Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Archivi Mensili: dicembre 2022

La Top Ten degli articoli più letti nel 2022

Anche quest’anno è arrivato il momento dei bilanci per questo vecchio canuto che è Di tanti pulpiti, uno dei blog più longevi di questo disgraziato Paese.
La Top ten degli articoli più letti di quest’anno è stata influenzata (ma era prevedibile) da un piccolo successo personale; a seguire, come ormai regolarmente dal 2017, le lugubri vicende che hanno accompagnato le tristi dimissioni dal Piccolo di Trieste.
Poi Trieste, Venezia, Lubiana: i vertici del mio personale triangolo delle Bermude operistico, dove nel corso degli anni sono stati sono inghiottiti registi, cantanti, direttori.
I lettori sono prevalentemente italiani. A seguire sloveni, austriaci, americani, spagnoli, francesi.
La chiave di ricerca più usata è “Paolo Bullo”. Moltissime volte la ricerca è “recensione di TITOLO OPERA”, spesso il classico “divulgazione semiseria” e, retaggio di un passato non lontanissimo “gabbiani assassini orrida Venezia” che, ovviamente, è quella che più mi fa piacere.
Insomma, eccola qui e auguri a tutti!

La zia quantistica

Le dimissioni dal Piccolo

Mario Brunello al Teatro Verdi di Trieste

Fidelio alla Fenice di Venezia

Francesca Dego e Alessandro Taverna a Portogruaro

Boris Godunov alla Scala

Beethoven alla Società dei concerti

La PSO e Hélène Grimaud a Lubiana

Il Requiem di Verdi a Lubiana

La Winterreise a Miramare per la Società dei concerti di Trieste

Natale 2022

Dopo due anni, finalmente, ho potuto rifare oltre al tradizionale albero natalizio anche quello virtuale, in cui gli addobbi sono le locandine delle serate a teatro cui ho presenziato quest’anno. Perciò nel fare gli auguri a tutti coloro che mi seguono su questo blog ormai giurassico, ringrazio anche in ordine sparso una sparuta minoranza di compositori che hanno contribuito a rendere la mia vita migliore: Beethoven, Verdi, Wagner, Ravel, Mahler, Britten, Stravinskij, Puccini, Donizetti, Bach e Brahms in rappresentanza di tutti gli altri.

Concerto di Natale al Teatro Verdi di Trieste: poche luci e molte, troppe ombre

I concerti natalizi e di fine anno, ovunque, sono accomunati da caratteristiche simili: lo stile è nazionalpopolare, i teatri sono addobbati a festa, politici e dirigenti si esibiscono in coacervi di luoghi comuni e pagine musicali eterogenee convivono a forza in programmi insensati, il pubblico applaude più o meno coinvolto e se ne va. È stato così anche a Trieste? La risposta è ni.
Non c’era l’ombra di un politico – non è un male – non c’era alcun dirigente del teatro (male), il programma era insensato al top, il pubblico più che plaudente e stanco non c’era o quasi e quelli che c’erano hanno applaudito sì con moderazione ma anche con convinzione in alcuni casi. Il teatro era spoglio, senza decori a parte un vaso di fiori non meglio identificato a lato del palcoscenico. Ora, è pur vero che non sono un critico di addobbi natalizi e non brillo per savoir-faire, ma forse qualcosa di più si poteva fare.
Si è cominciato con una novità, o meglio, un esperimento: due brani di Giovanni Gabrieli, compositore e organista vissuto nella seconda metà del 1500 arrangiati per dodici ottoni dal Primo trombone dell’orchestra triestina: l’ottimo Domenico Lazzaroni. Risultato: rivedibile, almeno a mio gusto, che non ho colto – ignoranza mia – altro merito che l’apertura di una strada che forse potrebbe produrre risultati interessanti in altre occasioni e che è invece ampiamente percorsa in diverse realtà mitteleuropee.
L’Orchestra del Verdi, diretta fiaccamente da Jacopo Brusa, ha dato prestazioni di sé più positive. Voglio dire che se l’Intermezzo di Cavalleria annoia e non emoziona…beh, qualcosa non ha funzionato. Se L’Ouverture delle Nozze di Figaro è scivolata via piatta, al pari di una soporifera Sinfonia dal Barbiere di Siviglia qualche problema c’è stato. Sono solo esempi, ma credo che una guida più appropriata sarebbe stata utile.
C’erano poi i solisti e, spiace dirlo, il basso Viacheslav Strelkov – forse non in perfetto stato di salute, peraltro non annunciato – non è stato all’altezza di un pubblico pagante. Non ci si presenta sul palco per cantare il duettino Là ci darem la mano con lo spartito; è una mancanza di rispetto per gli spettatori di chi ha approvato una simile scelta. Sospendo il giudizio sulle altre due arie di Rossini e Mozart.
Per fortuna, subito dopo si è esibita Marina Comparato nella cavatina di Rosina e finalmente abbiamo ascoltato una cantante vera e soprattutto un’Artista in gran forma, anche se impegnata in un repertorio che ormai frequenta poco. Il mezzosoprano ha poi confermato classe e professionalità sia nella Barcarola da Les contes d’Hoffman sia nell’aria di Fenena da Nabucco, interpretate con garbo e civilissima teatralità.
Brava anche Claudia Mavilia, che ha ben impersonato Zerlina e che ha cantato diligentemente le note di Mimì, ma dell’eroina pucciniana non ha il peso vocale né la maturità artistica per affrontare la parte neanche in concerto.
Buona la prestazione di Andrea Schifaudo, accorato Nemorino e divertito Arlecchino nella Serenata da Pagliacci: voce chiara, solare, buona dizione hanno confermato un rendimento più che sufficiente.
Alla fine due bis corelliani programmati e francamente non richiesti dal pubblico ci hanno fatto ricordare, più che altro, che a Trieste non ascoltiamo il Barocco da una vita.

Salgo già sul trono aurato: la Winterreise di Schubert nella Sala del trono del Castello di Miramare. Bravissimi il tenore Blagoj Nacoski e il pianista Luca Ciammarughi nell’appuntamento organizzato dalla Società dei concerti di Trieste.

Ieri sera, presso la Sala del trono del Castello di Miramare a Trieste e nell’ambito della programmazione della Società dei Concerti, si è svolta una serata dedicata ai Lieder. Protagonista è stata la Winterreise (Viaggio d’inverno) di Franz Schubert su versi di Wilhelm Müller nell’interpretazione del tenore Blagoj Nacoski accompagnato al pianoforte da Luca Ciammarughi. Il ciclo di Lieder era già stato proposto dalla Società dei concerti qualche anno fa, ma nella versione per baritono, protagonista Matthias Goerne.
Ma cos’è un Lied? Letteralmente Lied significa canzone ma la traduzione non è certo sufficiente a darne una definizione compiuta. 
Il Lied nasce in Germania tra il dodicesimo e il quattordicesimo secolo per opera dei Minnesänger, i trovatori tedeschi, menestrelli o cantastorie che con nomi simili (trovador, trobador, trouvèr) storicamente ritroviamo in buona parte dell’Europa. 
Avete presente Il trovatore di Giuseppe Verdi? Ecco, proprio quello, che canta l’amor cortese sotto le finestre di Leonora, accompagnandosi col liuto. Si tratta perciò di musica popolare nel senso più ampio del termine, che col tempo ha assunto caratteristiche più nobili e raffinate grazie a compositori e poeti di livello altissimo. 
La seguente è una definizione di Lied, tratta da Musikalisches Lexicon di Heinrich Christoph Koch, un testo dei primi anni dell’Ottocento. Se ne deduce in tutta evidenza l’estrazione culturale “umile” di questa composizione musicale. 

Un componimento poetico lirico articolato in più strofe, fatto per essere cantato, e unito a una melodia che viene ripetuta per ciascuna strofa; e che è inoltre di natura tale da poter essere cantato da chiunque disponga di una voce normale e ragionevolmente flessibile, sia che abbia ricevuto una qualche istruzione in quest’arte oppure no. 

Schubert si dedicò al Lied con risultati straordinari per qualità e…quantità: ne compose infatti circa seicento.  
Di solito i Lieder sono scritti per pianoforte e voce e possono avere una vita propria, indipendente, come istantanee di una scena singola, oppure essere parte di un ciclo trattando un argomento. Inoltre esistono numerosi esempi di cicli di Lieder che godono di un’orchestrazione più ampia, si pensi solo ai Vier letzte Lieder (Quattro ultimi Lieder) di Richard Strauss. 
Nei Lieder il legame tra parola scritta e note è strettissimo: il canto spesso declamato, irrequieto, deve cogliere le sfumature e le atmosfere cangianti del testo poetico, che soprattutto nel romanticismo oscillano tra abissali introversioni e improvvise esaltazioni di stampo quasi bipolare. 
Il pianoforte è protagonista quanto la voce, non si limita all’accompagnamento ma anzi detta il carattere del brano in virtuosa collaborazione col solista. 
Sono moltissimi i compositori che si sono dedicati all’arte del Lied; solo per fare alcuni nomi cito Mozart, Brahms, Schumann, Beethoven, Berlioz, Wolf, Webern, Strauss. Allo stesso modo i più grandi cantanti di sempre si sono cimentati nell’interpretazione di questo genere musicale: dall’imprescindibile Dietrich Fischer-Dieskau a Fritz Wunderlich, da Elisabeth Schwarzkopf a Hans Hotter. 
La Winterreise è uno dei grandi capolavori del Romanticismo tout court e forse vale la pena ripercorrerne brevemente la genesi. 
Wilhelm Müller, poeta sassone oggi considerato minore – a torto o ragione – nell’universo del romanticismo tedesco, pubblicò tra il 1823 e il 1825 una raccolta di poesie intitolata Wanderlieder – Die Winterreise (Canzoni di un viandante – Il viaggio d’inverno). Risale ad alcuni anni prima, invece, la stampa di un altro celeberrimo lavoro, Die schӧne Müllerin (La bella mugnaia), che con la Winterreise ha un rapporto strettissimo. 
Il ciclo di Lieder fu composto da Franz Schubert in due momenti diversi, tra febbraio e ottobre del 1827 e pubblicato l’anno successivo. Il motivo di questa composizione differita va ricercato nella biografia del poeta e saggista Müller, il quale si scontrò con il governo a causa di uno scritto su George Byron che provocò la censura della rivista per la quale scriveva, di fatto impedendo al compositore di conoscere subito la seconda dozzina di poesie. 
Al centro della narrazione c’è la figura del Wanderer (Viaggiatore), che metaforicamente percorre l’inverno dell’anima prima ancora di quello della natura, in un turbinio polisemico di sentimenti anche contraddittori. Una natura che in qualche modo assume sfumature policrome e trasfigurazioni gotiche nei suoi elementi: gli animali, il vento, l’acqua possono essere oggetto di malcelate speranze o di abissi di sconforto. Il ciclo si spegne, ricco di domande sospese e risposte inespresse, nell’incontro con Der Leiermann (Il suonatore d’organetto), una figura enigmatica e ambigua, criptica.  
Per quanto sia una pagina musicale per voce e pianoforte, l’impatto è fortemente melodrammatico, tanto che – a mio parere inopportunamente – qualche volta la Winterreise è rappresentata in forma scenica. 
Una tentazione cui, per fortuna, si è sottratto Blagoj Nacoski, perché è proprio lui che “costruisce” la scena, in primis con un rapporto quasi carnale con lo spartito che tocca e sfiora e al quale talvolta si aggrappa traendone concentrazione e forza. 
Nacoski, più volte presente al Verdi di Trieste in quelle piccole parti da coprotagonista che rendono grandi le serate, ha carisma e sprigiona un’empatica energia vitale che in alcuni momenti è anche selvaggia, primitiva, ma in ogni caso strettamente legata a un’espressività a tutto tondo. La voce è tipicamente tenorile, ben timbrata, la tecnica di respirazione gli consente un legato di gran classe e allo stesso tempo un fraseggio vario e incisivo, condicio sine qua non per il genere musicale in questione.
Anche dal punto di vista psicologico la Winterreise è complessa da restituire e Nacoski sceglie una lettura ad ampio spettro comunicativo: tempi rilassati si alternano a furori apprensivi che danno risalto alle pause tra un Lied e l’altro e contribuiscono a tenere desta la tensione emotiva del pubblico e dell’artista.  
Molto bravo anche Luca Ciammarughi, ineccepibile dal punto di vista tecnico, che ha assecondato con perizia la movimentata e personalissima interpretazione di Nacoski. 
Alla fine successo strepitoso per entrambi, con numerose chiamate al proscenio da parte di un pubblico attento e partecipe. Da serate così si esce esausti, ma felici di aver condiviso un’esperienza intensa come poche. 
 
 

Recensione polemica de La bohème di Giacomo Puccini al Teatro Verdi di Trieste: ovvero la critica al pubblico oltre che quella allo spettacolo

Dopo il vernissage – tutto sommato felice – di qualche settimana fa con Otello, il Teatro Verdi di Trieste ha proposto La bohème di Giacomo Puccini in una produzione della fondazione che era stata cancellata nel 2020 a causa dell’emergenza sanitaria causata dal COVID-19.
È stata una serata particolare, che mi ha suggerito una riflessione che spero non sia banale: mi sono trovato dimezzato, come il Visconte di calviniana memoria. L’allestimento, niente più che dignitoso, mi ha catapultato nel mondo della cosiddetta tradizione senza tempo – ma anche priva di particolari meriti – e non ben definita; le voci mi hanno riportato al 2022.
Mi spiego: la regia di Carlo Antonio De Lucia è inoffensiva, c’è tutto quello che ci si aspetta in una Bohème. La soffitta, i tetti di Parigi con tanto di Torre Eiffel sullo sfondo, i giovani squattrinati che dimagriscono di sogni e speranze, un Café Momus un po’ moscio ma pur sempre vivace, la Musetta soubrette, la neve alla barrière d’Enfer e qui mi fermo perché avrete capito.
Poi si comincia a cantare e appare evidente che le voci, peraltro educate, di alcuni protagonisti sono nel solco della liricizzazione delle parti che oggi impera in tutti i teatri del mondo.
Azer Zada – che ha sostituito last minute il previsto Alessandro Scotto Di Luzio, indisposto – non si sente, soprattutto all’inizio, nonostante in buca Christopher Franklin cerchi di contenere (così mi è parso) il volume dell’orchestra.
L’unica voce davvero “pucciniana” è quella di Lavinia Bini, che infatti lo sovrasta ogni volta che ne ha l’occasione; non per cattiveria ovviamente, è proprio una questione di volume.
Il tenore poi si rinfranca – essere catapultato in una compagnia di canto non deve essere facile – ma il suo Rodolfo manca di anima, di trasporto, di passione. Di sangue. Azer Zada è corretto, non stona, ha gusto, una buona dizione, ma impersonare Rodolfo, sia detto col massimo rispetto per un giovane e promettente artista, richiede un coinvolgimento anche emozionale diverso.
Dicevo dell’allestimento: le scene sono semplici, l’impianto luci essenziale, i costumi più o meno centrati, la caratterizzazione dei personaggi tranquillizzante. Però è proprio in questo tipo di messa in scena che tutto deve essere perfetto, altrimenti si nota subito l’incongruenza. Per esempio, i versi “s’accomodi un momento” e “la prego, entri” di Rodolfo a Mimì non hanno senso se Mimì è già entrata da un pezzo. Sono troppo puntiglioso? Se calligrafismo, perdonate la parolaccia, deve essere che lo sia sino in fondo altrimenti viva le bohème ambientate sulla Luna.
Christopher Franklin ha dato una lettura che definirei prudente della partitura, molto attenta all’accompagnamento ai cantanti e alle dinamiche, un po’ pigra nelle agogiche ma comunque efficace e coinvolgente. Nell’ambito di una narrazione coerente, mi è piaciuto molto il finale, una di quelle pagine in cui il genio di Puccini è abbagliante, con l’orchestra che riprende le note del primo incontro tra Mimì e Rodolfo in un contesto drammaticamente diverso. Inoltre Franklin ha ottenuto dalla brillante Orchestra del Verdi un suono caldo e limpido al contempo, in cui anche quando gli archi spingono i legni si sentono distintamente.
Lavinia Bini, credo al debutto nella parte, è stata pienamente convincente sia dal lato vocale – fraseggio curato, attenzione alla parola scenica – sia da quello attoriale. Ottima la gestione della respirazione, che le ha consentito di legare e alleggerire le note, di “dire” con efficacia ed eloquenza. La voce è ampia, sicura nei gravi, smagliante nel registro centrale e puntuta negli acuti che si espandono in sala grazie a un’emissione di alta scuola. Una Mimì di rilievo, a tutto tondo, molto italiana per passione e smarrimenti quasi adolescenziali.
Discreto anche il rendimento della dinamica Federica Vitali, Musetta giustamente sopra le righe che forse ha gridato un po’ troppo nella scena da Momus ma che ha palesato anche affinità col canto di conversazione più sommesso nel proseguo.
Bravo Leon Kim, Marcello gagliardo, spaccone e iracondo ma anche capace di ripiegamenti riflessivi assai efficaci e dotato di voce adatta per la parte.
Più che sufficienti Fabrizio Beggi, Colline spiritoso nella sua buffa retorica ma anche umanissimo e partecipe compagno di tutti, al pari di Clemente Antonio Daliotti, Schaunard divertente nel soliloquio del pappagallo.
Interessante l’interpretazione di Alessandro Busi, che ha caratterizzato con efficacia sia l’avido Alcindoro sia l’attualissimo Benȏit.
Come sempre solido il rendimento delle parti minori che trovate in locandina e brillanti i ragazzini del coro di voci bianche, ottimo il Coro.
Alla fine successo per tutti, in particolare, mi è sembrato, per Leon Kim e Lavinia Bini.
Il pubblico era abbastanza numeroso ma non straripante e partecipe come dovrebbe essere per un’opera così popolare. Lo spettatore triestino è pacato, sempre inamidato, spesso fané.  A questo punto, se fossi parte del management del teatro rischierei per la prossima stagione qualche titolo desueto e/o una spruzzata di novità con allestimenti che diano una scossa culturale a noi zombie. Erwartung di Schönberg in lingua originale con sottotitoli in cinese potrebbe essere una buona scelta. Una provocazione, la mia? Sì.

La locandina

MimìLavinia Bini
RodolfoAzer Zada 
MusettaFederica Vitali
MarcelloLeon Kim
CollineFabrizio Beggi
SchanaurdClemente Antonio Daliotti
Alcindoro/BenoitAlessandro Busi
ParpignolAndrea Schifaudo
Il sergente dei doganieriDamiano Locatelli
Un doganiereGiovanni Palumbo
Un venditore ambulanteAndrea Fusari
  
DirettoreCristopher Franklin
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaCarlo Antonio De Lucia
SceneCarlo Antonio De Lucia e Alessandra Polimeno
CostumiGiulia Rivetti
  
I Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti da Cristina Semeraro
  
Orchestra e coro del Teatro Verdi di Trieste




Recensione espressa e semiseria di Boris Godunov di Musorkskij al Teatro alla Scala: Boring Godunov? No!

Consueta premessa:

Questa recensione è frutto della visione televisiva della prima scaligera, perciò attenzione: solo dal vivo uno spettacolo può essere valutato in modo completo, per ragioni tanto evidenti che non sto neanche a elencare. Detto questo, andiamo avanti.

L’apertura di stagione del Teatro alla Scala con Boris Godunov di Musorgskij non è una novità, per quanto siano passati più di quarant’anni dal 7 dicembre1979, quando Claudio Abbado era sul podio dell’orchestra milanese e Riccardo Chailly suo assistente.
In un momento storico peculiare, la riproposta di Boris Godunov mi sembra sia stato un atto di coraggio e di grande valenza socio-culturale. La Cultura dovrebbe unire, non dividere i popoli e le nazioni.
Di cosa tratta, di là della trama, il capolavoro di Musorgskij? Di Potere, della lotta per il Potere, un tema che ritroviamo spesso nel teatro scespiriano, per esempio, ma non solo. Tratta anche, sottotraccia, di rimorso e senso di colpa; parla delle angosce del popolo russo, infine. Per questo considero il Boris il contraltare in musica di quell’altro monumento della cultura russa che è Delitto e castigo di Dostoevskij.
Certo, alcune analogie col Macbeth sono evidenti, ovviamente scarnificando al massimo, sottraendo epoche e personaggi, in un lavoro che punti al sottotesto, al significato più intimo dell’opera.
Dal lato prettamente musicale, invece, sono solari le suggestioni del grand-opéra di Meyerbeer ma anche del Don Carlos di Verdi.
Il regista Kasper Holten, che si è avvalso delle imponenti scene di Es Devlin, degli altalenanti costumi di Ida Marie Ellekilde e dell’efficace impianto luci di Jonas Bøgh, mi pare abbia fatto complessivamente un buon lavoro.
Ho trovato efficace questo allestimento, a partire dalla grandiosa scena iniziale, ricca di significati metaforici poi ripresi più volte nell’arco della serata. Riuscita anche la rappresentazione dell’iconografia ortodossa. Forse qualche particolare in stile grand guignol si poteva evitare, perché i tormenti di Boris sono nella sua mente, psicologici; acclararli non ha portato ad alcun plus valore allo spettacolo. In ogni caso una regia moderna, che guarda alla tradizione ma che al contempo si adegua alle nuove (?) esigenze del teatro in musica.

La direzione di Riccardo Chailly mi è sembrata strepitosa per pertinenza stilistica e gestione delle dinamiche e delle agogiche. La tensione emotiva che innerva tutta l’opera era sempre presente, anche nei momenti più grandiosi e magari pieni di una retorica voluta e ostentata, come nelle scene di massa in cui il Coro si è reso protagonista di una prova non meno che grandiosa. Allo stesso modo sono state sottolineate con efficacia le pochissime oasi liriche della partitura e valorizzata la parte coloristica, popolare, di un’opera assolutamente straordinaria, misconosciuta e spesso bistrattata colpevolmente.
Grande prestazione dell’Orchestra della Scala, all’altezza della sua prestigiosissima fama, con gli archi morbidissimi e una menzione particolare per le percussioni.
La compagnia di canto è stata complessivamente meritevole e, senza scendere in particolari, ho trovato molto buone le prove di tutti i coprotagonisti, compresi i ragazzini del coro di voci bianche.
Eccellente il Pimen di Ain Anger, giustamente caricaturale Stanislav Trofimov nei panni di Varlaam. Bene anche l’ambiguo Sujskij di Norbert Ernst, mentre ho trovato deboli, ma accettabili, le interpreti di Fedor e Ksenija. Buona la prestazione di Yaroslav Abaimov (L’Innocente).

Ildar Abdrazakov mi è parso un ottimo Boris, che ha interpretato con gusto e realismo controllato. L’artista, che potenzialmente avrebbe potuto spingere sul pedale di una spettacolarizzazione esteriore, ha invece scelto – per fortuna – la strada di una discesa agli inferi intima, riflettuta e riflessiva, che è la vera essenza di un Boris riuscito.
Insomma, buona la prima!
(se mi è scappato qualche orrore ortografico abbiate pazienza)

DirettoreRiccardo Chailly
RegiaKasper Holten
SceneEs Devlin
CostumiIda Marie Ellekilde
LuciJonas Bøgh
Video Luke Halls
CAST
Boris Godunov
Ildar Abdrazakov
Fëdor
Lilly Jørstad
Ksenija
Anna Denisova
La nutrice di Ksenija
Agnieszka Rehlis
Vasilij Šujskij
Norbert Ernst
Ščelkalov
Alexey Markov
Pimen
Ain Anger
Grigorij Otrepev
Dmitry Golovnin
Varlaam
Stanislav Trofimov
Misail
Alexander Kravets
L’ostessa della locanda
Maria Barakova
Lo Jurodivyi
Yaroslav Abaimov
Pristav, capo delle guardie
Oleg Budaratskiy
Mitjucha, uomo del popolo
Roman Astakhov
Un boiardo di corte
Vassily Solodkyy

Divulgazione semiseria dell’opera lirica: La Bohème di Puccini, da venerdì 9 novembre al Teatro Verdi di Trieste. Di puccinismi, pornazzi e baracconate di regime.

Sempre cercando di mantenere uno stile divulgativo e non serioso – ne sento particolarmente il bisogno, in questi giorni – comunico che venerdì prossimo al Teatro Verdi di Trieste va in onda, per l’ennesima volta, la Bohème di Giacomo Puccini.

Di un’opera così popolare e nota è ancora più difficile scrivere qualcosa non voglio dire di originale, ma almeno che non sia scontato.

Ci provo.
Qual è il principale problema, oggi e sempre, nell’allestire una Bohème?

Il primo credo sia non cadere nella trappola del puccinismo, che è una malattia grave e greve che rischia di rovinare il piacere dell’ascolto di quest’opera straordinaria. Ne possono essere afflitti tutti: direttore d’orchestra, regista e compagnia artistica.
Il puccinismo si manifesta in modo subdolo, con alcuni sintomi che all’inizio possono passare inosservati ma che poi si rivelano per ciò che sono: i prodromi di una devastazione artistica in piena regola.
Soprani che assumono dall’entrata pose che avrebbero fatto apparire Eleonora Duse come un’attrice sobria e morigerata negli accenti, direttori che mugolano dal podio, imponendo calamitosi rallentando all’orchestra e/o gonfiandone il suono con l’anabolizzante di archi strappalacrime, paurose tempeste di decibel alla chiusura del secondo quadro, registi che mettono in scena un migliaio di persone, compresi amanti e parenti. Sono solo esempi, potrei continuare a lungo.
In realtà la vicenda narrata è semplice e non richiederebbe tanta enfasi: quattro studenti in soffitta, per non parlare della fioraia.
Il secondo problema, che si manifesta con sintomi abbastanza simili al primo, è di sprofondare nel verismo più deteriore –a conferma che dagli “ismi” vari è sempre meglio diffidare – perché Bohème è un’opera estranea all’estetica verista.
Una delle grandi novità di questo lavoro pucciniano è infatti il canto di conversazione che per sua natura deve risultare sommesso, lieve, anni luce distante dalle grida e dai drammi di un’opera verista. Una novità così spiazzante che fece dire a uno studioso e critico come Eduard Hanslick “sembra che parlino invece di cantare”. Appunto, a conferma che i critici assai spesso prendono lucciole per lanterne. Al pari del pubblico, peraltro, che alla prima del 1° febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino restò un po’ titubante, per poi ravvedersi già alle prime repliche.
L’opera poi esplose artisticamente in tutto il mondo dall’Europa agli USA.
Allora, per evitare la consueta routine sulla genesi dell’opera e relativa vivisezione della partitura ho pensato di scrivere:

Dieci cose semiserie da sapere sulla Bohème di Puccini.

1)      La vicenda è narrata in un romanzo di Henri Murger (Scènes de la vie de bohème), dal quale Giuseppe Giacosa e Luigi Illica trassero il libretto, riuscitissimo perché calibra magnificamente momenti di spensieratezza a quelli più drammatici.

2)      Esiste anche una Bohème composta da Ruggero Leoncavallo, tratta dalla stessa fonte (Murger). Debuttò alla Fenice di Venezia il 6 maggio 1897. Tra le due Bohème, Gustav Mahler non solo preferiva quella di Leoncavallo, ma disprezzava apertamente l’altra.

3)      Puccini e Leoncavallo bisticciarono per la Bohème. Rivelando il suo spirito toscano Puccini chiamava il collega e rivale Leonbestia!
Addirittura, quando il grande Giacomo seppe che il pubblico veneziano non gradì troppo la Bohème del rivale, scrisse una non memorabile poesiola:
Il Leone fu trombato,
il Cavallo fu suonato
di Bohème ce n’è una
tutto il resto è una laguna

4)      Giulio Ricordi, editore di Puccini, per ragioni cabalistiche volle che Bohème debuttasse a Torino, nello stesso giorno nel quale, tre anni prima, vide la luce Manon Lescaut, primo successo clamoroso di Puccini.

5)      Il compositore francese Claude Debussy disse, testualmente: “Non conosco nessuno che abbia descritto la Parigi di quel tempo tanto bene come Puccini nella Bohème”

6)      La prima fu diretta da Arturo Toscanini, che all’epoca aveva 29 anni.

7)      Ci sono pochissime incisioni discografiche che sono considerate “di riferimento” dalla stragrande maggioranza degli appassionati. Una di queste è la Bohème incisa nel 1972 per la Decca, protagonisti tra gli altri Mirella Freni e Luciano Pavarotti, assolutamente straordinari. Addirittura mirabolante la direzione di Herbert von Karajan.

8)      Sempre a proposito di dischi, nella perfida (per me) incisione diretta da Georg Solti, protagonisti Placido Domingo e Montserrat Caballé, c’è un momento esilarante.
Quando i due cercano la chiave caduta sul pavimento della soffitta, le loro mani si sfiorano e Mimì deve emettere una specie di sospiro di sorpresa. La Caballé, alla quale piaceva strafare, sostanzialmente finge un orgasmo, producendosi in un imbarazzante ahhhhhhh che potrebbe benissimo appartenere a qualche pornazzo.
Provare per credere (l’incisione, non i pornazzi).

9)      Il mio verso preferito della Bohème, che rispecchia perfettamente la mia ottimistica filosofia di vita è: Già dell’apocalisse appariscono i segni, che ripeto come un mantra da quasi 67 anni.

10)   La Bohème favorisce gigionate di gusto rivedibile. Tra le più nefande e note, questa qui sotto, in cui vediamo Domingo&Pavarotti in versione “le star fanno comunque audience e quindi chissenefrega”.

Vi lascio alla visione di questa baracconata di regime, in puro stile trash amerikano e a rileggerci presto. Qui Pavarotti e Domingo vanno fuori tempo, gigioneggiano come nessuno, inventano di tutto. Forse fanno spettacolo, boh.
It’s all folks

Divulgazione semiseria dell’opera lirica: En attendant Boris (Godunov) di Musorgskij, che aprirà la stagione alla Scala di Milano. Alcune cose da sapere per un ascolto consapevole.

Premessa doverosa: il mio amico Vittorio Mascherpa ha scritto, ormai undici anni fa, una specie di testo definitivo (En attendant Boris) sul Boris Godunov di Musorgskij, lo trovate qui ad esempio. Buona parte di questo articolo ha attinto a questa fonte fondamentale.

Di Рузана Ширинян – М. П. Мусоргский, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=118425490

Ci siamo quasi, mancano pochi giorni alla Prima della Scala che quest’anno ha scelto di aprire la stagione con Boris Godunov di Musorgskij. Una scelta coraggiosa, soprattutto di questi tempi, per motivi che non vado ad approfondire perché sono evidenti. La versione dovrebbe essere quella “originale” del 1869, nell’edizione critica a cura di Evgenij Levašev in tre atti.
Spesso, in questi miei articoli di divulgazione semiseria dell’opera lirica, parlo di genesi sofferta o contrastata dell’opera di cui cerco di dare qualche informazione basica.
Nel caso di Boris Godunov di Modest Petrovič Musorgskij “genesi sofferta” o espressioni simili risuonano come pallidissimi eufemismi, tanto che credo di poter affermare con sicurezza che siano davvero poche le opere che possano vantare tante peripezie ex ante – cioè prima di essere rappresentate – e anche ex post, dopo aver visto la luce in teatro. In una disamina, anche sommaria, il tristissimo vocabolo ”censura” sarebbe ripetuto più volte in tutte le sue accezioni.
Insomma, una gran confusione come succede sempre quando si allestisce Boris Godunov che è un’opera – detto per inciso e senza approfondire troppo perché ci vorrebbero giorni (strasmile) – che conta su altre versioni famose: due di Nikolaj Rimskij-Korsakov (grande amico e sodale di Musorgskij, che intervenne sulla partitura dopo la morte del compositore) e due, novecentesche, di Dmitrij Šostakovič.
Quindi cosa posso scrivere di Boris Godunov per indirizzare gli ascoltatori a un ascolto consapevole?

Forse, per prima cosa, è utile ricordare la dichiarazione programmatica sull’Arte di Musorgskij stesso:

“L’Arte è un mezzo di comunicazione con gli altri uomini e non uno scopo”… la missione dell’Arte musicale è di riprodurre in suoni musicali non solo la varietà dei sentimenti umani, ma anche, in genere, il modo della parola umana”.
Poi, una sintesi della trama.

Boris Godunov ha assassinato un giovane, Dmitrij, fratellastro ed erede dello Zar e dopo la morte dello stesso si fa “eleggere” dal popolo sullo scranno più alto. Quasi contemporaneamente, un monaco (Grigorij) scappa dal monastero, si…”smonaca” (strasmile) e va in Polonia, dove finge di essere lo scomparso pretendente al trono Dmitrij. Il cosiddetto finto Dmitrij sposa la figlia di un potentato e attacca la Russia. Immediatamente dopo la notizia della morte di Boris, il falso Dmitrij sfrutta il momento favorevole e prende anch’egli, in modo fraudolento, il Potere.

Poi che io – e sottolineo, io – associo l’opera a Delitto e castigo di Dostoevskij, perché il sentimento della colpa in tutte le sue forme è il vero protagonista della vicenda.
Ancora, che Musorgskij stesso scrisse il libretto dell’opera, traendolo da un dramma teatrale di Puškin e dalla Storia dello Stato Russo di Nikolaj Karamzin.
Infine, che Fëdor Ivanovič Šaljapin è considerato (non da me, ma poco importa) uno dei più grandi interpreti della parte di Boris. Fu proprio il grande carisma di Šaljapin che rese popolare l’opera, ma nella versione oggi considerata meno fedele allo spirito originario dell’autore, quella di Rimsky ‐ Korsakov.

Questa la scena della morte di Boris.

Ancora due parole sul senso più profondo di questo monumento della cultura russa.

Musorgskij tornò più volte nell’arco della sua (infelice) vita sul proprio lavoro eseguendo molti aggiustamenti di taglia e cuci, anche o soprattutto per evitare le forbici della suddetta censura, che ovviamente mal digeriva vedere rappresentato coram populo un omicidio commesso da uno Zar.

La musica del Boris non ha nulla a che vedere con le composizioni coeve e, anzi, per certi versi va contro gli stilemi della lirica della seconda metà dell’Ottocento. È una musica che guarda avanti e che non si cura delle arie e delle melodie tanto care alla grande maggioranza dei compositori del tempo: tutto porta a pensare che Musorgskij sia stato un incommensurabile visionario, anticipatore di un modo di fare teatro più moderno. Nel Boris convivono la musica corale, le danze, la musica liturgica e spunti di brani popolari: il tutto immerso in una specie di lattiginosa nebbia, in cui nulla è perfettamente leggibile o comprensibile. Dal punto di vista vocale, il declamato teso, drammatico e terribilmente coeso alla parola la fa da padrone.
Mi rendo perfettamente conto di non essere stato esaustivo ma, credetemi, per farlo avrei dovuto scrivere un saggio e non un post. Perciò, sperando che queste poche indicazioni siano utili, vi lascio e ci rileggiamo per la consueta recensione espressa del sette dicembre, che ormai è diventata quasi più classica dell’appuntamento in televisione (no, non è vero, ma concedetemi un po’ di fanfaronesca boria!).