Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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La Cenerentola di Rossini ottiene un buon successo al Teatro Verdi di Trieste

La Cenerentola di Gioachino Rossini è una di quelle opere che per molti, troppi anni è rimasta nell’oblio. Sino all’inizio degli anni 50 del secolo scorso nei cartelloni dei teatri Rossini era identificato in gran parte, se non esclusivamente, con Il Barbiere di Siviglia. Si deve a un grandissimo direttore d’orchestra italiano, Vittorio Gui, la “riscoperta” del lavoro rossiniano.

Anche il Teatro Verdi di Trieste non fece eccezione: scorrendo la cronologia delle stagioni balza all’occhio un buco di settanta anni in cui questo melodramma giocoso fu assente dal palcoscenico triestino. È infatti del 1951 la prima ripresa del XX secolo, con Giulietta Simionato nei panni della protagonista. Cenerentola rimane però un titolo – rispetto ad altri – poco frequentato alle nostre latitudini, forse perché un po’ estraneo a quella sfuggente propensione del pubblico triestino per opere più vicine alla propria introversa indole caratteriale, quelle che manifestano sì grazia, ma anche una bella grattugiata di scontrosità.
Ieri, in un teatro affollato, l’opera è stata riproposta nell’allestimento che ha debuttato nel 2022 al Teatro Carlo Felice di Genova per la regia di Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi che si sono ispirati allo storico spettacolo di Emanuele Luzzati.
La dimensione fiabesca, che avrebbe dovuto essere il tratto distintivo della serata, è stata un po’ offuscata da alcune scelte registiche che sono parse gratuite: il coro maschile quasi perennemente tarantolato, per esempio, non mi pare abbia aggiunto granché all’atmosfera di fanciullesco incanto che invece suggerivano le proiezioni – episodicamente un po’ invadenti – e le scene. Altri momenti sono sembrati più riusciti, come gli slow motion ben interpretati dalla compagna artistica e la scena del temporale. Belle le luci, costumi giustamente colorati e fantasiosi ma un po’ anonimi. In linea con la tradizione più nota il lavoro di regia sugli interpreti a conferma di un allestimento gradevole ma che non decolla mai davvero né offre spunti di riflessione particolari.
Brillante la direzione di Enrico Calesso, che ha interpretato la partitura con stile, eleganza e una sobrietà di fondo che ha esaltato sia il brio scoppiettante sia il malinconico abbandono che pervadono il capolavoro rossiniano in cui convivono felicemente un personaggio di opera seria, Angelina, e opera buffa.
La narrazione teatrale ne è uscita pulita, omogenea, e ha permesso di apprezzare sin dall’inizio – penso alla bellissima Sinfonia d’apertura – il virtuosismo dell’Orchestra del Verdi che ha dato esempio preclaro di cosa significhi il crescendo rossiniano.
Detto dell’ottimo rendimento del Coro, molto impegnato anche dal lato scenico, la compagnia di canto è sembrata di buon livello.
Laura Verrecchia, nei panni della protagonista Angelina, ha confermato tutte le qualità già ampiamente note al pubblico triestino che l’ha apprezzata di frequente negli ultimi anni.
Le armi vincenti sono state la voce di bel colore ambrato e il fraseggio vario e mobile, che le ha consentito di tratteggiare una protagonista convincente senza scadere in manierismi zuccherosi. Il mezzosoprano ha risolto senza troppi problemi anche il difficile rondò finale Nacqui all’affanno ed è sembrata disinvolta nella recitazione, improntata a un’introversa sobrietà appropriata al personaggio.
Ottimo il rendimento di Dave Monaco nella parte di Don Ramiro, che è caratterizzata da una scrittura vocale molto acuta e richiede la capacità di spiegare la voce a slanci quasi eroici in alternanza a improvvise parentesi elegiache: paradigmatica, in questo senso, l’aria Sì ritrovarla io giuro nel secondo atto, applaudita a scena aperta dal pubblico.
Carlo Lepore è stato convincente come Don Magnifico, del quale ha saputo restituire l’originaria provenienza dalla commedia dell’arte napoletana. Disinvolto dal lato scenico, Lepore ha anche una voce sonora di bel timbro e ha affrontato con sicurezza l’arduo sillabato rossiniano.
Bravo Giorgio Caoduro, che ha tratteggiato con arguzia lo spassosissimo Dandini, uno dei personaggi più divertenti dell’opera italiana. Il baritono, in una parte di tessitura piuttosto alta, ha cantato con pertinenza stilistica e grande civiltà vocale, evitando quegli eccessi interpretativi che con la musica di Rossini c’entrano nulla.
Alidoro è il protagonista occulto dell’opera ed è stato ben interpretato da Matteo D’Apolito, che ne ha esaltato l’umanità e l’autorevolezza.
A completare il cast Carlotta Vichi e Federica Sardella che erano le due insopportabili e viperine, ma divertenti, sorelle Tisbe e Clorinda.
La serata è stata apprezzata dal pubblico che ha applaudito spesso a scena aperta e alla fine ha tributato un grande successo a tutta la compagnia a artistica.

AngelinaLaura Verrecchia
Don RamiroDave Monaco
DandiniGiorgio Caoduro
Don MagnificoCarlo Lepore
AlidoroMatteo D’Apolito
TisbeCarlotta Vichi
ClorindaFederica Sardella
  
DirettoreEnrico Calesso
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaPaolo Gavazzeni e Piero Maranghi
Scene e costumi ispirati all’allestimento di Emanuele Luzzati 
Costumi ripresi daNicoletta Ceccolini
Contributi videoGiuseppe Ragazzini
  
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste




Divulgazione semiseria della musica lirica: considerazioni laterali su La Cenerentola di Rossini, dal 26 aprile al Teatro Verdi di Trieste

È molto difficile cercare di inquadrare La Cenerentola, ossia la bontà in trionfo di Gioachino Rossini, di là di ciò che recita ulteriormente il frontespizio del libretto di Jacopo Ferretti: melodramma giocoso, cioè un genere operistico che oscilla tra l’opera buffa e l’opera seria.
Certo, il soggetto si basa evidentemente sulla notissima fiaba di Charles Perrault (Cendrillon ou La petite pantoufle de vair), ma Ferretti – che dovette slalomeggiare anche tra gli stretti paletti della censura pontificia – si rifece anche ad altri testi per questo capolavoro che debuttò al Teatro Valle di Roma il 25 gennaio 1817.
Dicevo sopra della censura pontificia che, tra le altre cose, fu anche responsabile della “scomparsa” della famosa scarpetta – cui siamo tutti affezionati – di Cenerentola dal testo dell’opera. Per quanto oggi possa sembrare assurdo, a quei tempi era impensabile che in pubblico e a maggior ragione in un teatro la donna scoprisse un piede o una caviglia: le cantatrici erano considerate dalla Chiesa, nella migliore delle ipotesi, meretrices honestae.
Nonostante ciò, il libretto è uno dei punti di forza dell’opera, perché i versi sono all’altezza della musica di Rossini per inventiva, brio ed eleganza.
Chissà, forse è proprio vero – com’è stato sostenuto – che Ferretti abbia voluto dimostrare a Rossini che avrebbe meritato di verseggiare anche Il Barbiere di Siviglia che risale all’anno precedente.
Rossini poi ci mise del suo, ovvio, a partire dai fulminei tempi di composizione (tre settimane, ma ha fatto di meglio) e anche grazie alla consueta prassi dell’autoimprestito – peraltro comune a molti compositori di quegli anni – e cioè alla rielaborazione di alcune pagine musicali già scritte per altre opere: nel caso della Cenerentola la Sinfonia è tratta da La Gazzetta, mentre il rondò finale di Angelina si rifà all’aria del Conte di Almaviva dal Barbiere di Siviglia. Il grande Gioachino scelse anche di lasciare a uno dei suoi assistenti, Luca Agolini, la responsabilità della scrittura di alcuni recitativi secchi.
Rimangono nella trama, imperturbabili, le due sorellastre cattive (Clorinda e Tisbe), mentre la matrigna cambia sesso e diventa un patrigno (Don Magnifico) che mantiene però le crudeli caratteristiche del personaggio originale. C’è anche “il Principe azzurro”, che in questo caso si chiama Don Ramiro.
Fondamentale è il ruolo di Dandini, il cameriere di Don Ramiro che tesse la trama di tutta la commedia degli equivoci su cui si basa la storia. Chiude la schiera dei personaggi Alidoro, un saggio filosofo che ha anch’egli parte importante nell’intreccio.
Dal punto di vista musicale La Cenerentola rifulge di una scoppiettante brillantezza screziata in alcuni momenti da melodie più intime e accattivanti. Il coro, solo maschile, dà ulteriore spessore ad alcune pagine della partitura. I protagonisti hanno a loro disposizione arie bellissime, in cui possono dimostrare tecnica e virtuosismo e devono inoltre avere capacità attoriali rilevanti, soprattutto per quanto riguarda i personaggi di Don Magnifico e Dandini.
Chiudo con una curiosità: il contralto Geltrude Righetti Giorgi fu la prima interprete della parte di Angelina; la stessa cantante creò, l’anno precedente, la parte di Rosina del Barbiere di Siviglia.
Alla fine, censura o meno, il carattere di critica o comunque di valutazione negativa nei confronti di una certa società borghese e trafficona, povera di sentimenti e d’intelletto è evidente: trionfano la semplicità e l’arguzia popolari.
Certo che un giorno qualcuno dovrà spiegarmi come mai tutte queste brave ragazze sognino di farsi sposare da un principe azzurro evidentemente farfallone, dal momento che si promette sposo a Cenerentola, La Bella Addormentata, Biancaneve e chissà quante altre povere ragazze meno note. Ma questa è un’altra storia.

Recensione seria di Mefistofele al Teatro La Fenice di Venezia. La musica salverà il mondo? No.

Opera sostanzialmente ormai quasi sconosciuta grazie alla lungimiranza delle direzioni artistiche dei teatri che ci propongono sino alla nausea Traviate e Bohème, Mefistofele è una perla della cultura italiana in toto e dovrebbe essere frequentata al pari di altri capolavori. Ed è così per molti motivi di cui il primo è probabilmente che l’opera, tratta dal Faust di Goethe, è uno dei simboli di una temperie trasversale devastante, quella della “scapigliatura”, che sconquassò le acquisite certezze dell’establishment culturale nella seconda metà dell’Ottocento e di cui ancora oggi si percepiscono le conseguenze.
Perciò grazie allo staff del Teatro La Fenice per aver riproposto – dopo più di cinquant’anni – il capolavoro di Arrigo Boito.
Definire tormentata la genesi di Mefistofele è davvero sottile eufemismo perché, dopo il fiasco della prima del 1868, il compositore rimaneggiò completamente il proprio lavoro che purtroppo nella forma originale è andato perduto, forse distrutto da Boito stesso. Il gioco evidentemente valse la candela, in quanto nel 1875 l’opera rivisitata, a Bologna, ottenne un franco successo.
I grandi capolavori si distinguono perché sono senza tempo e parlano al pubblico di tutte le epoche e, in questo senso, Mefistofele è il paradigma dell’opera d’Arte tout court.
La lotta tra il Bene e il Male è ovunque, nella cronaca di ogni giorno, nelle guerre acclarate o sottotraccia, nel labirinto inestricabile dei rapporti personali, nei femminicidi, nel razzismo, nel girone infernale del Silos di Trieste, nello stupro della Natura.
Lo spettacolo è firmato per la regia da Moshe Leiser e Patrice Caurier e, nonostante qualche criticità nel Prologo che mi è sembrato prolisso e statico a dispetto dello spunto creativo, il duo francese centra l’obbiettivo con un allestimento sfolgorante, a tratti barbarico, spesso sopra le righe e temperato da squarci quasi minimalisti.
In un teatro abbandonato, in pieno clima urbex, un Mefistofele annoiato dopo aver fatto una doccia si mette a guardare la televisione dove passano le consuete scene di guerre, sermoni religiosi e amenità varie.
La sua diabolica attenzione viene catturata dal mite e rassegnato Faust, che filosofeggia sulla vita e sulla morte studiando il violoncello. Decide quindi di tentarlo con la promessa di una vita straordinaria e rutilante, piena di emozioni forti e proibite e lo inizia alla droga più pesante.
Da questo momento in poi lo spettacolo decolla, anche grazie alle scenografie – dello stesso Leiser – e soprattutto all’impianto luci rutilante di Christophe Forey, oltre che ai costumi fantasmagorici di Agostino Cavalca. Buone e funzionali allo spettacolo le proiezioni di Etienne Guiol e le coreografie di Beate Vollack.
La scena del Sabba è risultata efficacissima ma la regia non ha mancato di caratterizzare con puntualità anche i singoli personaggi, avvalendosi di una scenotecnica realizzabile grazie all’avanzata tecnologia del palcoscenico del teatro lagunare.
Una riflessione personale sul finale, che sembra quasi suggerire che la musica (e l’Arte in generale) potrebbe salvare il mondo: no, non è così è un’impostura della gente plebea.

Nicola Luisotti, alla testa di un’Orchestra della Fenice in serata eccellente in tutte le sezioni, lavora in simbiosi con la regia. L’interpretazione ha un passo teatrale incalzante, con qualche saltuario eccesso di decibel – ma stiamo parlando del Mefistofele, che è opera di eccessi – ma anche con la dovuta attenzione ai momenti di raccoglimento, che non sono pochi, in cui l’accompagnamento ai cantanti è delicato e amorevole. Perciò dinamiche segnatamente contrastate, agogiche forse un po’ pigre in qualche occasione, ma la narrazione teatrale alla fine è sembrata efficace e scorrevole.
Alex Esposito si conferma ottimo cantante e attore consumato, per quanto la voce manchi di quel timbro e colore da basso puro che in questa parte aiuterebbe a tratteggiare meglio la tenebrosa ambiguità del ghiribizzoso personaggio. L’artista però è di primo piano e il fraseggio, le nuance interpretative e la dinamicità in scena contribuiscono a far sì che il suo Mefistofele emozioni e arrivi al pubblico, che infatti lo ha premiato con un trionfo.
Piero Pretti è stato adeguato nei panni di Faust sia dal lato scenico, che lo voleva un po’ dimesso, sia da quello vocale. La scrittura della parte risente probabilmente dell’originaria stesura per baritono, perciò è impegnativa e onerosa in quanto gravita parecchio sul passaggio e gli acuti sono scomodi. Nonostante ciò le arie sono state eseguite con proprietà, pertinenza stilistica e smalto.
In crescendo la prova di Maria Agresta la quale, dopo una sortita prudente, è risultata emozionante e coinvolta nella scena del carcere in cui ha connotato il personaggio di tutta la drammaticità necessaria e arricchendo di tensione emotiva le due difficili arie del terzo atto.
Buona anche la prestazione di Maria Teresa Leva nei panni di Elena, in cui ha potuto evidenziare il bel colore ambrato della voce.
Hanno ben completato il cast Kamelia Kader (Marta/Pantalis) ed Enrico Casari (Wagner/Nereo).
Eccellente il rendimento del Coro in un’opera che lo vede protagonista al pari dei solisti e bravissimi anche i ragazzi del Coro di voci bianche.
Teatro esaurito da mesi e pubblico che ha tributato un notevole successo a tutta la compagnia artistica e in particolare ad Alex Esposito.

Mefistofele Alex Esposito
Faust Piero Pretti

Margherita

Maria Agresta
Marta Torbidoni
(20/4)

Marta/Pantalis Kamelia Kader
Elena Maria Teresa Leva
Wagner/Nereo Enrico Casari

Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
direttore Nicola Luisotti
maestro del Coro Alfonso Caiani

coro voci bianche Piccoli Cantori Veneziani
maestro del Coro Diana D’Alessio
altro maestro del Coro Zoya Tukhmanova

regia Moshe LeiserPatrice Caurier
scene Moshe Leiser
costumi Agostino Cavalca
light designer Christophe Forey
video designer Etienne Guiol
coreografia Beate Vollack

“Parole&Musica attraversano i confini”: una nuova rassegna dedicata al Lied a Trieste

Trieste è una piccola città ma è ricchissima, da sempre, di iniziative culturali ad ampio spettro.
Sono frequenti le occasioni in cui ci sono diversi eventi concomitanti e bisogna a malincuore fare una scelta.
Vale anche per la musica colta – ammesso che l’aggettivo sia pertinente – perché oltre alle istituzioni più note come il Teatro Verdi e la Società dei Concerti operano sul territorio numerose associazioni culturali che allestiscono serate di ottimo livello dedicate alla musica da camera, alla musica antica e quant’altro.
È il caso dell’Associazione Friedrich Schiller, con la direzione artistica di Elia Macrì, che propone in queste settimane “Parole&Musica attraversano i confini”: una nuova rassegna dedicata al Lied e non solo che calza perfettamente alla vocazione mitteleuropea del capoluogo regionale, da sempre crocevia di culture di confine. Alla manifestazione, che si svolgerà in sei appuntamenti sino a giugno inoltrato,  si affianca anche un concorso dedicato alla musica liederistica che vedrà in giuria, tra gli altri, Fabio Nieder e Salvatore Sciarrino. Lo stesso Macrì è intervenuto all’inizio per declinare le aspettative e la mission dell’associazione.
Per chi scrive è stata una grande emozione tenere a battesimo un progetto lungimirante e ben strutturato, che promuove un’Arte, quella del Lied, che pur essendo di provenienza tedesca ha molte affinità elettive con l’immaginario collettivo delle nostre terre.
Il programma era molto interessante e prevedeva l’esecuzione di brani di Robert Schumann, Josef Rheinberger e Johannes Brahms, affidati a due artisti che fanno parte della fondazione triestina – Benjamin Bernstein, prima viola dell’Orchestra del Verdi e il contralto Anna Katarzyna Ir artista del Coro – e la pianista Natalia Morozova.
Il concerto, che si è svolto nell’Auditorium Marco Sofianopulo del Museo Revoltella perché la Sala Beethoven è momentaneamente inagibile, è principiato con il Märchenbilder op.113 di Schumann.
Strutturata in quattro brevi movimenti, la pagina musicale si snoda con leggerezza in un continuo dialogo tra il suono caldo e avvolgente della viola e gli spesso delicati interventi del pianoforte, in un susseguirsi di atmosfere cangianti e oniriche che si compenetrano con dolcezza.
A  seguire è entrata in scena il contralto Anna Katarzyna Ir, che è stata protagonista di un piccolo tour de force in cui ha cantato ancora Schumann (Widmung), i Fünf Lieder op.4 di Rheinberger e dello stesso compositore Gesänge altitalienischer Dichter, alternando quindi la lingua tedesca a quella italiana tra microclimi psicologici anche assai diversi tra loro sulle liriche, tra gli altri, di Heine. Bellissima, in particolare, l’esecuzione dell’eterea Sapphische Ode di Brahms.
Ancora Brahms è stato protagonista nel finale del concerto, prima con la Sonata per viola e pianoforte op.120 n.2  – ricca di malinconici chiaroscuri – e poi con i Zwei Gesänge op.91 per contralto, viola e pianoforte.
Gli esiti artistici della serata sono stati ottimi e sembra quasi inopportuno sottolineare come i protagonisti siano stati all’altezza dell’impegno. Mi limito a segnalare il legato, la concentrazione e la compostezza di Benjamin Bernstein, il passionale pianismo di Natalia Morozova e il bellissimo colore della voce di Anna Kataryna Ir, che hanno tutti raccolto un meritatissimo successo e alla fine hanno concesso anche un bis, eseguendo Morgen! di Richard Strauss.
Di là di ogni altra considerazione è stata una serata emozionante, un viaggio seguito con attenzione dal pubblico in una sala che ha presentato qualche criticità dal punto di vista dell’acustica, almeno dalla mia posizione. Il che mi suggerisce una domanda che resterà senza risposta: oltre che investire nel turismo – mi si perdoni – straccione, vedremo a Trieste una sala da concerto decente, un giorno?

ViolaBenjamin Bernstein
PianoforteNatalia Morozova
ContraltoAnna Katarzyna Ir
  
Robert SchumannMärchenbilder op.113
Robert SchumannWidmung
Josef RheinbergerFünf Lieder op.4
Josef RheinbergerGesänge altitalienischer Dichter
Johannes BrahmsSapphische Ode op 94
Johannes BrahmsSonata per viola e pianoforte op 120 n.2
Johannes BrahmsZwei Gesänge op.91
  
Direzione artistica Elia Macrì