Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

La Cenerentola di Rossini ottiene un buon successo al Teatro Verdi di Trieste

La Cenerentola di Gioachino Rossini è una di quelle opere che per molti, troppi anni è rimasta nell’oblio. Sino all’inizio degli anni 50 del secolo scorso nei cartelloni dei teatri Rossini era identificato in gran parte, se non esclusivamente, con Il Barbiere di Siviglia. Si deve a un grandissimo direttore d’orchestra italiano, Vittorio Gui, la “riscoperta” del lavoro rossiniano.

Anche il Teatro Verdi di Trieste non fece eccezione: scorrendo la cronologia delle stagioni balza all’occhio un buco di settanta anni in cui questo melodramma giocoso fu assente dal palcoscenico triestino. È infatti del 1951 la prima ripresa del XX secolo, con Giulietta Simionato nei panni della protagonista. Cenerentola rimane però un titolo – rispetto ad altri – poco frequentato alle nostre latitudini, forse perché un po’ estraneo a quella sfuggente propensione del pubblico triestino per opere più vicine alla propria introversa indole caratteriale, quelle che manifestano sì grazia, ma anche una bella grattugiata di scontrosità.
Ieri, in un teatro affollato, l’opera è stata riproposta nell’allestimento che ha debuttato nel 2022 al Teatro Carlo Felice di Genova per la regia di Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi che si sono ispirati allo storico spettacolo di Emanuele Luzzati.
La dimensione fiabesca, che avrebbe dovuto essere il tratto distintivo della serata, è stata un po’ offuscata da alcune scelte registiche che sono parse gratuite: il coro maschile quasi perennemente tarantolato, per esempio, non mi pare abbia aggiunto granché all’atmosfera di fanciullesco incanto che invece suggerivano le proiezioni – episodicamente un po’ invadenti – e le scene. Altri momenti sono sembrati più riusciti, come gli slow motion ben interpretati dalla compagna artistica e la scena del temporale. Belle le luci, costumi giustamente colorati e fantasiosi ma un po’ anonimi. In linea con la tradizione più nota il lavoro di regia sugli interpreti a conferma di un allestimento gradevole ma che non decolla mai davvero né offre spunti di riflessione particolari.
Brillante la direzione di Enrico Calesso, che ha interpretato la partitura con stile, eleganza e una sobrietà di fondo che ha esaltato sia il brio scoppiettante sia il malinconico abbandono che pervadono il capolavoro rossiniano in cui convivono felicemente un personaggio di opera seria, Angelina, e opera buffa.
La narrazione teatrale ne è uscita pulita, omogenea, e ha permesso di apprezzare sin dall’inizio – penso alla bellissima Sinfonia d’apertura – il virtuosismo dell’Orchestra del Verdi che ha dato esempio preclaro di cosa significhi il crescendo rossiniano.
Detto dell’ottimo rendimento del Coro, molto impegnato anche dal lato scenico, la compagnia di canto è sembrata di buon livello.
Laura Verrecchia, nei panni della protagonista Angelina, ha confermato tutte le qualità già ampiamente note al pubblico triestino che l’ha apprezzata di frequente negli ultimi anni.
Le armi vincenti sono state la voce di bel colore ambrato e il fraseggio vario e mobile, che le ha consentito di tratteggiare una protagonista convincente senza scadere in manierismi zuccherosi. Il mezzosoprano ha risolto senza troppi problemi anche il difficile rondò finale Nacqui all’affanno ed è sembrata disinvolta nella recitazione, improntata a un’introversa sobrietà appropriata al personaggio.
Ottimo il rendimento di Dave Monaco nella parte di Don Ramiro, che è caratterizzata da una scrittura vocale molto acuta e richiede la capacità di spiegare la voce a slanci quasi eroici in alternanza a improvvise parentesi elegiache: paradigmatica, in questo senso, l’aria Sì ritrovarla io giuro nel secondo atto, applaudita a scena aperta dal pubblico.
Carlo Lepore è stato convincente come Don Magnifico, del quale ha saputo restituire l’originaria provenienza dalla commedia dell’arte napoletana. Disinvolto dal lato scenico, Lepore ha anche una voce sonora di bel timbro e ha affrontato con sicurezza l’arduo sillabato rossiniano.
Bravo Giorgio Caoduro, che ha tratteggiato con arguzia lo spassosissimo Dandini, uno dei personaggi più divertenti dell’opera italiana. Il baritono, in una parte di tessitura piuttosto alta, ha cantato con pertinenza stilistica e grande civiltà vocale, evitando quegli eccessi interpretativi che con la musica di Rossini c’entrano nulla.
Alidoro è il protagonista occulto dell’opera ed è stato ben interpretato da Matteo D’Apolito, che ne ha esaltato l’umanità e l’autorevolezza.
A completare il cast Carlotta Vichi e Federica Sardella che erano le due insopportabili e viperine, ma divertenti, sorelle Tisbe e Clorinda.
La serata è stata apprezzata dal pubblico che ha applaudito spesso a scena aperta e alla fine ha tributato un grande successo a tutta la compagnia a artistica.

AngelinaLaura Verrecchia
Don RamiroDave Monaco
DandiniGiorgio Caoduro
Don MagnificoCarlo Lepore
AlidoroMatteo D’Apolito
TisbeCarlotta Vichi
ClorindaFederica Sardella
  
DirettoreEnrico Calesso
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaPaolo Gavazzeni e Piero Maranghi
Scene e costumi ispirati all’allestimento di Emanuele Luzzati 
Costumi ripresi daNicoletta Ceccolini
Contributi videoGiuseppe Ragazzini
  
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste




Divulgazione semiseria della musica lirica: considerazioni laterali su La Cenerentola di Rossini, dal 26 aprile al Teatro Verdi di Trieste

È molto difficile cercare di inquadrare La Cenerentola, ossia la bontà in trionfo di Gioachino Rossini, di là di ciò che recita ulteriormente il frontespizio del libretto di Jacopo Ferretti: melodramma giocoso, cioè un genere operistico che oscilla tra l’opera buffa e l’opera seria.
Certo, il soggetto si basa evidentemente sulla notissima fiaba di Charles Perrault (Cendrillon ou La petite pantoufle de vair), ma Ferretti – che dovette slalomeggiare anche tra gli stretti paletti della censura pontificia – si rifece anche ad altri testi per questo capolavoro che debuttò al Teatro Valle di Roma il 25 gennaio 1817.
Dicevo sopra della censura pontificia che, tra le altre cose, fu anche responsabile della “scomparsa” della famosa scarpetta – cui siamo tutti affezionati – di Cenerentola dal testo dell’opera. Per quanto oggi possa sembrare assurdo, a quei tempi era impensabile che in pubblico e a maggior ragione in un teatro la donna scoprisse un piede o una caviglia: le cantatrici erano considerate dalla Chiesa, nella migliore delle ipotesi, meretrices honestae.
Nonostante ciò, il libretto è uno dei punti di forza dell’opera, perché i versi sono all’altezza della musica di Rossini per inventiva, brio ed eleganza.
Chissà, forse è proprio vero – com’è stato sostenuto – che Ferretti abbia voluto dimostrare a Rossini che avrebbe meritato di verseggiare anche Il Barbiere di Siviglia che risale all’anno precedente.
Rossini poi ci mise del suo, ovvio, a partire dai fulminei tempi di composizione (tre settimane, ma ha fatto di meglio) e anche grazie alla consueta prassi dell’autoimprestito – peraltro comune a molti compositori di quegli anni – e cioè alla rielaborazione di alcune pagine musicali già scritte per altre opere: nel caso della Cenerentola la Sinfonia è tratta da La Gazzetta, mentre il rondò finale di Angelina si rifà all’aria del Conte di Almaviva dal Barbiere di Siviglia. Il grande Gioachino scelse anche di lasciare a uno dei suoi assistenti, Luca Agolini, la responsabilità della scrittura di alcuni recitativi secchi.
Rimangono nella trama, imperturbabili, le due sorellastre cattive (Clorinda e Tisbe), mentre la matrigna cambia sesso e diventa un patrigno (Don Magnifico) che mantiene però le crudeli caratteristiche del personaggio originale. C’è anche “il Principe azzurro”, che in questo caso si chiama Don Ramiro.
Fondamentale è il ruolo di Dandini, il cameriere di Don Ramiro che tesse la trama di tutta la commedia degli equivoci su cui si basa la storia. Chiude la schiera dei personaggi Alidoro, un saggio filosofo che ha anch’egli parte importante nell’intreccio.
Dal punto di vista musicale La Cenerentola rifulge di una scoppiettante brillantezza screziata in alcuni momenti da melodie più intime e accattivanti. Il coro, solo maschile, dà ulteriore spessore ad alcune pagine della partitura. I protagonisti hanno a loro disposizione arie bellissime, in cui possono dimostrare tecnica e virtuosismo e devono inoltre avere capacità attoriali rilevanti, soprattutto per quanto riguarda i personaggi di Don Magnifico e Dandini.
Chiudo con una curiosità: il contralto Geltrude Righetti Giorgi fu la prima interprete della parte di Angelina; la stessa cantante creò, l’anno precedente, la parte di Rosina del Barbiere di Siviglia.
Alla fine, censura o meno, il carattere di critica o comunque di valutazione negativa nei confronti di una certa società borghese e trafficona, povera di sentimenti e d’intelletto è evidente: trionfano la semplicità e l’arguzia popolari.
Certo che un giorno qualcuno dovrà spiegarmi come mai tutte queste brave ragazze sognino di farsi sposare da un principe azzurro evidentemente farfallone, dal momento che si promette sposo a Cenerentola, La Bella Addormentata, Biancaneve e chissà quante altre povere ragazze meno note. Ma questa è un’altra storia.

Recensione seria di Mefistofele al Teatro La Fenice di Venezia. La musica salverà il mondo? No.

Opera sostanzialmente ormai quasi sconosciuta grazie alla lungimiranza delle direzioni artistiche dei teatri che ci propongono sino alla nausea Traviate e Bohème, Mefistofele è una perla della cultura italiana in toto e dovrebbe essere frequentata al pari di altri capolavori. Ed è così per molti motivi di cui il primo è probabilmente che l’opera, tratta dal Faust di Goethe, è uno dei simboli di una temperie trasversale devastante, quella della “scapigliatura”, che sconquassò le acquisite certezze dell’establishment culturale nella seconda metà dell’Ottocento e di cui ancora oggi si percepiscono le conseguenze.
Perciò grazie allo staff del Teatro La Fenice per aver riproposto – dopo più di cinquant’anni – il capolavoro di Arrigo Boito.
Definire tormentata la genesi di Mefistofele è davvero sottile eufemismo perché, dopo il fiasco della prima del 1868, il compositore rimaneggiò completamente il proprio lavoro che purtroppo nella forma originale è andato perduto, forse distrutto da Boito stesso. Il gioco evidentemente valse la candela, in quanto nel 1875 l’opera rivisitata, a Bologna, ottenne un franco successo.
I grandi capolavori si distinguono perché sono senza tempo e parlano al pubblico di tutte le epoche e, in questo senso, Mefistofele è il paradigma dell’opera d’Arte tout court.
La lotta tra il Bene e il Male è ovunque, nella cronaca di ogni giorno, nelle guerre acclarate o sottotraccia, nel labirinto inestricabile dei rapporti personali, nei femminicidi, nel razzismo, nel girone infernale del Silos di Trieste, nello stupro della Natura.
Lo spettacolo è firmato per la regia da Moshe Leiser e Patrice Caurier e, nonostante qualche criticità nel Prologo che mi è sembrato prolisso e statico a dispetto dello spunto creativo, il duo francese centra l’obbiettivo con un allestimento sfolgorante, a tratti barbarico, spesso sopra le righe e temperato da squarci quasi minimalisti.
In un teatro abbandonato, in pieno clima urbex, un Mefistofele annoiato dopo aver fatto una doccia si mette a guardare la televisione dove passano le consuete scene di guerre, sermoni religiosi e amenità varie.
La sua diabolica attenzione viene catturata dal mite e rassegnato Faust, che filosofeggia sulla vita e sulla morte studiando il violoncello. Decide quindi di tentarlo con la promessa di una vita straordinaria e rutilante, piena di emozioni forti e proibite e lo inizia alla droga più pesante.
Da questo momento in poi lo spettacolo decolla, anche grazie alle scenografie – dello stesso Leiser – e soprattutto all’impianto luci rutilante di Christophe Forey, oltre che ai costumi fantasmagorici di Agostino Cavalca. Buone e funzionali allo spettacolo le proiezioni di Etienne Guiol e le coreografie di Beate Vollack.
La scena del Sabba è risultata efficacissima ma la regia non ha mancato di caratterizzare con puntualità anche i singoli personaggi, avvalendosi di una scenotecnica realizzabile grazie all’avanzata tecnologia del palcoscenico del teatro lagunare.
Una riflessione personale sul finale, che sembra quasi suggerire che la musica (e l’Arte in generale) potrebbe salvare il mondo: no, non è così è un’impostura della gente plebea.

Nicola Luisotti, alla testa di un’Orchestra della Fenice in serata eccellente in tutte le sezioni, lavora in simbiosi con la regia. L’interpretazione ha un passo teatrale incalzante, con qualche saltuario eccesso di decibel – ma stiamo parlando del Mefistofele, che è opera di eccessi – ma anche con la dovuta attenzione ai momenti di raccoglimento, che non sono pochi, in cui l’accompagnamento ai cantanti è delicato e amorevole. Perciò dinamiche segnatamente contrastate, agogiche forse un po’ pigre in qualche occasione, ma la narrazione teatrale alla fine è sembrata efficace e scorrevole.
Alex Esposito si conferma ottimo cantante e attore consumato, per quanto la voce manchi di quel timbro e colore da basso puro che in questa parte aiuterebbe a tratteggiare meglio la tenebrosa ambiguità del ghiribizzoso personaggio. L’artista però è di primo piano e il fraseggio, le nuance interpretative e la dinamicità in scena contribuiscono a far sì che il suo Mefistofele emozioni e arrivi al pubblico, che infatti lo ha premiato con un trionfo.
Piero Pretti è stato adeguato nei panni di Faust sia dal lato scenico, che lo voleva un po’ dimesso, sia da quello vocale. La scrittura della parte risente probabilmente dell’originaria stesura per baritono, perciò è impegnativa e onerosa in quanto gravita parecchio sul passaggio e gli acuti sono scomodi. Nonostante ciò le arie sono state eseguite con proprietà, pertinenza stilistica e smalto.
In crescendo la prova di Maria Agresta la quale, dopo una sortita prudente, è risultata emozionante e coinvolta nella scena del carcere in cui ha connotato il personaggio di tutta la drammaticità necessaria e arricchendo di tensione emotiva le due difficili arie del terzo atto.
Buona anche la prestazione di Maria Teresa Leva nei panni di Elena, in cui ha potuto evidenziare il bel colore ambrato della voce.
Hanno ben completato il cast Kamelia Kader (Marta/Pantalis) ed Enrico Casari (Wagner/Nereo).
Eccellente il rendimento del Coro in un’opera che lo vede protagonista al pari dei solisti e bravissimi anche i ragazzi del Coro di voci bianche.
Teatro esaurito da mesi e pubblico che ha tributato un notevole successo a tutta la compagnia artistica e in particolare ad Alex Esposito.

Mefistofele Alex Esposito
Faust Piero Pretti

Margherita

Maria Agresta
Marta Torbidoni
(20/4)

Marta/Pantalis Kamelia Kader
Elena Maria Teresa Leva
Wagner/Nereo Enrico Casari

Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
direttore Nicola Luisotti
maestro del Coro Alfonso Caiani

coro voci bianche Piccoli Cantori Veneziani
maestro del Coro Diana D’Alessio
altro maestro del Coro Zoya Tukhmanova

regia Moshe LeiserPatrice Caurier
scene Moshe Leiser
costumi Agostino Cavalca
light designer Christophe Forey
video designer Etienne Guiol
coreografia Beate Vollack

“Parole&Musica attraversano i confini”: una nuova rassegna dedicata al Lied a Trieste

Trieste è una piccola città ma è ricchissima, da sempre, di iniziative culturali ad ampio spettro.
Sono frequenti le occasioni in cui ci sono diversi eventi concomitanti e bisogna a malincuore fare una scelta.
Vale anche per la musica colta – ammesso che l’aggettivo sia pertinente – perché oltre alle istituzioni più note come il Teatro Verdi e la Società dei Concerti operano sul territorio numerose associazioni culturali che allestiscono serate di ottimo livello dedicate alla musica da camera, alla musica antica e quant’altro.
È il caso dell’Associazione Friedrich Schiller, con la direzione artistica di Elia Macrì, che propone in queste settimane “Parole&Musica attraversano i confini”: una nuova rassegna dedicata al Lied e non solo che calza perfettamente alla vocazione mitteleuropea del capoluogo regionale, da sempre crocevia di culture di confine. Alla manifestazione, che si svolgerà in sei appuntamenti sino a giugno inoltrato,  si affianca anche un concorso dedicato alla musica liederistica che vedrà in giuria, tra gli altri, Fabio Nieder e Salvatore Sciarrino. Lo stesso Macrì è intervenuto all’inizio per declinare le aspettative e la mission dell’associazione.
Per chi scrive è stata una grande emozione tenere a battesimo un progetto lungimirante e ben strutturato, che promuove un’Arte, quella del Lied, che pur essendo di provenienza tedesca ha molte affinità elettive con l’immaginario collettivo delle nostre terre.
Il programma era molto interessante e prevedeva l’esecuzione di brani di Robert Schumann, Josef Rheinberger e Johannes Brahms, affidati a due artisti che fanno parte della fondazione triestina – Benjamin Bernstein, prima viola dell’Orchestra del Verdi e il contralto Anna Katarzyna Ir artista del Coro – e la pianista Natalia Morozova.
Il concerto, che si è svolto nell’Auditorium Marco Sofianopulo del Museo Revoltella perché la Sala Beethoven è momentaneamente inagibile, è principiato con il Märchenbilder op.113 di Schumann.
Strutturata in quattro brevi movimenti, la pagina musicale si snoda con leggerezza in un continuo dialogo tra il suono caldo e avvolgente della viola e gli spesso delicati interventi del pianoforte, in un susseguirsi di atmosfere cangianti e oniriche che si compenetrano con dolcezza.
A  seguire è entrata in scena il contralto Anna Katarzyna Ir, che è stata protagonista di un piccolo tour de force in cui ha cantato ancora Schumann (Widmung), i Fünf Lieder op.4 di Rheinberger e dello stesso compositore Gesänge altitalienischer Dichter, alternando quindi la lingua tedesca a quella italiana tra microclimi psicologici anche assai diversi tra loro sulle liriche, tra gli altri, di Heine. Bellissima, in particolare, l’esecuzione dell’eterea Sapphische Ode di Brahms.
Ancora Brahms è stato protagonista nel finale del concerto, prima con la Sonata per viola e pianoforte op.120 n.2  – ricca di malinconici chiaroscuri – e poi con i Zwei Gesänge op.91 per contralto, viola e pianoforte.
Gli esiti artistici della serata sono stati ottimi e sembra quasi inopportuno sottolineare come i protagonisti siano stati all’altezza dell’impegno. Mi limito a segnalare il legato, la concentrazione e la compostezza di Benjamin Bernstein, il passionale pianismo di Natalia Morozova e il bellissimo colore della voce di Anna Kataryna Ir, che hanno tutti raccolto un meritatissimo successo e alla fine hanno concesso anche un bis, eseguendo Morgen! di Richard Strauss.
Di là di ogni altra considerazione è stata una serata emozionante, un viaggio seguito con attenzione dal pubblico in una sala che ha presentato qualche criticità dal punto di vista dell’acustica, almeno dalla mia posizione. Il che mi suggerisce una domanda che resterà senza risposta: oltre che investire nel turismo – mi si perdoni – straccione, vedremo a Trieste una sala da concerto decente, un giorno?

ViolaBenjamin Bernstein
PianoforteNatalia Morozova
ContraltoAnna Katarzyna Ir
  
Robert SchumannMärchenbilder op.113
Robert SchumannWidmung
Josef RheinbergerFünf Lieder op.4
Josef RheinbergerGesänge altitalienischer Dichter
Johannes BrahmsSapphische Ode op 94
Johannes BrahmsSonata per viola e pianoforte op 120 n.2
Johannes BrahmsZwei Gesänge op.91
  
Direzione artistica Elia Macrì

Un Nabucco interminabile ottiene un buon successo al Teatro Verdi di Trieste

Nabucco, notoriamente, è l’opera che diede la svolta alla carriera di Giuseppe Verdi ed è una delle più autenticamente popolari del Maestro.
Opera risorgimentale, che negli anni è diventata simbolo senza confini di liberazione dei popoli oppressi, Nabucco è un lavoro in cui i contrasti laceranti tra pubblico e privato si compenetrano nel contesto di un conflitto che è religioso e politico.
Giancarlo Del Monaco, regista di questa produzione che proviene da Zagabria, sceglie di evidenziare la parte più squisitamente politica ambientando la vicenda durante le Cinque giornate di Milano.
Le scenografie di William Orlandi sono imponenti e quasi intimidatorie, mentre i costumi sono sembrati pertinenti ma un po’ dimessi e l’impianto luci – di Wolfgang von Zoubek  – piuttosto piatto e privo di cromatismi che avrebbero, forse, ravvivato un allestimento che ha sofferto di una spossante staticità accentuata da due intervalli e tre cambi scena che hanno ucciso la continuità della narrazione e assassinato l’incalzante drammaturgia teatrale.
C’è poi l’annosa questione del coro Va pensiero, ieri bissato a furor di…Daniel Oren, che sostanzialmente ha incitato il pubblico a replicare il famoso coro. Gli applausi, meritatissimi, dopo la prima esecuzione sarebbero stati più che sufficienti. Il bis ha solo stremato ulteriormente pubblico e compagnia artistica senza aggiungere nulla alla tensione emotiva della serata.
Daniel Oren sul podio dell’Orchestra del Verdi, quindi, un connubio artistico complessivamente felice nel passato e – dopo qualche problema risolto non senza difficoltà – rinnovato negli ultimi anni.
Anche ieri la direzione di Oren è sembrata di ottimo livello sia nell’accompagnamento ai cantanti sia nella gestione delle problematiche dinamiche della partitura, che alterna momenti di raccoglimento ad altri di infuocata tensione. Trovare un equilibrio non è facile e, nonostante qualche episodico eccesso di decibel, l’interpretazione del maestro israeliano è stata efficace. L’Orchestra del Verdi ha risposto benissimo alle sollecitazioni del podio con un suono genuinamente verdiano in cui archi e legni si sono distinti in modo particolare.
Roman Burdenko è stato protagonista di una prova più che buona e ha tratteggiato in modo efficace il Re di Babilonia, connotandolo di tutti quei turbamenti e quelle esuberanze caratteriali che caratterizzano il personaggio. Fraseggio curato, attenzione alla parola scenica e – da non sottovalutare – uno strumento vocale omogeneo in tutti i registri, acuti compresi.
Maria José Siri, che nel finale è stata sostituita per un’improvvisa indisposizione da Olga Maslova – in teatro faceva caldissimo – ha interpretato Abigaille con la consueta solidità vocale e acuti ragguardevoli, anche se da un soprano del suo livello ci si aspetterebbe un fraseggio più mobile.
Rafal Siwek è stato uno Zaccaria di grande umanità al quale è però mancata quella autorevole ieraticità che caratterizza il personaggio.
Carlo Ventre, Ismaele, ha affrontato con slancio una parte tenorile ingrata e poco remunerativa perché non ha grandi arie o melodie accattivanti, ma ne è uscito con dignità.
Elmina Hasan è stata bravissima nei panni di Fenena, anche se nella bellissima aria Oh, dischiuso è il firmamento è sembrata un po’ intimidita.
Buono il rendimento di Cristian Saitta (Gran Sacerdote di Delo) ed efficace Christian Collia nei panni di Abdallo; completava il cast Elisabetta Zizzo (Anna).
Eccellente – e non solo nel Va pensiero –  il Coro del Verdi, preparato da Paolo Longo.
Teatro sostanzialmente esaurito, ed è sempre una bella notizia. Pubblico partecipe che ha tributato un franco successo a tutta la compagnia, manifestando particolare calore per Roman Burdenko e Daniel Oren.
Segnalo che giovedì 28 marzo alle 20 è stata programmata last minute un’esecuzione della Messa di Requiem verdiana.

NabuccoRoman Burdenko
AbigailleMaria José Siri
ZaccariaRafal Siwek
IsmaeleCarlo Ventre
FenenaElmina Hasan
Gran Sacerdote di BeloCristian Saitta
AbdalloChristian Collia
AnnaElisabetta Zizzo
  
DirettoreDaniel Oren
Direttore del CoroPaolo Longo
  
RegiaGiancarlo Del Monaco
Scene e costumiWilliam Orlandi
Impianto luciWolfgang Von Zoubek
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
Civica Orchestra di fiati “Città di Trieste”

Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Nabucco di Giuseppe Verdi, da venerdì 22 marzo al Teatro Verdi di Trieste.

Nabucco di Giuseppe Verdi è ormai quasi come una tassa, mi si perdoni l’irriverenza, e oltretutto in generale non è proprio una delle mie opere preferite.
Di là di queste considerazioni del tutto personali – e probabilmente fuori luogo – il lavoro di Verdi torna venerdì prossimo al Teatro Verdi di Trieste: è d’uopo perciò la consueta operazione di divulgazione semiseria per coloro che non conoscono quest’opera.
Quando, a proposito di Giuseppe Verdi, si parla di anni di galera, il neofita potrebbe pensare che ci si riferisca a un periodo in cui il nostro compositore più noto fosse in ambasce economiche (o peggio, chissà!): in realtà Verdi dopo il successo straordinario di Nabucco (che debuttò nel 1842) diventò un personaggio molto richiesto da tutti i teatri e il lavoro non gli mancò di certo.
Quell’espressione che evoca fatica e sofferenza, allora, va intesa in un altro modo: stress da superlavoro e probabilmente, ma è un’interpretazione mia, parziale insoddisfazione personale perché Verdi aveva il dono dell’autocritica e la propensione al perfezionismo, che gli facevano percepire – al di là della risposta del pubblico – che in certe occasioni il prodotto finito non era all’altezza dei propri standard.
Del resto, che Verdi fosse molto richiesto è testimoniato dai fatti e dalle date: tra il 1844 e il 1846 sfornò ben cinque opere ( Ernani, I due Foscari, Giovanna d’Arco, Alzira, Attila) e poi, sino al 1850, altre sette (ultima lo Stiffelio). Un tour de force notevole. Cinque opere in così poco tempo sono tante anche per un genio della composizione, significano preoccupazioni di ogni genere.
Il rispetto dei tempi di consegna, per esempio, fu un fattore molto importante e influenzato da più variabili: i capricci dei cantanti, che erano primedonne anche a quei tempi, e pretendevano arie che dessero loro visibilità e trionfi personali. Oppure le incomprensioni con i librettisti, che spesso tendevano a scriversi addosso, ignorando una delle regole irrinunciabili che si era dato Verdi: la brevità che doveva favorire uno sviluppo drammaturgico incalzante.
Tutto questo, e molto altro, andava gestito mentre Verdi viaggiava attraverso l’Italia da una città all’altra, da un teatro nel quale debuttava un’opera a un altro dove s’imponeva una ripresa di un lavoro precedente, magari con un allestimento nuovo.
Inevitabile, allora, scoprirsi o essere scoperti dalla critica se non ripetitivi, almeno autoreferenziali.
Ma torniamo all’epoca pre-Nabucco.
Il Maestro stava passando un momentaccio dal punto di vista psicologico. L’esito del suo ultimo lavoro, Un giorno di Regno, fu a dir poco contrastato, tanto che l’opera fu ritirata dalle scene, e il nostro si ritrovò a soli 27 anni con le batterie scariche.
Cosa gli stava succedendo e da quali circostanze nacque il Nabucco?
Le testimonianze provengono da fonti molto autorevoli, ad esempio da Giulio Ricordi, che segnala come Verdi, in una lettera all’amico Opprandino Arrivabene [un nome meraviglioso, secondo me, tipo Don Diego de la Vega (strasmile)] parlando della genesi di Nabucco scriva così, riferendosi all’impresario scaligero Merelli:

Egli stesso (Merelli) molti mesi dopo mi sforzò a leggere il libretto del “Nabucco”  

Lo scrittore piemontese Michele Lessona, invece, in un suo saggio dedicato alle figure artistiche emergenti dell’epoca, addirittura parla di un Verdi “appartato da tutti” che legge “da mane a sera pessimi libri, e per lo più romanzacci che anche allora si stampavano in gran copia a Milano”. Dopo varie circostanze, il Merelli “fa scivolare in tasca a Verdi il manoscritto di “Nabucco” e il Maestro rimane folgorato dalla frase Va’, pensiero, sull’ali dorate. Dopo pochi mesi, l’opera era pronta.
Lavoro molto particolare, il Nabucco. Verdi stesso sostiene che “con quest’opera si può dire veramente che abbia principio la mia carriera artistica.” E pensare che Merelli, dopo tanto certosino lavoro ai fianchi del compositore, decise di allestire lo spettacolo anche perché poteva riciclare i costumi e gli scenari di un balletto intitolato “Nabuccodonosor” di Antonio Cortesi. Insomma la spending review è sempre esistita.

Temistocle Solera

Il librettista di Verdi in questa circostanza fu un personaggio davvero singolare, Temistocle Solera, che già aveva collaborato col Maestro di Busseto per l’Oberto.
Questo Solera, da ragazzino, era scappato da un convitto viennese per lavorare in un circo itinerante; in Ungheria poi era stato arrestato dalla polizia austriaca ma non prima di aver goduto, a quanto pare alla verde età di 13 anni, “dei maturi favori della padrona del circo stesso”.
Julian Budden, uno dei più autorevoli studiosi di Verdi, ci informa ancora che negli anni successivi Solera, dopo aver rotto il sodalizio artistico con Verdi, fu impresario teatrale a Madrid, presunto amante della Regina Isabella di Spagna, editore di una rivista ecclesiastica a Milano, corriere segreto tra Napoleone III e il Kedivé d’Egitto , acquaiolo a Livorno e antiquario a Firenze.
Un uomo dai molteplici talenti (strasmile).
Resta il fatto che proprio Solera è uno degli artefici principali del successo di Nabucco.
Il librettista si rifece sia al balletto nominato qualche riga più sopra sia al dramma da cui lo spettacolo fu tratto ( “Nabuccodonosor”, di Anicète Bourgeois e F. Cornue), traendo però da entrambi i lavori le peculiarità più funzionali alle particolari dinamiche drammaturgiche verdiane: straordinaria, nello specifico, la centralità narrativa data al coro.
I ruoli principali di Nabucco sono tutti di grande difficoltà e come sempre a quei tempi la tessitura vocale venne cucita su misura alla vocalità dei migliori interpreti sulla piazza: il baritono Giorgio Ronconi, Nabucco, e il basso profondo Prosper Dérivis, Zaccaria.
Curiosamente proprio la parte più spaventosa dal punto di vista artistico, invece, cioè quella della terribile Abigaille (grandiosa la sua entrata sprezzante: “Prode guerrier!… d’amore Conosci tu sol l’armi?”  che già ci fa capire che è un tipino tosto) non fu sartorialmente pensata per un soprano in particolare, e Giuseppina Strepponi (la futura Signora Verdi) s’assunse l’onere del debutto.
Un’altra curiosità su quest’opera, tra le tante che si potrebbero citare: Solera la divide non in atti, ma in quattro quadri, ognuna con un titolo. Inoltre, volle aggiungere a ogni quadro una frase tratta da Geremia.
Anche in questo lavoro, Verdi conferma la sua grande propensione allo studio dell’arte rossiniana, in particolare si riconoscono echi del Guillamme Tell e ispirazioni strutturali dal Moïse et Pharaon.
Chiudo con un’ultima considerazione.
Dal punto di vista psicologico (e anche strettamente vocale, con quella scrittura nervosa, tutta sbalzi) i ruoli sopranili di Abigaille e Lady Macbeth hanno parecchi tratti in comune: la sete di potere, l’assenza di scrupoli morali.
Domanda da pochi cent: chi è stata la più grande cantante interprete di Abigaille e Lady Macbeth?
Prendetevi dieci minuti e ascoltate una delle più grandi performance vocali di cui esista traccia sonora.

Mahler e Strauss, colti in composizioni giovanili, protagonisti con il Quartetto Werther alla Società dei Concerti di Trieste.

Un’altra serata dedicata alle composizioni per “quartetto” nella stagione della Società dei Concerti di Trieste: protagonista il Quartetto Werther che ha eseguito pagine musicali di Mahler/Schnittke e Strauss.
L’ensemble è costituito da giovani musicisti che hanno studiato insieme in Conservatorio dove hanno trovato unità d’intenti e passione comune.
Gli esiti artistici di questo affiatamento si sono manifestati subito, perché già nel 2020 si sono aggiudicati il Premio Abbiati, conferito dall’Associazione Nazionale Critici Musicali di cui chi scrive fa immeritatamente parte.
Il tema del concerto erano brani di due giganti della Musica come Mahler e Strauss colti in composizioni giovanili, prima che diventassero appunto celeberrimi.
Nel caso del quartetto di Mahler la situazione è singolare, perché c’è stato sul lacerto di musica autografa un intervento aggiuntivo di Alfred Schnittke, compositore russo polistilista dalla vita assai travagliata, che nel 1988 riesumò le note mahleriane e ne prese ispirazione per uno Scherzo in cui le atmosfere classicheggianti vengono inghiottite dalle inquietudini del Novecento.
Il risultato è avvincente ma piuttosto straniante, perché la transizione tra i due movimenti è sembrata violenta e piuttosto artefatta.
Diverso il discorso per quanto riguarda i Cinque pezzi per quartetto con pianoforte di Richard Strauss, una raccolta forse non troppo omogenea nell’ispirazione ma che comunque lascia intravedere in nuce lo straordinario talento visionario del Compositore, soprattutto nella trascinante e originale Arabischer Tanz.
Dopo l’intervallo è stato eseguito, sempre di Strauss, il Quartetto in do minore op.13 in cui si fiuta una diversa maturità espressiva che si manifesta con una pagina musicale di ampio respiro sinfonico nonostante l’organico ridotto.
Per chi conosce la musica di Strauss la sensazione è stata quasi di percepire l’afflato di un artista pronto al decollo ma ancora trattenuto a terra da qualche remora psicologica.
I giovani del Quartetto Werther sono stati protagonisti di una prova maiuscola per pertinenza stilistica, pulizia interpretativa e tecnica. Inoltre, il gruppo trasmette una piacevole sensazione di empatia col pubblico e di divertimento nel fare musica insieme, che si evidenzia anche con un portamento equilibrato e disinvolto sul palco.
Più volte chiamati al proscenio, hanno proposto come bis una elettrizzante interpretazione del Rondò del Primo quartetto in sol minore di Brahms che da sola valeva la partecipazione alla serata.

ViolinoMisia Iannoni Sebastianini
ViolaMartina Santarone
VioloncelloVladimir Bogdanovic
PianoforteAntonio Fiumara
  
Gustav Mahler/Alfred SchnittkeQuartetto in la minore per pianoforte e archi
Richard StraussCinque pezzi per quartetto con pianoforte
Richard StraussQuartetto in do minore op.13
  
Quartetto Werther

Il Kelemen Quartet alla Società dei Concerti di Trieste: Haydn e Bartók emozionano con i loro Quartetti.

La stagione della Società dei Concerti di Trieste, che prevede ben quattordici serate, è nel pieno dello svolgimento.
Ancora qualche numero: per la storica istituzione culturale triestina questa è la novantaduesima stagione e nell’arco degli anni i concerti sono arrivati a 1506, una quantità davvero impressionante che testimonia una presenza sul territorio continua e, soprattutto, di qualità.
Ieri è stata la nobilissima e antica Arte del Quartetto d’archi a essere protagonista, declinata da due giganti del repertorio come Haydn e Bartók. È stata l’occasione per un viaggio in tempi e stili diversi, in cui le personalità dei due compositori si sono affacciate sul palcoscenico del Teatro Verdi grazie all’esibizione del Kelemen Quartet nella classica formazione che prevede due violini, una viola e un violoncello.
La serata si è aperta con l’esecuzione del Quartetto per archi in re minore Op. 76 n. 2 “Delle Quinte” in cui si fa riferimento alle coppie di quinte discendenti dell’Allegro iniziale.
In questa pagina si percepisce subito il clima tardo settecentesco, di transizione, tipico della musica dell’Haydn più maturo. I rimandi e i dialoghi tra gli strumenti costruiscono una trama gentile, spesso un po’ âgé (penso al Minuetto) in cui c’è però spazio anche per ragguardevoli virtuosismi del violino sul pizzicato degli altri strumenti.
Immediato, sin dalla prima nota, il cambio di temperie culturale col secondo brano, il Quartetto n.4 in do maggiore di Béla Bartók in cui le inquietudini del Novecento e le suggestioni di Stravinskij si intersecano in un ritmo sincopato innervato da una tensione emotiva che si dipana tra strappi, pizzicati e arditi cromatismi.
C’è spazio anche per un breve lacerto (nel terzo tempo, non troppo lento) in cui il violoncello è protagonista di un’oasi se non melodica meno percussiva e incalzante; la musica della notte in perfetto stile bartokiano.
Dopo l’intervallo, è stata ancora la volta del genio ungherese, in questo caso nel Quartetto n.3 che, a parere di chi scrive, rappresenta l’essenza dell’ispirazione di Bartók.
Vi si ritrovano infatti buona parte dei topoi del compositore, che si rifanno anche alla Seconda Scuola di Vienna con il caratteristico carico di dissonanze, atonalità e asperità quasi brutali pur restando nell’ambito di un approfondimento della musica popolare ungherese in chiave espressionista.
Il Kelemen Quartet nell’arco della serata è stato protagonista di una prestazione magnifica per unità di intenti, controllo delle dinamiche, tecnica e virtuosismo.

 Soprattutto, ha dato conferma di come il quartetto sia anche una metafora felicissima del detto popolare “L’unione fa la forza”, nel senso che il lavoro di gruppo e l’armonia umana e artistica tra gli interpreti è l’unico modo per arrivare a un risultato finale prezioso; i protagonismi, gli eccessi dell’ego possono aspettare.
Il pubblico, a dire il vero non strabordante, ha decretato un grande successo alla serata che si è chiusa con un bis ancora dedicato a Bartók. La Burletta dal Quartetto n.6, in cui ancora una volta il pizzicato è stato al centro dell’attenzione.

Franz Joseph HaydnQuartetto per archi in re minore Op. 76 n. 2 “Delle Quinte”
Béla BartókQuartetto n.4
Béla BartókQuartetto n.3
  
ViolinoBarnabas Kelemen
ViolinoJonian Ilias Kadesha
ViolaKataklin Kokas
VioloncelloVashti Hunter
  
Kelemen Quartet

Recensione seria di Ariadne auf Naxos di Richard Strauss al Teatro Verdi di Trieste

Dopo un’assenza di venti anni è tornata al Teatro Verdi di Trieste Ariadne auf Naxos di Richard Strauss in un allestimento già visto a Bologna un paio di anni fa e che sarà a Venezia tra un paio di mesi.
Il teatro triestino ha coprodotto lo spettacolo che è stato affidato alla regia di Paul Curran, qui ripresa da Oscar Cecchi.
Opera dai mille volti e paradigma del metateatro, Ariadne auf Naxos è il frutto, squisito, di una delle tante collaborazioni tra Hofmannsthal e Strauss e contiene molte caratteristiche che la rendono peculiare a cominciare dalla compagine orchestrale che, al contrario del solito in Strauss, è praticamente cameristica.
L’allestimento di Curran è interessante e ben realizzato nelle scene di Gary Mc Cann, più scorrevole nel Prologo – per ovvi motivi, c’è più azione e il caos è enfatizzato dalla regia – e leggermente statico nella seconda parte, quella più prettamente legata alla mitologia greca. È uno spettacolo pensato, in cui si vede una notevole cura rivolta alle interazioni tra i tanti personaggi e i figuranti; le controscene hanno un loro senso e aggiungono dinamismo e qualche sprazzo di umorismo all’azione, al pari delle mini-coreografie pensate per il quartetto delle maschere e per le tre ninfe.
Molto centrati nella loro eccentricità anche i costumi che, nonostante spesso sforino ampiamente il limite del kitsch, sono funzionali all’idea registica al pari del rutilante impianto luci di Howard Hudson.
Oscar Cecchi, che per l’occasione ha ripreso la regia, ha fatto un ottimo lavoro anche se – parole sue – ha dovuto sacrificare qualcosa dell’allestimento originale per esigenze di spazio.
Protagonista assoluta della serata è stata l’Orchestra del Verdi che ha suonato benissimo, trovando corposità di suono e al contempo meditata leggerezza nell’intero arco della serata.
Quando una compagine suona bene ci sono sempre meriti intrinsechi nel valore dei professori d’orchestra ma la lettura e l’interpretazione del direttore sono fondamentali.
Enrico Calesso sugli scudi, quindi, perché la sua declinazione della partitura straussiana ha brillato per trasparenza, cura dei particolari, gestione ritmica e attenzione al palco. Grande rilievo è stato dato alle percussioni, mentre il tappeto sonoro steso per i cantanti ne ha favorito la buona prestazione collettiva. Dinamiche contrastate ma equilibrate e agogiche spedite nel Prologo e più rilassate nell’ultima parte, com’è giusto che sia. Soprattutto la narrazione è sembrata omogenea, rotonda, ponderata.
Tra i cantanti le interpreti di Ariadne e Zerbinetta sono sembrate le migliori della compagnia artistica.
Simone Schneider ha impersonato una Ariadne di grande spessore, grazie a una voce sonora e a una tecnica educata, da vecchia scuola, che le hanno consentito sciabolate in acuto e al contempo un fraseggio partecipato e attento alle esigenze del testo che nella fattispecie è fondamentale.
Liudmila Lokaichuk, nei panni di Zerbinetta, ha connotato di brio e tenera freschezza un personaggio che ha molte sfaccettature, smarcandolo da una certa routine che lo imprigiona nello stereotipo della macchinetta di acuti e, anzi, accentuando i momenti di riflessivi ripiegamenti. Nella sua grande aria ha ricevuto un uragano di applausi più che meritati.
Sophie Haagen (Compositore) è stata protagonista di una prova in crescendo dal lato vocale nonostante qualche acuto sia sembrato forzato, mentre ha ben figurato senza riserve dal lato attoriale.
Sufficiente il rendimento di Heiko Börner nella temibilissima parte di Bacco anche se , soprattutto negli interventi fuori scena, la voce è sembrata un po’ troppo flebile.
Marcello Rosiello ha riconfermato di essere un ottimo baritono e attore spigliato nella parte del Maestro di musica.
Molto bravi tutti gli interpreti – che trovate in locandina assieme agli altri coprotagonisti –  delle quattro maschere, dinamici in scena e validi dal lato vocale, e delle tre Ninfe che accompagnano il calvario emozionale di Arianna. Di buona routine la prestazione di tutti gli altri.
Pubblico, ahimè, non esattamente straripante ma attento e generoso di applausi per tutta la compagnia artistica. Trionfo per Simone Schneider, Liudmila Lokaichuk ed Enrico Calesso.
Si replica sino a domenica 25 febbraio, spettacolo da non perdere.



La Primadonna/AriannaSimone Schneider
ZerbinettaLiudmila Lokaichuk
Il tenore/BaccoHeiko Börner
Il Maestro di MusicaMarcello Rosiello
CompositoreSophie Haagen
BrighellaChristian Collia
NajadeOlga Dyadiv
EchoChiara Notarnicola
DriadeEleonora Vacchi
ArlecchinoGurgen Baveyan
Maestro di BalloAndrea Galli
Il maggiordomoPeter Harl
ScaramuccioMathias Frey
TruffaldinoVladimir Sazdovsky
Un lacchèFrancesco Samuele Venuti
Un parruccaioDario Giorgelè
Un ufficialeGianluca Sorrentino
  
DirettoreEnrico Calesso
  
RegiaPaul Curran
  
Regia ripresa daOscar Cecchi
Scene e costumiGary Mc Cann
LuciHoward Hudson
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste

Divulgazione semiseria dell’opera lirica. Ariadne auf Naxos di Richard Strauss, da venerdì prossimo al Teatro Verdi di Trieste

Torna a Trieste dopo un paio di decenni una delle opere più intriganti del repertorio mitteleuropeo: Ariadne auf Naxos (Arianna a Nasso) di Richard Strauss.
È un’opera le cui melodie toccano alcune mie corde nascoste, come spesso mi succede con Strauss, perciò posso affermare serenamente di non vedere l’ora che arrivi venerdì e godermi la “prima”.

Opera paradigmatica del metateatro, Ariadne auf Naxos ha avuto una genesi accidentata per vari motivi tra i quali, probabilmente, anche un eccesso di ambizione del “librettista” – e le virgolette ci stanno tutte – Hugo von Hofmannsthal il quale si lanciò in un’impresa artistica forse troppo audace per i tempi cercando di far convivere prosa e lirica in una stessa serata. La collaborazione tra Strauss e Hofmannsthal, lo ricordo per i distratti, portò a capolavori senza tempo come Elettra, Il cavaliere della rosa e La donna senz’ombra solo per limitarci ai più famosi.
In breve alcune scene della commedia di Molière “Il borghese gentiluomo” furono musicate da Strauss e subito dopo partiva la prima versione di Arianna a Nasso.
Il debutto avvenne nel 1912 e il responso del pubblico non fu esattamente trionfale, perciò, tra litigi e gelosie, i due grandi artisti ripensarono l’intero impianto drammaturgico escludendo Molière e concentrandosi su di un Prologo – scritto quasi ex novo – e rimaneggiando in modo notevole la parte squisitamente operistica.
Nel 1916, a Vienna, la nuova versione raccolse un franco successo. In Italia arrivò per la prima volta nel 1925, a Torino.
La trama non è facilmente sintetizzabile – i personaggi sono una ventina! – ma un cenno può essere d’aiuto per il neofita anche per capire il senso del teatro nel teatro di cui sopra.

Nel Prologo vediamo un nobile che cerca di allestire nella sua villa patrizia una recita basata sul mito greco di Arianna, ma si scontra con mille difficoltà pratiche e caratteriali di personaggi di varia umanità tra i quali spicca Zerbinetta, attrice e donna disinvolta e birichina che prende in mano la situazione e convince tutti che la soluzione migliore è che gli attori supportino Arianna, sconvolta per essere stata abbandonata da Teseo.
Perciò sull’isola di Nasso tutti gli artisti recitano le loro parti impersonando loro stessi o altri in un gioco di equivoci in cui vicende teatrali e personali si compenetrano. Alla fine Zerbinetta, che è diventata la saggia della compagnia, fa il sunto della situazione e la morale a tutti.

Dal punto di vista squisitamente musicale quando si dice Strauss si pensa alla tipica orchestra tardo- romantica ma non è questo il caso, perché, anzi, l’organico è sostanzialmente da camera. Attenzione però, il flusso sonoro è denso, tipicamente straussiano, anche se più alleggerito del consueto. In questo senso il direttore deve fare un lavorone.
La sezione delle percussioni è molto estesa: tamburello, timpani, cassa, piatti, tamburo e il mio amatissimo glockenspiel, che da solo è un buon motivo per andare a teatro.
L’opera, oltre che nella trama, è un continuo rimando e gioco di specchi anche nella musica: vi si trovano riletti in chiave diversa spunti e scene di teatro del Settecento, di musica barocca, di tragedia e commedia in un puzzle straordinario per colori e sentimenti cangianti.
Ariadne è un soprano lirico drammatico, Zerbinetta un soprano di coloratura ma non troppo esile, quella di Bacco è unanimemente considerata una delle parti tenorili più massacranti, a conferma della presunta antipatia di Strauss per i tenori.
In tutto questo fluire di musica c’è un retrogusto di malinconica gioia, di divertita commozione perché quello che si rappresenta è la vicenda, senza tempo, degli uomini.