mortale dal punto di vista artistico.
Eccellenti, come da tradizione locale, le prestazioni del Coro e del Corpo di ballo.
Per quanto riguarda la compagnia di cantanti, come spesso accennato tutti artisti “residenti, mi preme sottolineare in primis la buona resa vocale e attoriale di tutte le parti che si definiscono “minori”, che hanno contribuito a rendere efficaci i momenti di sommesso canto di conversazione e anche i limitati interventi solistici. In particolare ho apprezzato la bellissima resa di Janco Volčanšek il quale, pur con mezzi vocali non straripanti, ha creato un Gremin di spessore artistico notevole. Da evidenziare anche l’ottima prova di Emilia Rukavina, capace di dare uno spessore importante alla centrale figura di Olga che è involontaria scaturigine del fatale litigio tra Onegin e Lenskij.
Ma a far decollare la serata sono state le bellissime prestazioni del trio di protagonisti, tutti artisti preparati e giovani.
Mojca Bitenc è stata convincente nel tratteggiare la giovane Tatjana con partecipazione emotiva e intelligente uso del suo strumento vocale da soprano lirico. Nella famosa scena della lettera, lunghissima e onerosa, ha reso mirabilmente le ansie e le insicurezze giovanili del personaggio, ribadite poi anche nel finale ma con la consapevolezza della donna più matura.

Eccellente Domen Križaj nei panni di Onegin. Voce bella, penetrante, fraseggio accurato e acuti sicuri, il giovane baritono ha reso perfettamente tutte le sfaccettature di un personaggio tutt’altro che facile che vive la sua parabola di vita in modo tormentato sia nella spensieratezza sia nella disperazione.

Bravissimo anche Martin Sušnik, Lenskij commovente ed elegante, che può contare su una voce di timbro solare e bello, molto italiana se vogliamo, che sale con facilità agli acuti ed è omogenea in tutti i registri. Davvero centrata la sua interpretazione di una delle arie più famose dell’opera, quella “Kuda, kuda” che richiede sia una preparazione tecnica ineccepibile sia un’intensa propensione all’empatia.
Pubblico molto numeroso e attento, proveniente dai paesi limitrofi con una non esigua quota parte di turisti, che ha accolto tutta la compagnia artistica con applausi anche a scena aperta. Entusiasmo alle stelle per i protagonisti principali e per il direttore d’orchestra.

TatjanaMojca Bitenc
OlgaEmilia Rukavina
LenskijMartin Sušnik
OneginDomen Križaj
GreminJanco Volčanšek
FilipjevnaMirjam Kalin
LarinaSabina Gruden
ZareckiZoran Potocan
TriquetAndrej Debevec
PoveljnikRok Bavcar
  
DirettoreMarko Hribernik
  
RegistaVinko Mödernorfer
ScenografiaBranko Hojnik
CoreografiaRosana Hribar
CostumiAlan Hranitelj
Impianto luciPascal Mérat
  
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Lubiana
  
Corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Lubiana

Il Teatro dell’Opera di Lubiana apre la stagione con Werther di Jules Massenet.

Il Teatro dell’Opera di Lubiana ha aperto la stagione lirica con il Werther di Massenet, l’opera dello spleen.

Cosa s’intende con questo termine? Io direi che si possa individuare come una specie di disagio esistenziale ammantato di una malsana malinconia, aggravato da una propensione all’incapacità o forse addirittura alla volontà di negarsi una vita serena.
Altri potranno trovare parole diverse e citare Baudelaire e il Decadentismo, e avrebbero probabilmente ragione. La sostanza rimane quella, credo: siamo nelle sabbie mobili dell’infelicità esistenziale, terreno infido e pericoloso soprattutto se a complicare la situazione ci si mette un amore sfortunato e/o non corrisposto. Una tristezza, per certi versi, molto francese ma senza nasino all’insù, anzi, rinforzata da sana disperazione melodrammatica italiana, quella dei gesti estremi.

Lavoro di difficile decifrazione, Werther, che per collocazione temporale si può definire tardoromantico. Era il 1892 quando l’opera debuttò a Vienna (dopo essere stata rifiutata dagli impresari parigini per…manifesta tristezza!) e in quegli anni in Italia era già partita la carica culturale della Giovane Scuola che sventolava la bandiera del Verismo.

Le radici di Werther però risalgono a molti anni prima e cioè al celeberrimo romanzo epistolare I dolori del giovane Werther di Goethe, scritto nel 1774, considerato uno dei prodromi al movimento romantico.

Va detto però che rispetto alla fonte letteraria il libretto ammorbidisce abbastanza la vicenda, non tanto negli esiti quanto nelle atmosfere, che perdono parte di quella tinta desolata che caratterizza il romanzo. Si pensi alla scena finale dell’opera, in cui la presenza di Charlotte sembra – com’è stato osservato a ragione – quasi consolatoria in confronto alla terribile solitudine in cui avviene il suicidio del protagonista nel testo di Goethe.

Ed è proprio quest’ambiguità che, probabilmente, rende così affascinante l’opera di Massenet, che si dipana in equilibrio precario tra atmosfere tipicamente francesi screziate da slanci umorali da melodramma italiano. E certo, ci sono lo spleen e il mal de vivre che ammantano una vicenda tutto sommato banale, in cui si ritrovano alcuni dei tòpoi del melodramma – direi della drammaturgia teatrale – più classico: il peso dell’amore materno, il sentimento non corrisposto, le incaute promesse, l’incomunicabilità e il finale tragico.

Oggi Werther è uno dei simboli dell’opera francese e perciò, a distanza di tanti anni, possiamo affermare con certezza che il famoso impresario Léon Carvalho – deus ex machina dell’Opéra – Comique – quando cassò il Werther perché “vicenda triste, priva d’interesse e condannata a priori a scomparire” prese una cantonata memorabile.

La regia, affidata a Luis Ernesto Doňas, è di stampo tradizionale sotto ogni punto di vista ma si apprezza il lavoro di cesello fatto sulle interazioni tra i protagonisti principali e non solo. La presenza dei ragazzini – bravissimi peraltro – all’inizio dell’opera risulta un po’ troppo invasiva perché distrae dalla musica ma nel complesso l’allestimento è equilibrato e scorre felicemente, anche perché è previsto un solo intervallo e i cambi scena sono contenuti in tempi ragionevoli. Ingenua, ma d’effetto l’entrata di Werther dalla platea.
Le scenografie di Chiara La Ferlita, impreziosite dal suggestivo impianto luci di Camilla Piccioni, sono improntate a una scabra e funzionale semplicità ma al contempo ricche di particolari che contribuiscono alla comprensione della narrazione. I costumi di Elisa Cobello sono allineati al resto: pertinenti ed eleganti nella loro semplicità.
In linea con la regia mi è sembrata la direzione di Ayrton Desimpelaere, circostanza che è sempre un ottimo viatico per la buona riuscita di una rappresentazione operistica.
Il giovane direttore non indugia troppo in sentimentalismi zuccherosi e privilegia invece una virile tendresse mettendo in primo piano la narrazione teatrale, sottolineando i cromatismi della partitura ma sempre con colori tenui, in modo che le pennellate di suono più enfatico nei momenti più marcatamente drammatici spicchino vividamente. Le agogiche sono stringenti ma non precipitose o superficiali sin dall’Ouverture, grande affresco della passione tumultuosa del protagonista. La struttura quasi cameristica (il Clair de Lune che chiude il primo atto, per esempio) di certe scene viene esaltata anche grazie all’ottima prova dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Lubiana, eccellente in particolare negli archi e nei legni. Buona anche la prestazione del coro e dei ragazzi del coro di voci bianche.

La compagnia di canto è stata all’altezza di un’opera difficile che, giustamente, è definita “da tenore” senza togliere nulla agli altri protagonisti.
In questo senso è stato molto bravo Aljaž Farasin, credo all’esordio nella parte, il quale dopo un inizio cauto ha tratteggiato un ottimo Werther sia dal lato vocale sia da quello, altrettanto importante, del coinvolgimento scenico e della recitazione. Mobile, tormentato, dinamico ed efficace Farasin ha colto in pieno il mood dello sfortunato poeta e alla fine ha ricevuto un meritatissimo trionfo che ha accolto con evidente emozione.
Nei panni di Charlotte è stata eccellente, una volta di più, Nuška Drašček, mezzosoprano che per me è un enigma, nel senso che mi chiedo sempre come mai non canti nei teatri di tutto il mondo perché è una cantante/attrice formidabile. Anche ieri ne ha dato prova con un’altra prestazione maiuscola palesando con il fraseggio, la voce contraltile di bellissimo colore e il carisma della grande artista tutte le inquietudini del personaggio.
Convincente il rendimento di Jože Vidic, Albert morbido nell’emissione ed efficace nel tratteggiare un personaggio sfuggente, ferito nell’orgoglio ma al contempo più autorevole che autoritario.
Bene anche Nina Dominko, dalla voce cristallina e educata di soprano leggero, incisiva nel caratterizzare una Sophie fresca e giovane, dinamica e accorata in scena senza risultare petulante o manierata.
Credibile e centrata anche l’interpretazione un po’ crepuscolare di Saša Čano nei panni di un tenerissimo Le Bailli.
Buone le prove degli artisti che hanno interpretato le parti di contorno, che sono sempre indispensabili per la buona riuscita di una serata.
Ricordo che tutta la compagnia di cantanti è composta da artisti residenti perché credo che sia un valore aggiunto notevole per capire che si può fare l’opera, molto bene, senza i grandi nomi dello star system.
Il piccolo e bellissimo teatro era pieno e il folto pubblico ha decretato un trionfo straordinario a tutta la compagnia artistica, con l’applausometro fuori scala per Aljaž Farasin, Nuška Drašček e il direttore Ayrton Desimpelaere.

WertherAljaž Farasin
CharlotteNuška Drašček
Le BailliSaša Čano
SophieNina Dominko
AlbertJože Vidic
SchmidtMatej Vovk
JohannMarko Ferjancic
BrühlmannMatej Velikonja
KätchenInez Osina Rues
  
DirettoreAyrton Desimpelaere
  
Direttore del coroZeljka Ulcnik Remic
  
RegiaLuis Ernesto Doňas
SceneChiara La Ferlita
LuciCamilla Piccioni
CostumiElisa Cobello
DrammaturgiaTatjana Azman
  
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Lubiana

Herbert Blomstedt col suo carisma ipnotizza il pubblico e chiude felicemente il Festival di Lubiana con la Gewandhaus di Lipsia

Si è concluso ieri il 71° Festival di Lubiana, dopo una cavalcata di due mesi in cui tutta la capitale slovena è stata addobbata a festa dalla presenza della musica che è risuonata ovunque: nelle strade, nelle chiese e ovviamente nei luoghi più deputati all’ascolto come le sale per i concerti.
L’ultimo appuntamento prevedeva una delle più grandi e prestigiose orchestre europee, la Gewandhaus di Lipsia guidata da Herbert Blomstedt.
Sarà scontato, ma è impossibile non cominciare questa cronaca proprio dal direttore svedese perché – di là del fatto anagrafico, a 96 anni sul podio! – la sua presenza è stata artisticamente determinante per la serata.
Il gesto è asciutto e misurato, ma lo è sempre stato, non è una questione di età bensì di approccio alla “professione” di direttore d’orchestra.
E infatti Blomstedt coglie perfettamente “l’inattualità” – riferita al contesto musicale del tempo – della Sinfonia n.5 in si bemolle maggiore di Franz Schubert il quale, mentre Beethoven dettava l’agenda musicale con i suoi meravigliosi turgori romantici, con questa sinfonia fa un passo indietro nel tempo e torna a Mozart e Haydn sia nell’organico orchestrale, ridotto, sia nell’ispirazione quasi cameristica.
Ne esce una pagina musicale in cui la vaporosa leggerezza di fondo è ulteriormente ingentilita da un gesto nobile e contenuto, da dinamiche moderate ma efficacissime, che esaltano la sottile eleganza degli archi. Al contempo le agogiche, spedite e briose ma mai frettolose e arrembanti, danno alla narrazione quella felice fluidità che fa esaurire in un lampo l’esecuzione tanto che, alla fine, ho pensato dentro di me “Ne vorrei ancora!”.
Sostenuto dal Konzertmeister Frank-Michael Erben, Blomstedt si è goduto l’uragano di sinceri applausi che gli ha tributato il pubblico, trovando anche il tempo di omaggiare tutte le sezioni dell’orchestra.
Nelle sue vesti di direttore nell’arco della lunghissima carriera Blomstedt è stato anche un grande divulgatore, nel senso che ha contribuito in modo decisivo alla diffusione della musica della scuola scandinava. A lui si deve la popolarità di Jean Sibelius, per esempio, che non era certo sconosciuto ma sicuramente poco eseguito a suo tempo.
Ieri ha proposto due pagine di un altro compositore non esattamente conosciutissimo, lo svedese Franz Adolf Berwald il quale, dopo una vita in cui esercitò anche da…ortopedico, ha trovato considerazione artistica postuma.
La sua è una musica in cui le influenze romantiche sono evidenti – soprattutto nel primo breve brano proposto, “Ricordi delle Alpi norvegesi” – ma anche alcune peculiarità come nella Sinfonia n.3 in do maggiore che ha chiuso la serata.
Interessante, nella fattispecie, come il compositore in un contesto fiero riesca a ritagliare momenti improntati a una sinuosa inquietudine soprattutto nei primi due movimenti (Allegro fuocoso e Adagio).
Mi pare ridondante elogiare un’orchestra come la Gewandahaus ma, dal momento che qualche parola bisogna spenderla mi limiterò ad affermare che è stata semplicemente perfetta perché al magistero tecnico unisce anche un calore e una partecipazione emotiva non comune, soprattutto quando queste famose compagini vanno in tournée. E, probabilmente, anche questo è un merito di Herbert Blomstedt.
Ovviamente il pubblico, ipnotizzato dal magnetismo dello splendido quasi centenario sul podio, ha tributato alla serata un trionfo grandioso, meritato e, parere mio, propedeutico e ben augurante per la prossima edizione di questa bellissima kermesse che è il Festival di Lubiana che spero di poter seguire con assiduità anche l’anno prossimo.

Franz SchubertSinfonia n.5 in si bemolle maggiore
Franz BerwaldRicordi delle Alpi norvegesi
Franz BerwaldSinfonia n.3 in do maggiore
  
DirettoreHerbert Blomstedt
  
Gewandhaus Orchestra di Lipsia



Recital di Ludovic Tézier e Jonathan Tetelman a Lubiana. Grande successo per tutti, compreso Marco Boemi alla testa della Filarmonica Slovena

Questa estate sarà ricordata a lungo in Slovenia per le precipitazioni che definire abbondanti è davvero sottile eufemismo. Oltre al territorio devastato dalle inondazioni ne ha risentito anche la programmazione del Festival, perché alcuni eventi sono stati spostati last minute, per fortuna senza recare troppi disagi.
È stato il caso del concerto di ieri sera, inizialmente previsto nel comprensorio di Križanke di cui ho accennato qui e spostato nella sede – prestigiosissima per storia e tradizione esecutiva – della Filarmonica slovena.
I protagonisti sono stati il baritono Ludovic Tézier e il tenore Jonathan Tetelman, con Marco Boemi sul podio dell’orchestra di casa.
Programma, come sempre in queste occasioni, piuttosto variegato e cucito su misura per esaltare i pregi dei solisti. Va spesa però una parola per l’ottimo Marco Boemi, che ha ben guidato un’orchestra brillante e ha saputo dare comunque un’impronta personale alla serata; circostanza tutt’altro che scontata in codeste esibizioni, che vivono delle prestazioni dei solisti e in cui direttore e orchestra sono quasi ai margini dell’interesse del pubblico.
Boemi ha dato personalità e nerbo alle pagine orchestrali che trovate in locandina e particolarmente riuscita è stata l’esecuzione della Danza delle ore dalla Gioconda di Ponchielli, che ha esaltato gli spettatori. Molto ben interpretato anche il Baccanale dal Samson di Saint-Saëns, mentre più anonima – ma la musica è comunque adrenalinica – è sembrata l’Ouverture dalla Forza verdiana. Corretta, ma un po’ spenta, è sembrata l’esecuzione della Méditation dalla Thaïs interpretata dal solista Miran Kolbl.
 L’accompagnamento ai cantanti è sembrato accurato ma, almeno così è parso, meno appiattito sulle esigenze dei solisti di quanto lo sia di solito in questi recital.
Per quanto riguarda i protagonisti, Ludovic Tézier si è confermato quel grande artista acclamato nei maggiori teatri del mondo. Disinvolto in scena, conta su di una voce di timbro scuro ma non tetro che modula con grande perizia tecnica. Eccellente la tecnica di respirazione, che gli consente legato ed emissione d’antan. Non sono un fan di certi riconoscimenti, ma indubbiamente il Premio Cappuccilli è andato in buone mani. Nello specifico, ho gradito molto la sua interpretazione della grande aria Nemico della Patria da Andrea Chénier.
Jonathan Tetelman è il classico tenore emergente, ancora poco noto in Italia, ma presente all’estero in produzioni prestigiose; è di un mese fa il debutto a Salisburgo nei panni di Macduff.
La voce è di timbro bello e solare, gli acuti esibiti con baldanza e il registro centrale rigogliosissimo. La sensazione è che l’artista tenda a essere un po’ superficiale nelle sue interpretazioni e che sia più a proprio agio in un canto muscolare che nelle sottigliezze psicologiche, ma un Recital non è sicuramente la sede adatta per una valutazione completa. In ogni caso, grazie anche all’estrosa comunicatività e alla bella presenza, è stato applauditissimo. Credo non sia un caso che la sua interpretazione più riuscita sia stata l’aria di Turiddu dalla Cavalleria rusticana di Mascagni, mentre nell’iniziale duetto dai Pêcheurs de perles è sembrato un po’ fuori parte.
Alla fine successo al calor bianco per tutti e due bis eseguiti a furor di popolo: il duetto tra Marcello e Rodolfo dalla Bohème di Puccini e la riproposta del duetto dalla Carmen già prevista dal programma.

Georges BizetAu fond du temple saint da Les Pêcheurs de perles
Jules MassenetMéditation da Thaïs
Jules MassenetVoilà danc la terrible cité da Thaïs
Jules MassenetPourquoi me réveller da Werther
Georges BizetVotre toast, je peux vous le rendre da Carmen
Camille Saint-SaënsBaccanale da Samson et Dalila
Georges BizetJe suis Escamillo da Carmen
Amilcare PonchielliLa danza delle ore da Gioconda
Pietro MascagniMamma, quel vino è generoso da Cavalleria rusticana
Umberto GiordanoNemico della Patria da Andrea Chénier
Giuseppe VerdiOuverture da La forza del destino
Giuseppe VerdiO figli, o figli miei da Macbeth
Giuseppe VerdiDio, che nell’alma infondere da Don Carlos
  
BaritonoLudovic Tézier
TenoreJonathan Tetelman
  
DirettoreMarco Boemi
  
ViolinoMiran Kolbl
  
Orchestra Filarmonica Slovena

A Lubiana è il tempo delle grandi orchestre. La Royal Concertgebouw e Iván Fischer esaltano la Settima di Mahler

Al Festival di Lubiana è tradizione invitare grandi orchestre e anche questa edizione non fa eccezione.
Ieri è stata la volta della Royal Concertgebouw di Amsterdam diretta da Iván Fischer e nei prossimi giorni toccherà alla Boston Symphony Orchestra (Andris Nelsons) e per il concerto di chiusura alla Gewandhaus di Lipsia con il grande vecchio Herbert Blomstetd.
La Sinfonia n.7 in mi minore di Mahler è una pagina musicale impressionante che rispecchia in pieno la lacerata e controversa personalità del compositore che vi lavorò incessantemente e con furore – come riporta la moglie Alma –  quasi sino alla prima, che si svolse a Praga nel 1908.
Strutturata in cinque movimenti che comprendono due Nachtmusiken, il brano ha carattere mutevole ma persino sovrabbondante di effetti coloristici in cui convivono felicemente marce e atmosfere eteree. L’organico orchestrale è quello proverbialmente ampio di Mahler, particolarmente ricco nelle percussioni (timpani, piatti, grancassa, glockenspiel, triangolo, frusta, campanacci e campana) e prevede anche la chitarra e il mandolino nella seconda Nachtmusik.
Iván Fischer ha scelto un’interpretazione che definirei barbarica e rutilante, addirittura brutale in certi momenti, ma che ha restituito in pieno l’espressività e il contrasto di sentimenti di cui la musica è ambasciatrice. Nonostante ciò, il controllo delle dinamiche non gli è mai sfuggito di mano. In questo modo le poche oasi più serene della sinfonia sono emerse in modo prepotente e hanno avuto un nitore spirituale ancora più rilevante. Le agogiche tese, agitate, hanno innervato di grande tensione tutta l’esecuzione.
L’orchestra ha risposto come era lecito aspettarsi dal suo rango e cioè in maniera strepitosa in tutte le sezioni.
Formidabili gli archi gravi con gli otto contrabbassi che hanno fatto un lavoro incredibile, dialogando e al contempo sostenendo con vigore i continui colloqui con i legni. Lucenti e precisi gli ottoni, con i corni in grande evidenza. Le percussioni hanno restituito quelle sfumature agresti che profumavano di una ruralità antica e, probabilmente, ormai perduta.
Nel Rondò finale, che è una specie di sintesi di buona parte dell’inventiva mahleriana, l’emozione suscitata dal fluire della musica è stata rafforzata proprio dalla straordinaria coesione della compagine. Eccellente, tra gli altri, la prestazione della Konzertmeister.
il pubblico, numeroso ma forse meno folto del solito a causa delle proibitive condizioni atmosferiche, ha tributato un quarto d’ora di acclamazioni e applausi a direttore e orchestra.

Gustav MahlerSinfonia n.7 in mi minore
  
DirettoreIván Fischer
Royal Concertgebouw Orchestra



Al Festival di Lubiana i concerti si susseguono, anche in chiesa!

violinist Lana Trotovšek seen here at the Swiss Church Covent Garden, 9th December 2020. Commisioned by The Greenwich Trio

Ho avuto già modo di scrivere che il Festival di Lubiana coinvolge tutto il territorio della capitale slovena.
Dopo la serata Mahler in Lubiana, ieri sono tornato nella deliziosa Chiesa di Nostra Signora della Misericordia per un altro concerto intrigante, che prevedeva un mix di pagine musicali di compositori celeberrimi dell’Ottocento (Beethoven e Brahms) e altri due brani del Novecento firmati da autori – almeno a me – meno noti (Hansen e Antheil). Anche in questa occasione il concerto era esaurito, a conferma del seguito che ha il Festival e della felice scelta della programmazione effettuata da Darko Brlek, patron della manifestazione.
Di Thorvald Hansen, artista danese eclettico e trombettista, è stata eseguita la composizione estrema: la Sonata per pianoforte e tromba op. 18 scritta nel 1915, anno della morte.
Il brano è strutturato in tre brevi movimenti in cui la tromba, affidata al solista Rheinhold Friedrich, è sempre protagonista col suo suono lucente e limpido. Nel dialogo col pianoforte, suonato dalla compagna Eriko Takezava, gli impasti sonori sono stati suggestivi ma leggermente penalizzati dall’acustica della sala, che per la sua struttura tende a far riverberare entrambi gli strumenti. Bello, in particolare, l’Andante molto espressivo del secondo movimento.
A seguire la Sonata per pianoforte in do minore nr. 8 di Beethoven (Patetica), interpretata da Eriko Takezava in modo convincente grazie a un approccio tutt’altro che sdolcinato e, anzi, in alcuni passaggi sin troppo rude. Il famoso primo accordo, che dà la tinta al brano, è risuonato tellurico. Nei due movimenti successivi, meno tempestosi e improntati a un sottile lirismo, la solista è stata invece impeccabile sia nel tratteggiare la melodia sia nel dipanare l’esuberante vitalità che chiude il brano.
La prima parte della serata si è conclusa con l’esecuzione della Sonata per tromba e pianoforte di George Antheil, poliedrico compositore americano che scrisse anche famose -negli anni Venti del secolo scorso – colonne sonore per film.
Anche in questo caso l’esecuzione è stata affidata al duo Friedrich/Takezava che ne hanno dato un’interpretazione brillante e adrenalinica grazie al virtuosismo del trombettista, in un brano di sapore jazzistico che sprigiona brio ed energia anche grazie all’uso, nel secondo movimento, della sordina.
Applausi scroscianti per tutti alla fine della prima parte e bis – che francamente non ho riconosciuto – di Rheinhold Friedrich.
Dopo il breve intervallo è stato eseguito il pezzo forte della serata e cioè il Trio in mi bemolle maggiore per violino, corno e pianoforte op. 40 di Brahms, interpretato da Lana Trotovšek (violino), Beata Ilona Barcza (pianoforte) e Andrej Žust (corno).
Pagina musicale di gusto tipicamente romantico, il Trio si caratterizza per la presenza inusuale del corno, il cui suono è però quasi un simbolo del Romanticismo stesso (penso all’Ouverture da Der Freischütz di Weber).
Anche in questo caso devo rilevare come l’acustica della chiesa non abbia favorito l’equilibrio dell’esecuzione, perché il violino – peraltro brillantemente suonato da Lana Trotovšek – spesso è stato coperto dagli altri strumenti o perlomeno così era dal mio posto.
Il brano vive di forti contrasti, più trattenuti e sottotraccia che espliciti, che esprimono un’alternanza di mutevoli sentimenti. Si accavallano nostalgiche melodie che richiamano a una malinconia naturalistica e improvvise aperture se non spensierate, almeno più vivaci. La circostanza è palese nei due movimenti finali, in cui la transizione tra l’Adagio mesto e l’Allegro con brio, entrambi innervati da una forte e vitale pulsione ritmica, è sembrata paradigmatica dell’ispirazione brahmsiana.
L’incedere della musica dà modo a tutti i solisti di esibire con sobrietà il proprio virtuosismo.
Successo pieno, con il pubblico generoso di applausi per tutti.

ViolinoLana Trotovšek
CornoAndrej Žust
TrombaRheinhold Friedrich
PianoforteEriko Takezava
PianoforteBeata Ilona Barcza
  
Thorvald HansenSonata per pianoforte e tromba op. 18
George AntheilSonata per tromba e pianoforte
Ludwig van BeethovenSonata per pianoforte in do minore nr. 8
Johannes BrahmsTrio in mi bemolle maggiore per violino, corno e pianoforte op. 40




Festival di Lubiana: Sondra Radvanovski e Piotr Beczała in concerto

Sondra Sondra Radvanovsky. Canadian Opera Company in Toronto , Canada.

Il Festival di Lubiana scorre senza interruzioni come la Ljubljanica, il fiume che attraversa la capitale slovena che è una delle più gettonate attrazioni turistiche della città perché lungo il suo percorso, tra anse e ponti,  sono tantissimi i luoghi suggestivi.
In questo fluire lento e affascinante, i concerti al Cankarjev dom e non solo si susseguono: ieri è stata la volta dell’atteso Recital di Sondra Radvanovsky e Piotr Beczała con l’Orchestra Filarmonica Slovena diretta da Gianluca Marcianò.
Non mi è sembrato che la serata avesse un tema particolare da seguire, visto che sono state fatte coabitare pagine musicali di Puccini – nella prima parte – , Giordano, Mascagni e Dvořák. Del resto, com’è giusto, questi concerti servono a celebrare i cantanti che vi partecipano cucendosi addosso arie e duetti in cui possono esprimere il loro meglio.
L’Orchestra Filarmonica slovena, che è una compagine diversa dall’Orchestra Sinfonica del concerto della Netrebko, è sembrata una volta di più in eccellente forma in tutte le sezioni.
Gianluca Marcianò mi è parso più direttore da emozioni forti e robuste che da ricercate finezze; alcune sonorità telluriche potrebbero aver incrinato le basi del Cankarjev dom, ma è anche vero che nell’accompagnamento ai cantanti si è ben disimpegnato, soprattutto – a mio gusto – nei duetti da Tosca e Rusalka. Divertente poi il siparietto nel finale dell’Andrea Chènier nel quale ha “interpretato”, peraltro con voce più da tenore che da basso, il carceriere Schmidt.
Sondra Radvanovsky è stata all’altezza della sua fama di superstar e ha confermato tutti i pregi che le sono universalmente riconosciuti: volume impressionante, registro centrale rigoglioso, acuti folgoranti e gravi impreziositi da sfumature sombre che accrescono il fascino di una voce singolare nel timbro e che sembra aver anche superato, almeno in buona parte, il vibrato stretto che all’inizio della carriera era piuttosto invasivo. La tecnica di respirazione le consente messe di voce rare da ascoltare, cavata sicura e legato armonioso. L’unica pecca – a mio parere – è la dizione che in alcuni momenti è ancora nebulosa mentre la presenza scenica è quella dell’artista di rango abituata ai grandi palcoscenici internazionali.
Il soprano è sembrata convincente nella sua caratterizzazione di Tosca, una Floria più orientata verso una gelosia sbarazzina e giovane, scevra dai furenti eccessi matronali che una tradizione morchiosa ha cucito addosso alla protagonista pucciniana. Molto buona anche l’interpretazione della fiabesca Rusalka di cui ha riproposto, una volta di più, la celestiale Invocazione alla luna. Ottime anche le esecuzioni di Vissi d’arte e La mamma morta.
Piotr Beczała è un altro di quei tenori che in Italia si vedono poco o nulla per motivi sconosciuti ai più – ma quest’estate è prevista la sua presenza all’Arena di Verona – e che invece meriterebbe più attenzione dai nostri direttori artistici.
Negli anni la voce si è irrobustita e ora è quella di un lirico pieno, anche se l’artista continua a frequentare parti come Faust e il Duca. Ieri è stato all’altezza della Radvanovsky, anche se nei duetti il soprano lo copriva. Non è certo un problema. La voce è di bel timbro solare, mediterraneo e gli acuti penetranti. Ottime la dizione e la pronuncia; forse le sue interpretazioni difettano di personalità, ma non certo di generosità e slancio. Io gli imputo, si fa per dire, solo una certa pigrizia nell’accontentarsi di esecuzioni che puntano più all’effetto muscolare ed esteriore che all’approfondimento psicologico del personaggio, ma è anche vero che non è certo un recital la sede più adatta a queste speculazioni.
Nello specifico, ho trovato in linea con la tradizione il suo Cavaradossi, interessante e più sfumato il Principe da Rusalka, ardimentoso il suo Chènier.
Nel programma, che trovate in locandina, erano previsti anche duetti che sono stati assai gustosi per pertinenza stilistica e vocalità di entrambi i protagonisti che hanno palesato una buona intesa reciproca. Nello Chènier c’è stata una piccola incomprensione tra Marciano e Beczała su un attacco, ma nulla di particolarmente rilevante.
Bis con l’atmosfera decadente dell’operetta, adatto a una città pienamente mitteleuropea: il duetto/Valzer  Lippen schweigen (Tace il labbro) da l’immortale Die lustige Witwe (La vedova allegra) di Franz Lehár.
Successo al calor bianco per tutti, con il pubblico – forse meno numeroso di quanto mi aspettassi – che è stato prodigo di applausi tra un brano e l’altro e si è scatenato con ovazioni alla fine del concerto.

SopranoSondra Radvanovski
TenorePiotr Beczala
  
DirettoreGianluca Marcianò
  
Giacomo PucciniPreludio da Edgar
Giacomo PucciniSola, perduta, abbandonata da Manon Lescaut
Giacomo PucciniLa Tregenda da Le Villi
Giacomo PucciniRecondita armonia da Tosca
Giacomo PucciniMario, Mario, Mario da Tosca
Giacomo PucciniE lucevan le stelle da Tosca
Pietro MascagniIntermezzo da Guglielmo Ratcliff
Antonin DvorakAria del Principe da Ruslaka
Antonin DvorakInvocazione alla Luna da Ruslaka
Antonin DvorakDuetto da Rusalka
Umberto GiordanoPreludio da Siberia
Umberto GiordanoLa mamma morta da Andrea Chènier
Umberto GiordanoCome un bel dì di maggio da Andrea Chènier
Umberto GiordanoVicino a te s’acqueta duetto da Andrea Chènier
  
Orchestra Filarmonica Slovena

Trionfo del Teatro La Fenice in trasferta al Festival di Lubiana. Madama Butterfly di Puccini raccoglie un grandioso successo dal pubblico.

Con uno sforzo organizzativo che immagino tutt’altro che lieve da entrambe le parti, il Festival di Lubiana ospita per due serate – qui si dà conto della prima – la Madama Butterfly di Puccini nell’allestimento di Mariko Mori e Àlex Rigola in collaborazione con la Biennale di Venezia, ripreso da Cecilia Ligorio.
L’ambientazione è di chiara matrice minimalista e dell’immagine del Giappone oleografico e, forse, oggi un po’ stantia, rimane ben poco.
La regista immagina uno spazio anodino, in cui il bianco è screziato da gentili cromie pastello per i costumi che richiamano il teatro greco. L’interazione tra i personaggi, chiaramente ispirata al Teatro del Nō e del Kabuki per le coreografie, è anch’essa ridotta a tavolino: ne esce uno spettacolo asciutto, teso, spesso emozionante che consente di concentrarsi sulla nota vicenda di Cio-Cio-San, tra le più strazianti dell’intero catalogo operistico. A dominare la scena c’è una struttura simile al simbolo matematico dell’Infinito, una specie di numero otto che si sviluppa in orizzontale.
L’unico punto debole dell’allestimento mi è sembrato la lunga proiezione che accompagna l’inizio del terzo atto ma, probabilmente, il motivo è dovuto al fatto che la tecnologia ci ha abituati a tutto. Non per caso me lo ricordavo più suggestivo al debutto, ormai dieci anni fa. Discutibile l’entrata del Coro – ottima l’esecuzione del famoso coro a bocca chiusadal secondo balcone della magnifica sala del Cankarjev (Alla Fenice avveniva, altrettanto discutibilmente, dalla platea) perché distoglie l’attenzione da uno dei momenti più alti della musica lirica in toto. Le luci, di Albert Faura, sono del tutto allineate con il resto dello spettacolo, tenui ma efficaci.
Lo dico sempre, uno spettacolo per funzionare deve trovare corrispondenza di intenti e sinergia tra regia e direzione e Daniele Callegari, che di Puccini è eccellente interprete, ne ha dato prova evidente assecondato da un’Orchestra della Fenice in gran serata.
Callegari spazza via ogni sospetto di puccinismo, il che significa rendere la musica di Puccini per quello che è e cioè proiettata nel Novecento nella sua quasi crudele essenzialità. Il direttore mantiene un suono trasparente, limpido, e in ogni caso dal passo teatrale incalzante e spedito senza appesantire la narrazione con effetti d’antan come rallentando letargici e deflagrazioni nucleari di suono che sono spesso causa di incomprensioni del genio lucchese. Al contempo, l’accompagnamento ai cantanti è affettuoso e partecipe, propedeutico alla caratterizzazione dei personaggi.
A proposito della compagnia di canto, nel lodare tutti i coprotagonisti che trovate in locandina, mi soffermo da subito sulle eccellenti prestazioni di Manuela Custer, ormai Suzuki di riferimento storico sia dal lato vocale sia dal lato scenico e sull’altrettanto efficace Vladimir Stoyanov che cesella con classe una parte assai ambigua e difficile dal lato emozionale con voce adatta e gestualità contenuta ma eloquente.
Buono anche il contributo di William Corrò (Yamadori), Cristiano Olivieri (Goro) e Cristian Saitta (Zio Bonzo).
Vincenzo Costanzo, nonostante la giovane età,  è un veterano nella parte di Pinkerton che conosce a menadito. La sua è stata una buona recita ma in alcuni momenti ha anche mostrato un certo affaticamento soprattutto negli acuti, che gli sono usciti non perfettamente a fuoco seppure senza incidenti di sorta. Ha convinto in pieno, invece, nel fraseggio e per l’adeguata presenza scenica.
Monica Zanettin è stata la trionfatrice della serata e lo ha meritato, per quanto chi scrive abbia notato qualche lieve sbavatura nella sua buona prova. Ottima nel canto di conversazione – fondamentale in Puccini – ha risolto con bravura anche attoriale il problema principale della parte: la crescita psicologica del personaggio che da bambina diventa donna e poi madre disperata e moglie abbandonata. Anche nel suo caso ho notato qualche sporadico appannamento vocale e ho saputo dall’ufficio stampa del Festival che per la replica di questa sera sarà sostituita da Rebeka Lokar. Ma forse il miglior complimento a Zanettin è venuto dall’amica che mi ha accompagnato in teatro: alla fine piangeva come una fontana.
Il pubblico, foltissimo, ha tributato allo spettacolo un enorme successo, chiamando al proscenio più volte tutti i protagonisti. Come dicevo applausi per tutti e trionfo per Monica Zanettin e Daniele Callegari.
Chiosa finale: come nella serata dedicata a Verdi è bello vedere che la musica italiana e, in questo caso, istituzioni culturali italianissime siano i migliori ambasciatori del nostro Paese all’estero.

io-Cio-SanMonica Zanettin
PinkertonVincenzo Costanzo
SuzukiManuela Custer
SharplessVladimir Stoyanov
GoroCristiano Olivieri
YamadoriWilliam Corrò
Zio BonzoCristian Saitta
YakusidéEnrico Masiero
Il Commissario imperialeEmanuele Pedrini
Ufficiale del registroMassimo Squizzato
Madre di Cio-Cio-SanMarta Codognola
La ziaFrancesca Poropat
La cuginaSabrina Mazzamuto
  
DirettoreDaniele Callegari
  
Direttore del coroAlfonso Caiani
  
RegiaÀlex Rigola
Scene e costumiMariko Mori
LuciAlbert Faura
Regia ripresa daCecilia Ligorio
  
  
BalleriniInma Asensio, Elia Lopez Gonzales, Chira Vittadello
  
  
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice di Venezia
  



Mahler e Schönberg in versione cameristica a Lubiana convincono anche in…chiesa!

Come ho scritto nella recensione di ieri, il Festival di Lubiana appartiene a tutto il territorio della capitale slovena in cui abbondano, tra le altre meraviglie, numerose chiese.
E proprio nel comprensorio di Križanke, uno dei principali monumenti architettonici di Lubiana, è allocata la Chiesa di Nostra Signora della Misericordia dove spesso si tengono concerti per orchestre da camera e altro.
È un edificio piccolino, ricco di storia, che può contenere circa duecento persone, che anche in quest’occasione hanno affollato il concerto inserito nella manifestazione.
Le pagine musicali previste dal programma erano due: il celeberrimo sestetto per archi Verklärte Nacht di Arnold Schönberg e l’arrangiamento dello stesso compositore di Das Lied von der Erde di Gustav Mahler nella versione per tenore e baritono.
Schönberg, prima di diventare la bandiera dell’Espressionismo musicale ha percorso anche strade più ortodosse ed è bene diffondere e conoscere anche le radici che hanno poi dato vita al suo rivoluzionario albero compositivo.
L’esecuzione è stata affidata all’Ensemble Dissonance di cui fanno parte professori d’orchestra che suonano abitualmente con le maggiori compagini slovene ed era diretto, ieri, da Jonathan Stockhammer. I solisti erano due giovani cantanti, il tenore austriaco Paul Schweinester e il baritono sloveno Jaka Mihelač.
Prima dell’inizio è stata ricordata Brigiti Pavlič, scomparsa prematuramente quest’anno in gennaio e a lungo attiva a Lubiana e Maribor come dirigente teatrale.
Ispirata da una poesia di Richard Dehmel che Schönberg riteneva indispensabile avere presente durante l’ascolto e che per me contiene in nuce l’esile trama della successiva Erwartung, Verklärte Nacht è una pagina musicale in cui echeggiano reminiscenze wagneriane e non solo, dove i cromatismi degli archi sembrano rincorrersi e al contempo allontanarsi creando un’atmosfera suggestiva e ipnotica.
Molto bravi tutti gli interpreti tra i quali –  senza togliere nulla agli altri –  è spiccato il contributo del violino di Kana Matsui e della viola di Roberto Papi.
Dopo un brevissimo intervallo è stata la volta dell’esecuzione di Das Lied von der Erde che, dal mio punto di vista, è stata più problematica. Non per particolari mende degli interpreti, anzi, ma perché l’acustica dell’ambiente ha un po’ inficiato l’equilibrio musicale.
Almeno dalla mia posizione le voci dei cantanti – che magari non saranno state grandi, ma certo sono parse espressive – sono state spesso coperte dai legni che risuonavano con grande vigore, mentre per esempio il pianoforte e l’harmonium si percepivano appena. Nonostante ciò è stata una bella interpretazione perché, pur nell’arrangiamento forzatamente minimalista, il senso del ciclo della vita e della morte, dell’alternarsi delle stagioni e delle tante domande prive di risposta che Mahler – il quale morì senza ascoltare il suo lavoro – lascia come briciole sullo spartito è stato pienamente sviscerato.
La Marcia Funebre in particolare, è sembrata quasi guadagnare in asciuttezza e drammaticità dalla riduzione cameristica.
I due solisti – a mio gusto la versione è più efficace con un contralto, ma non è certo un problema – hanno cantato bene. Paul Schweinester è tenore di bella voce lirico leggera, partecipe e preciso, e allo stesso modo il baritono Jaka Mihelač è sembrato cosciente che nel Lied l’accento, lo scavo della parola, la dizione e la pertinenza stilistica sono fondamentali.
Alla fine successo pieno, con numerose chiamate all’…altare per tutta la compagnia artistica.


Arnold SchönbergVerklärte Nacht
Gustav MahlerDas Lied von der Erde (arrangiamento Schönberg)
  
DirettoreJonathan Stockhammer
  
TenorePaul Schweinester
BaritonoJaka Mihelač
  
Ensemble Dissonance

Al Festival di Lubiana trionfano Anna Netrebko (&Friends) in una serata dedicata a Giuseppe Verdi

Il 71° Festival di Lubiana è in corso da un paio di settimane con molteplici proposte artistiche che abbracciano tutta la capitale slovena. Le piazze, le chiese e, ovviamente, le sale da concerto sono piene di appassionati e semplici curiosi. L’aria che si respira fa bene alla salute perché si vivono la musica e l’arte in modo spontaneo, tutt’altro che paludato e profondamente democratico, tanto che mi sento di spendere l’abusato aggettivo inclusivo con serena leggerezza.
Con queste premesse non c’è una graduatoria di importanza per le serate ma solo appuntamenti più prestigiosi per i nomi degli artisti coinvolti.
È il caso del concerto di ieri al Kankarjev dom, che avrebbe potuto benissimo essere intitolato Anna Netrebko & Friends sia per l’indiscutibile carisma e popolarità del soprano sia per la proposta nazionalpopolare delle arie e i duetti scelti per l’occasione. Attenzione però, perché al contrario di buona parte delle baracconate degli anni 90 del secolo scorso il livello artistico è stato altissimo anche nella scaletta, completamente dedicata a Giuseppe Verdi. Anch’io, che non sono precisamente avvezzo a nazionalismi strumentali, ho pensato che ascoltare artisti di codesto calibro che cantano e suonano Verdi all’estero fosse una promozione seria per la nostra identità culturale.
Una precisazione doverosa all’inizio della cronaca della serata: il mezzosoprano Elena Zhidkova era evidentemente in precarie condizioni di salute e perciò bisogna solo ringraziarla per la partecipazione.
Sul podio dell’ottima Orchestra sinfonica slovena, Michelangelo Mazza si è disimpegnato con grande intelligenza accompagnando i cantanti con attenzione e diligenza ma anche senza abdicare alle finezze che pretendono le partiture verdiane. Agogiche stringenti ma non frettolose, dinamiche vivaci ma lontanissime da effettacci bandistici che affliggono certe esecuzioni circensi. Verdi, anche quello più infuocato, resta sempre compositore raffinato.
Di Anna Netrebko si legge qualsiasi cosa ovunque, ma la realtà è una sola: è un’Artista. Ha carisma, presenza scenica, con uno sguardo coglie lo stato d’animo del personaggio, con un gesto entra nella vicenda. Inoltre, e credo sia utile sottolinearlo, è l’esempio di quanto siano cretini i giudizi lapidari sui cantanti. “Quello è così, tal altra e così ecc”. I cantanti sono in divenire, non possono essere cristallizzati in una valutazione tranchant valida per tutta la carriera. Oggi Netrebko ha una voce completamente diversa di un tempo per tornitura, colore e armonici e, di conseguenza, affronta repertori diversi seguendo l’evoluzione naturale dello strumento vocale, preziosissimo. Si notano anche dei difetti, più accentuati nelle arie meno frequentate (Pace, pace mio Dio) in cui la dizione e la pronuncia sono sembrate almeno rivedibili. Al contrario, nella sortita dal Macbeth che ha appena affrontato alla Scala e in cui ha recitato con proprietà il parlato della lettera, anche le prefate imperfezioni si attenuano di molto. La voce è ampia, robusta, di colore bellissimo e confortata da acuti quasi sfrontati e messe di voce delicatissime, sostenute da una tecnica e da una respirazione da manuale. Il soprano è nel pieno della maturità artistica e ci è arrivata, anche se pare ieri, dopo quasi trent’anni di carriera.
Yusif Eyvazov, si sa, non ha una di quelle voci benedette da dio ed è altrettanto noto che la sua tecnica, soprattutto nella gestione del passaggio, è piuttosto personale. Resta il fatto che è un cantante – dal mio punto di vista – sempre piacevole da ascoltare per entusiasmo, vivacità sul palcoscenico e comunicativa. Inoltre dizione e pronuncia sono quasi ineccepibili e non si può certo affermare che non abbia una voce importante per quanto difficile da gestire. Va da sé che – fatta di necessità virtù – del tenore si apprezzano più gli slanci eroici che i riflessivi ripiegamenti. E, del resto, ieri ha interpretato con generosità lo spavaldo e tracotante Duca, l’emozionalmente terremotato e sulfureo Alvaro, l’infelice guerriero Radamès e l’ardimentoso e audace Manrico. Una specie di concentrato in pillole delle caratteristiche del tenore verdiano per come è recepito nell’immaginario collettivo. Molto sicuro (e divertito) della sua forma vocale, Eyvazov ha gigioneggiato un po’ negli acuti, qua e là si è lasciato andare a qualche birignao ma, bisogna ricordarlo, i recital hanno dinamiche diverse da una serata “normale” in teatro e il pubblico ha gradito le sue interpretazioni viscerali, di pancia, degli sfortunati personaggi verdiani.
Il discorso si potrebbe ripetere nella sostanza per Željko Lučić, interprete di Rigoletto, Renato, Conte di Luna e Don Carlo di Vargas. I caratteri sono sfaccettati, ma vuoi per la scelta dei brani vuoi per indole, il baritono ha esaltato i lati più brutali dei personaggi, trascurando un po’ quelli meno epidermici e, soprattutto, dimenticandosi che i baritoni verdiani non sono mai solo protervi vilain ma anzi, i tratti di nobiltà sono prevalenti.
Di là di questo distinguo anche a Lučić il volume non manca e ieri sera nel duetto della Forza e nel terzetto del Trovatore ha boxato negli acuti con Eyvazov uscendone sconfitto di misura ai punti. Meglio, anche se sempre un po’ troppo truce, l’interpretazione dell’aria di Renato dal Ballo.
Il programma è stato completato con una pregevole esecuzione dei Ballabili dall’Otello, in cui Michelangelo Mazza ha trovato dall’orchestra slovena leggerezza e dinamismo.
Inevitabile il bis con il Brindisi dalla Traviata.
Occorre che dica come ha risposto il pubblico che affollava il Cankarjev?

SopranoAnna Netrebko
TenoreYusif Eyvazov
BaritonoŽeljko Lučić
MezzosopranoElena Zhidkova
  
DirettoreMichelangelo Mazza
  
Orchestra Sinfonica Slovena
  
Giuseppe Verdi Nel dì della vittoria (Macbeth) Ella mi fu rapita (Rigoletto) Un dì, se ben rammentomi (Rigoletto) Eri tu (Un ballo in maschera) Pace, pace mio Dio (La forza del destino) O tu che in seno agli angeli (La forza del destino) Stride la vampa (Il trovatore) Udiste? Come albeggi (Il trovatore) Invano Alvaro (La forza del destino) Ballabili da Otello La fatal pietra (Aida) Tace la notte (Il trovatore)