Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Recensione semiseria de I puritani di Bellini al Teatro Verdi di Trieste: Gene Simmons dei Kiss cerca di nascondersi tra le damigelle, ma viene riconosciuto subito.

Già alla generale di mercoledì avevo percepito qualche stranezza tra le damigelle della corte degli Stuart, ma solo ieri, alla prima, sono riuscito a realizzare cosa mi solleticava la fantasia. Ebbene sì, tra le pudiche castellane s’era intrufolato il trasgressivo Gene Simmons dei Kiss. Non mi sfugge nulla (strasmile) e proprio non riesco a essere serio, soprattutto. Abbiate pazienza (smile).
Segnalo anche che lo spostamento delle rotative fuori Trieste ha portato un beneficio ai lettori del quotidiano Il Piccolo: quest’anno non ci è stata inflitta l’umiliazione di leggere la recensione sul giornale un minuto dopo la fine dello spettacolo: no xe un mal senza un ben, si dice in vernacolo (strasmile).

La prima di una stagione teatrale è ovunque un giorno di festa: la città si riunisce intorno al proprio teatro per perpetuare una tradizione che va di là dello sfoggio di abiti da cerimonia indossati da signore (e signori) imbellettate. È proprio la Storia che si ripropone in un ambiente, quello del teatro, che è emanazione del territorio e una delle espressioni più alte della cultura tout court.
Quest’anno l’onore dell’apertura stagionale è toccato a I puritani di Vincenzo Bellini, opera mitica, estremo lascito artistico di un compositore troppo presto strappato alla vita.
Il mito, l’importanza di questo lavoro si arguisce già dai nomi dei primi interpreti, i cosiddetti creatori delle parti principali nel lontano 24 gennaio 1835: Giulia Grisi, Giovanni Battista Rubini, Antonio Tamburini e Luigi Lablache, artisti che con le loro interpretazioni hanno scandito la storia del melodramma italiano.
Rappresentare I puritani, oltretutto con una nuova produzione della fondazione, è una sfida. Ebbene credo di poter affermare che, fatti gli opportuni distinguo, il Verdi di Trieste abbia vinto codesta sfida.
Sul podio dell’orchestra, Fabrizio Maria Carminati, che a Trieste è ormai di casa, ha scelto di riaprire alcuni tagli di tradizione alla partitura fornendo un valore aggiunto alla serata e regalandole uno spessore filologico di rilievo. Si sono ascoltati il duetto Da quel che dì ch’io ti mirai, spesso espunto, e un altro duettino in chiusura dell’opera (Ah sento o mio bell’angelo), presi dalla partitura manoscritta conservata alla Biblioteca Cherubini di Firenze. Non una novità assoluta – ricordo, per esempio, Nino Machaidze e Juan Diego Flórez nel 2009 a Bologna, con un giovane Michele Mariotti sul podio – ma pur sempre una chicca.
Ma di là delle sempre spinose considerazioni filologiche, ciò che importa è che nell’Introduzione orchestrale, appena ho ascoltato le prime note dei corni ho percepito quel petricore che odora di melodramma ottocentesco.
L’allestimento, affidato alle cure di Katia Ricciarelli e Davide Garattini Raimondi, è di stampo tradizionale, laddove per tradizionale s’intenda una regia che segue, o cerca di seguire, le indicazioni storiche e spazio temporali del libretto di Carlo Pepoli.
L’impianto scenico fisso, che mostra lo scorcio di una fortezza sbrecciata e pochi altri elementi scenografici, è firmato da Paolo Vitale, cui si devono anche le luci che virano in modo piuttosto didascalico dai toni caldi a quelli freddi. I costumi d’epoca, di Giada Masi, sono complessivamente apprezzabili per sobrietà e pertinenza storica anche se qualche protagonista non ne trae giovamento scenico. Sullo sfondo scorrono videoproiezioni tutto sommato non indispensabili, ma che garantiscono una certa tridimensionalità alle scene.
Lo spettacolo ha una formale eleganza intrinseca, è tranquillizzante, non è certamente gridato, ma allo stesso tempo rinuncia ex ante a qualsiasi approfondimento psicologico sui personaggi. Peraltro, in una vicenda dalla trama esile in cui l’azione è quasi latitante o si sceglie un allestimento di rottura che pasticci un po’ con significato e significante, oppure ci si autolimita a una rappresentazione descrittiva. A mio parere l’unica critica che si può muovere a quest’allestimento è che soffra di un’eccessiva staticità; il coro è spesso schierato immobile al proscenio e qualche controscena non invasiva in più avrebbe dato allo spettacolo una vitalità maggiore.
Fabrizio Carminati coglie in pieno il mood dell’opera belliniana, evitando eccessivi languori ma differenziando, al contempo, le cangianti atmosfere della vicenda. La direzione ha un efficace passo teatrale grazie ad agogiche stringenti ma non precipitose e dinamiche che sanno anche essere vigorose senza alcun sospetto di clangore. Nell’ambito di una prestazione eccellente mi piace segnalare, in particolare, l’ottimo risultato del bellissimo concertato Ah! vieni al tempio che chiude il primo atto e il temporale che apre il terzo. Inoltre, per quanto notoriamente rigoroso, mi è sembrato che Carminati seguisse e accompagnasse i cantanti con affetto paterno.
Pur con qualche imprecisione (la musica dal vivo non è un disco), Coro e Orchestra del Verdi hanno confermato di essere compagini di valore: ottimi archi e legni, compatto il coro.
Ruth Iniesta, che sostituiva last minute l’indisposta Elena Moşuc, è stata protagonista di una prova brillante.
Elvira è un personaggio difficile da risolvere sia dal lato vocale sia da quello scenico e il soprano spagnolo è stato all’altezza su entrambi i fronti, sciorinando con sicurezza acuti e sovracuti, certo, ma soprattutto lavorando di cesello sulla parola scenica grazie a un fraseggio incisivo accompagnato da una recitazione sobria e convincente.
Antonino Siragusa aveva il compito tutt’altro che facile di impersonare Arturo, una vetta ardua – a dir poco –  per il registro tenorile. Del bravissimo artista, triestino d’adozione, ritengo sia inutile ribadire il magistero tecnico e anzi, credo sarebbe limitativo soffermarsi solo su questa caratteristica. Preferisco perciò sottolineare come abbia reso alla perfezione l’archetipo del tenore protoromantico, che alterna slanci e accenti vigorosi e vibranti a ripiegamenti malinconici e riflessivi. Ecco un Artista, direbbe Tosca.
Mario Cassi, Sir Riccardo, soprattutto all’inizio è sembrato un po’ a disagio nella tessitura della parte – l’aria di sortita è davvero impervia da cantare a freddo – ma poi il suo rendimento è cresciuto nell’arco della serata. Probabilmente nelle prossime recite il baritono, già protagonista di belle prestazioni a Trieste, prenderà meglio le misure del suo personaggio e saprà essere più efficace.
Alexey Birkus, nonostante un volume non propriamente debordante, ha restituito un Sir Giorgio autorevole e paterno grazie a una discreta morbidezza vocale che si è apprezzata nella bellissima aria Cinta di fiori, perla del belcanto dall’andamento tipicamente belliniano.
Assai brava Nozomi Kato, Enrichetta convincente dalla calda voce mezzosopranile e disinvolta presenza scenica.
Molto buoni i contributi del tenore Andrea Binetti, vivace Sir Bruno, e del baritono Giuliano Pelizon, autorevole Lord Gualtiero.
Pubblico numeroso e prodigo di applausi per tutta la compagnia artistica. Alle uscite singole, nell’entusiasmo generale, trionfo per Ruth Iniesta, Antonino Siragusa e Fabrizio Carminati.
Si replica sino al prossimo sabato, occasione da non perdere per tutti gli appassionati.

Elvira Ruth Iniesta
Lord Arturo Talbo Antonino Siragusa
Sir Riccardo Forth Mario Cassi
Sir Giorgio Alexey Birkus
Enrichetta di Francia Nozomi Kato
Sir Bruno Roberton Andrea Binetti
Lord Gualtiero Walton Giuliano Pelizon
Direttore Fabrizio Maria Carminati
Maestro del coro Francesca Tosi
Regia Katia Ricciarelli e Davide Garattini Raimondi
Scene e luci Paolo Vitale
Costumi Giada Masi
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste

 

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9 risposte a “Recensione semiseria de I puritani di Bellini al Teatro Verdi di Trieste: Gene Simmons dei Kiss cerca di nascondersi tra le damigelle, ma viene riconosciuto subito.

  1. Furio Petrossi 19 novembre 2018 alle 12:16 am

    Grazie per la recensione! Alla domenicale, in loggione, pur nella celestiale bellezza dell’opera ho trovato un’atmosfera non calorosa, con mancati applausi nelle pause deputate all’uopo, nessun “Bravo!” se non alla fine, forse perché il cast si è riscaldato solo via via. Il tenore all’inizio non sbagliava una nota, ma l’interpretazione mancava, a differenza che verso il finale. Qualche attacco del coro non proprio all’unisono con l’orchestra, fatto veramente strano per il coro di Trieste. Non si può che benedire questa regia! Specialmente dopo aver visto la regia di Jossi Wieler e Sergio Morabito all’opera di Stoccarda ambientata più o meno in una macelleria (guardare per credere: https://www.youtube.com/watch?v=cN8-yho5GQM ); però chiudendo gli occhi tutto filava a Stoccarda… A parte queste critiche irrilevanti, è un buon inizio per la stagione lirica, un bello spettacolo.

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    • Amfortas 19 novembre 2018 alle 9:19 am

      Furio , ciao. Mi fa piacere che tu abbia apprezzato lo spettacolo in generale, in effetti non è il mio modo preferito di fare teatro ma pazienza, almeno il tutto risultava di buon gusto. Questa produzione, in teoria, sarebbe anche esportabile, chissà che qualche altro teatro non la richieda per l’anno prossimo.
      Il pubblico a Trieste è sempre stato compassato, non è una novità. In ogni caso è stato un buon inizio di stagione.
      Ciao e grazie!

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      • Furio Petrossi 19 novembre 2018 alle 11:48 am

        “Non è il mio modo” per la scelta delle opere o la regia? Sulla regia ho apprezzato TUTTE (!?) le regie di Vick: anche quando mette le cinture esplosive agli oppressi e uccide i primogeniti del faraone con il gas nervino (Mosè in Egitto) o presenta Boris come boss della mala russa, provoca e nello stesso tempo ti obbliga a riflettere. Sul tuo desidero di opere più vicine alla modernità, ormai passano gli anni e diventano rétro anche loro. Anche la musica rock degli anni ’70 la trovi nella categoriaa “Classics”…

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      • Amfortas 19 novembre 2018 alle 12:17 PM

        Furio, mi verrebbe da risponderti per entrambe ma per restare in argomento mi limito alla regia. Il mio maestro, Elvio Giudici, sostiene che “il teatro o è di regia o, semplicemente, non è “ : la penso come lui, da sempre. Questo non significa che si possa far passare qualsiasi boiata, ovviamente. Ma prova a riflettere sulla regia di questi Puritani: dove hai trovato una mano registica che abbia lasciato il segno? Una cosa è un allestimento garbato, altra è una regia riconoscibile e presente, che dia indicazioni ai cantanti attori su espressioni, linguaggio del corpo, movimenti scenici. Da una regia mi aspetto qualcosa di più di un coro che sta impalato a guardare il pubblico.
        Spero di essermi spiegato 😀, ciao

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  2. Pier 21 novembre 2018 alle 1:27 am

    Caro gemello, abbiamo ripreso la nuova stagione da una posizione privilegiata (e comoda). Crepi l’avarizia, abbiamo conquistato due ottimi posti in prima galleria, e mi chiedo perché non l’abbiamo fatto prima (paura di abbandonare il loggione?).
    Da cotanto pulpito (strasmile) ci siamo goduti, è il caso di dirlo, dei buoni Puritani. Lo confesso: è stata la prima volta per me, ma ho apprezzato molto l’opera, tutta duetti e coro, senza punti di caduta.
    Naturalmente sottoscrivo in pieno la tua recensione, anche se, come spesso accade, avevamo il cast B. Niente di male, anche perché Elvira era sempre la bravissima Ruth Iniesta: una spanna su tutti, vera protagonista, godibilissima soprano e forse unica vera attrice tra tanti pali della luce piantati sul palco (sulla staticità della regia hai già detto tutto tu).
    Una spanna anche sopra l’esperto georgiano Shalva Mukeria (conciato per le feste dalla costumista) di tecnica e mestiere notevoli ma (ahimè) di volume modesto, pur con una estensione di voce invidiabile (acuti compresi). Applausi a scena aperta anche per lui. Buoni anche Riccardo (Gaertner) e Giorgio (Rosalen), applauditissimi in suona la tromba intrepido.
    Insomma, un buon inizio con un’opera che non conoscevo. Cosa volere di più?
    Forse un teatro un po’ più pieno: platea e galleria con ampi spazi vuoti. Good night.

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    • Amfortas 21 novembre 2018 alle 9:25 am

      Pier, ciao. La paura di abbandonare il loggione mi evoca qualcosa di freudiano, chissà che non si possa in qualche modo abbinare anche un’invidia della platea: sarebbe un ottimo corollario alla più generale nevrosi nota come melomania 😉
      Di là di queste facezie, avendo visto la generale e quindi il secondo cast, mi sento di sottoscrivere il tuo giudizio. Peraltro i cantanti li conoscevo già, soprattutto Mukeria che ho ascoltato spesso alla Fenice e alla Scala oltre che qui a Trieste e a Lubiana.
      Una mia cara lettrice mi ha detto che sono stato troppo generoso nello scrivere, in merito ai costumi che “qualche protagonista non ne trae giovamento scenico” ma la realtà è che effettivamente a quell’epoca vestivano come cani.
      Questi Puritani meritavano sicuramente una maggiore affluenza, perché si tratta di una produzione tutto sommato buona. Anche altre persone mi hanno riferito di un pubblico scarso e, sinceramente, non me lo spiego. O meglio, me lo spiego ma di certo non si può imputare nulla al teatro che ha lavorato piuttosto bene nella promozione. Il fatto è che della musica lirica non interessa nulla a nessuno e di questo dobbiamo prendere, tristemente, atto.
      Ciao Pier, un saluto alla consorte che delizierò con la cronaca del Macbeth alla Fenice firmato dallo spauracchio Damiano Michieletto.

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  3. Enrico 27 novembre 2018 alle 8:56 PM

    Gene Simmons che tra l’altro ha ascendenze est europee…la madre è infatti ungherese e su YouTube ci sono dei video (e delle interviste) in cui lui si esprime in questa lingua

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    • Amfortas 28 novembre 2018 alle 9:30 am

      Enrico, ciao. Io trovo meraviglioso che su questo blog, che in teoria sarebbe dedicato alla musica lirica e sinfonica, si parli di Gene Simmons 😉
      Grazie della notizia, non sapevo delle sue origini, ora approfondisco!
      Ciao e grazie 😊

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  4. Pingback:Ancora I puritani al Teatro Verdi di Trieste, questa volta solo per immagini. | Di tanti pulpiti.

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