
Trieste. palazzo della regione Friuli Venezia Giulia
Nei giorni scorsi pensavo a come il termine burletta fosse l’ideale per definire con sferzante proprietà molte delle vicende politiche ed economiche della disastrata città di Trieste, per non parlare delle considerazioni che potrebbero scaturire dal titolo di questo lavoro di Rossini, L’occasione fa il ladro.
Peraltro, anche se l’attualità incalza e nello specifico la regia di Elisabetta Brusa suggerisce continuità tra il dentro e il fuori del teatro è meglio soprassedere: il genio del compositore pesarese non merita questo tipo di accostamenti e anzi è proprio in queste circostanze che la funzione di sospensione della realtà di una serata a teatro deve essere particolarmente apprezzata.
Rossini, com’è noto, scrisse cinque farse per il Teatro San Moisè di Venezia e L’occasione fa il ladro è la quarta in ordine di tempo. L’opera debuttò alla fine del 1812 – anno di attività febbrile per il compositore – e non ottenne certo un successone, tanto che alcuni cronisti dell’epoca ironizzarono pesantemente sul fatto che il lavoro fosse stato ultimato in soli undici giorni. Nei decenni successivi l’opera poté contare su alcune riprese anche prestigiose (alla Scala di Milano, nel 1822, poi a Pesaro nel 1892 per il centenario della nascita del compositore) ma non è mai davvero entrata nel cuore del pubblico e solo con la Rossini Renaissance ha goduto di una certa popolarità.
Nel caso di Trieste il lavoro giovanile del grande pesarese mancava addirittura dal 1823, perciò è lecito supporre che questa produzione sarà considerata storica dai posteri.
La trama dell’opera si regge sul più classico degli equivoci della commedia buffa settecentesca, cioè lo scambio di persona reiterato e innescato da un pretesto che nella fattispecie è una valigia che cambia inopinatamente proprietario. Caratteri, situazioni drammaturgiche e pagine musicali che citano esplicitamente il Mozart della Trilogia Da Ponte sono evidenti: impossibile, solo per fare un esempio, non notare le affinità elettive tra il Leporello del Don Giovanni e il servitore di Don Parmenione, Martino.
Perfettamente in linea con la tradizione farsesca dell’epoca anche il finale, con la sua morale un po’ dolciastra e il messaggio che il vero amore trionfa a prescindere dalle mistificazioni.
L’allestimento proposto a Trieste è quello che ha debuttato nel 2012 al Teatro Malibran di Venezia, nell’ambito del progetto di collaborazione tra il Teatro La Fenice e l’Accademia di Belle Arti.
La regia di Elisabetta Brusa – interessante la sua prolusione all’opera, qualche giorno fa – conta su di alcuni spunti apprezzabili, realizzati con gusto nel contesto di uno spettacolo tradizionale e allo stesso tempo moderatamente innovativo anche per l’uso non invasivo di proiezioni. Non manca uno squarcio di teatro nel teatro, con dei mimi che interagiscono col pubblico in platea ancora prima dell’inizio della recita e che poi ritroveremo sul palco a movimentare le controscene. Gli stessi figuranti sono anche protagonisti di un breve siparietto che addolcisce l’attesa per il cambio di scena.
Il colore dominante nelle scenografie, nei costumi stilizzati e finanche nelle acconciature dei personaggi è il bianco, il colore della carta che ci ha tramandato la musica di Rossini, il quale è anche – in qualche modo – il protagonista delle proiezioni che ritraggono la sua mano mentre scrive due lettere alla madre.
Tutto molto elegante ma, a mio parere, a questo spettacolo per decollare in pieno manca un po’ di quella vivacità che è insita nella musica di Rossini e risulta se non statico almeno un po’ troppo inerte, soprattutto a causa di una monocromaticità che alla fine stanca. 
La direzione di José Miguel Pérez-Sierra mi è sembrata – forse alla prima è inevitabile – più attenta alla precisione ritmica che alla cantabilità e alla fluidità orchestrale, ma non sono mancati alcuni momenti emozionanti come l’Ouverture e la bellissima introduzione e l’accompagnamento all’aria con pertichini di Berenice.
Molto buono il rendimento dell’Orchestra del Verdi, con particolare riferimento agli archi e soprattutto ai legni.
Nella compagnia di canto, piuttosto omogenea, è spiccata Irina Dubrovskaya nei panni di Berenice.
Il giovane soprano ha voce adatta alla parte e si è distinta per la musicalità, l’intonazione e una buona propensione alle agilità che le hanno consentito di affrontare con successo la difficile coloratura e di sfoggiare acuti e sovracuti penetranti e fermissimi nell’aria Voi la sposa pretendete. Una maggiore dinamicità in scena e un fraseggio più incisivo avrebbero contribuito a far risaltare il lato viperino del personaggio, ma è probabile che dopo il buon esito della prima l’artista sia più disinvolta nelle prossime recite. 
Nell’impegnativa parte del Conte Alberto ha figurato piuttosto bene Francisco Brito. Il tenore può contare su di una chiara dizione e una voce piccolina ma di colore gradevole, che sale con buona facilità agli acuti senza assottigliarsi troppo. Buona l’esecuzione della famosa aria D’ogni più sacro impegno, che oltretutto è piuttosto ingrata da cantare perché consegnata ai posteri in perpetuum dall’interpretazione di Rockwell Blake.
Discreta anche la prestazione quale Don Parmenione di Domenico Balzani, caratterizzata da un generale buongusto in una parte in cui i buffi rossiniani spesso si lasciano andare a eccessi interpretativi. Il baritono ha affrontato con un minimo di cautela l’aria iniziale Che sorte, che accidente e poi il suo rendimento è cresciuto notevolmente nei duetti, mostrando anche una buona affinità con il canto sillabato.
Gabriele Sagona è stato un Martino spiritoso, che ha ben cantato la sua spassosa aria (tanto leporelliana!) Il mio padrone è un uomo con divertita espressività.
Complessivamente buone anche le prove del tenore Enrico Iviglia (Don Eusebio) e del mezzosoprano Antonella Colaianni (Ernestina), quest’ultima particolarmente spigliata sul palcoscenico.
Il pubblico della prima, abbastanza numeroso, al solito è stato piuttosto parco di applausi durante lo spettacolo ma ha poi tributato un ottimo successo a tutta la compagnia artistica, più volte chiamata al proscenio.
A seguire la locandina.
Un saluto a tutti, alla prossima.
Don Eusebio |
Enrico Iviglia |
Berenice |
Irina Dubrovskaya |
Conte Alberto |
Francisco Brito |
Don Parmenione |
Domenico Balzani |
Ernestina |
Antonella Colaianni |
Martino |
Gabriele Sagona |
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Maestro concertatore e direttore |
José Miguel Pérez-Sierra |
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Regia |
Elisabetta Brusa |
Scene, costumi e luci |
Scuola di scenografia dell’Accademia delle Belle Arti di Venezia |
Costumista |
Laura Palumbo |
Aiuto costumisti |
Giuditta De Pretis, Nathan Martin |
Datore luci |
Andrea Sanson |
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Figuranti |
Gianmaria Bissacco, Marco Ferraro, Armando Polacco, Marjolaine Uscotti, Federico Vazzola, Annalisa Viviani |
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Orchestra del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
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Io forse vado domani.
Sono mancato alla prima, perché dovevo dare ripetizioni e poi il ragazzino si è ammalato! SGRUNT
Ci si vede alla Butterfly!
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Alu, siamo al punto che tu dai ripetizioni??? Tra io che faccio il critico e tu che insegni siamo messi bene…ciao 🙂
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Mi dispiace contraddirti ma il loggione era deserto. Se non fosse stato per una ventina di ragazzi di una scuola sarebbe stato ds piangere!!!!!
Un’altra curiosita’ negativa: i programmi di sala vengono venduti solo in platea su un triste tavolo di legno denominato dalle maschere…bookshop.!!!!! Lo spettacolo comunque mi ha convinto.
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Enrico, mi perdonerai ma non capisco il tuo commento. Ho scritto forse che il teatro era sold out? “Abbastanza numeroso” riferito al pubblico non significa questo. Quindi non mi contraddici, ma contesti qualcosa che NON è stato scritto. Oltretutto io non posso vedere quanto pubblico c’è in loggione, dalla mia posizione.
Non so che dire per quanto riguarda l’improvvisato bookshop e mi fa piacere che lo spettacolo ti sia piaciuto.
Ciao e grazie.
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Che desolazione ieri sera (martedì 18) i tanti vuoti un po’ in tutto il teatro! Peccato, perchè la produzione nel suo insieme mi è parsa non solo superiore alle aspettative – che, come Paolo sa, nel mio caso non erano alte, perchè non sento particolarmente il Rossini comico – ma buona in sè. Con una punta particolare a favore del soprano, che mi è sembrato contemperasse sia l’aspetto dinamico che quello elegiaco – non meno importante, ed è questo forse il versante che mi ha stupito di più – del suo ruolo.
Il neo maggiore è forse quello cui accennava Paolo, l’appiattimento cromatico sul bianco e la quasi intercambiabilità dei costumi maschili, pericolosa in una situazione un po’ arruffata in cui dominano gli equivoci e gli scambi di persona. Che la regista volesse suggerire che tutti sono equivalenti? Se così fosse, un’idea intellettualistica poco adatta alla sbrigliatezza di quella che resta una farsa.
Comunque, uno spettacolo molto decoroso.
Saluti a Paolo e a tutti
Fabrizio
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Fabrizio, ciao! Non posso che sottoscrivere la tua osservazione sui costumi, se non altro perché identico commento mi è arrivato da una persona digiuna di opera ma competente di teatro più in generale. Quanto al pubblico, ne avevamo già parlato: a Trieste una farsa di Rossini non è certo lavoro che possa reggere 6 recite. A dire il vero, con forse l’eccezione del ROF, non mi vengono manifestazioni in cui un’operazione del genere sarebbe stata sostenibile.
Scusa il ritardo nella risposta, ma sono piuttosto incasinato e conto di farmi sentire la prossima settimana, ciao!
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CASSANDRO
Il pubblico “parco di applausi”, riprendendo una nostra vecchia conversazione, è, secondo me, preferibile ad un pubblico che, come avviene in televisione, applaude intempestivamente ad ogni pie’ sospinto, spesso rovinando una splendida esecuzione.
Questa premessa solo per dire che sto per inserire un breve commento nel tuo post sottostante su Claudio Abbado per ricordare una sua illuminante e sempre valida considerazione in argomento.
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