Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Coin du Roi alla sua prima produzione: Serse di Händel al Teatro Goldoni di Venezia. Un paio di considerazioni serie.

Martedì scorso, vincendo la mia tendenza alla stanzialità e soprattutto il viscerale odio per l’orrida Venezia mi sono recato nella città lagunare per vedere il Serse di Händel allestito dalla neonata associazione Coin du Roi al Teatro Goldoni. Nei giorni precedenti due recite del Serse si erano svolte a Milano, al Teatro Litta. Se non sapete nulla di Coin du Roi, leggendo questa mia intervista al direttore musicale potete colmare la lacuna.teatro-goldoni7-766x297
Come potete immaginare, Venezia in questo periodo è particolarmente accogliente con il caldo e il suo tasso di umidità vicino al 100% ed è per questo motivo, suppongo, che è più affollata del solito: i turisti si limitano a morire di guai circolatori vari e solo dopo vengono divorati dai gabbiani assassini che, beati loro, non si sudano neanche il macabro pasto.
Ma, come sempre, passiamo alle cose meno serie.
Il Barocco è un genere musicale poco frequentato in Italia, mentre all’estero (soprattutto in Francia e Inghilterra) i teatri che propongono opere barocche incassano spesso il sold out. Insomma, per l’ennesima volta facciamo una figuraccia, salvo poi lamentarci che i nostri teatri si presentino deserti.
Ascoltare in teatro un’orchestra – organico di circa trenta elementi – che suona con strumenti antichi e il diapason a 415 Hz è un’esperienza straordinaria. Non è questa la sede per fare sottili distinguo filologici perciò accontentatevi della mia modesta opinione. Quello che conta davvero è che i giovani dell’Orchestra Coin Du Roi, diretti magistralmente da Christian Frattima sia per le scelte agogiche e dinamiche sia per l’attenzione ai cantanti, hanno ricreato un’atmosfera di grande suggestione. Almeno per quanto mi riguarda, ho vissuto per molti aspetti quella specie di sospensione della realtà che dovrebbe caratterizzare sempre l’esecuzione di un’opera lirica, al di là delle solite (legittime, sia chiaro) considerazioni sulla singola nota emessa dal cantante o dallo strumentista di turno.
Purtroppo, per questioni economiche, Ars Cantica Choir (il coro, insomma) non ha potuto essere presente come invece era stato a Milano e credo che l’esecuzione abbia perso un po’ di dinamismo e brio anche per questo motivo.
La compagnia di canto si è dimostrata omogenea e senza passare a un’analisi troppo particolareggiata dei singoli credo di poter affermare che tutti si siano espressi a un livello discreto. Qualche criticità – soprattutto per quanto riguarda dizione e pronuncia degli artisti stranieri – non ha certo offuscato la prova complessiva.IMG_0117
Ho trovato incisive e stilisticamente appropriate le prestazioni di Vilija Mikštaitė nel title role, voce da mezzosoprano brunita e ben impostata, e del soprano Viktorija Bakan, che ha caratterizzato una Romilda elegante e convincente seppure non dotata di voce torrenziale.
Il controtenore Jud Perry si è disimpegnato onorevolmente nei panni di Arsamene, per quanto il timbro non sia proprio di bellezza straordinaria.
Bene tutti gli altri che accomuno in un generale plauso: Alessandra Visentin (Amastre), Arianna Stornello (Atalanta), Stefano Cianci (Ariodate) e Claudio Ottino (Elviro).
Per quanto riguarda l’allestimento, se non posso che lodare i costumi e le scene di Alessandra Boffelli Serbolisca, sono rimasto piuttosto perplesso da alcune scelte del regista Valentino Klose e, udite udite, per una volta le mie lamentazioni non riguardano la trasposizione temporale della vicenda ma altri dettagli.
Nulla da dire perciò sull’ambientazione nel 1971 a Persepoli, durante i festeggiamenti per celebrare i 2500 anni dell’Impero Persiano. Cito dalle note di regia:

La vicenda ha luogo nel lasso di tempo di una giornata. Il primo atto si svolge all’interno di un palazzo, entro il quale fervono i preparativi per il gala che avrà luogo alla sera. Segue il secondo atto, tra le rovine di Persepoli, per finire con il terzo, a tarda sera, nella sala in cui i festeggiamenti volgono al termine.

Ok, va tutto bene, però ho trovato sbagliata – soprattutto alla presenza di un impianto scenico essenziale per ovvie ragioni economiche – la scelta di ridurre al minimo il movimento dei cantanti in scena. Anche qui cito dalle note di regia:

Non vi sarà da parte mia intervento sull’interazione tra i protagonisti né alterazione sulla gestualità rispetto a quanto i versi vogliono significare.

In questo modo, ed è stato sentire maggioritario sia a Venezia sia a Milano, la caratterizzazione dei personaggi è sembrata monca e il passo teatrale rallentato. Non pretendo d’insegnare nulla a nessuno, ma credo che qualche controscena e un maggior dinamismo avrebbero evitato la spiacevole sensazione, affiorata con una certa insistenza, di assistere a un concerto in costume.coin
In generale il progetto Coin du Roi mi sembra non solo meritevole di essere seguito nei prossimi impegni (Il Re Pastore a Milano e Chiasso in ottobre e un dittico Pergolesi a dicembre ancora a Milano) ma anche incoraggiato sia da chi, come me, modestamente esercita la critica musicale, sia (e soprattutto!) dagli appassionati. Magari escludendo la 100esima Tosca o Aida, no?

Un saluto a tutti, alla prossima!

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8 risposte a “Coin du Roi alla sua prima produzione: Serse di Händel al Teatro Goldoni di Venezia. Un paio di considerazioni serie.

  1. g9810000 5 giugno 2015 alle 1:59 PM

    415 Hz! Una bellezza… non è che però si vada contro la legge 3/5/89 n. 170 che lo fissa a 440 e rende l’associazione “impresentabile”?
    Scherzi a parte il suono degli strumenti “all’antica” (magari contemporanei ma con corde che riproducono le sonorità di quelle di budello o legni pre-Böhm) crea un’atmosfera magica, cui non siamo abituati.
    Una piccola nota, che qui non è importante: ho sentito concerti in cui si volevano usare non solo archi e legni, ma clavicembali o fortepiani effettivamente antichi; qui, come dice il fisico Prof. Frova, c’è un errore, perché mentre i violini migliorano con il tempo, gli strumenti con tavola armonica degradano in qualità e non ricreano il suono autentico dell’epoca.

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  2. Giuliano 6 giugno 2015 alle 12:59 PM

    Vilija, o Vilija…
    🙂
    chissà quante volte se lo è sentita dire!
    concordo su tutto, spero solo che passi presto la moda dei controtenori. Per Ombra mai fu, oltretutto, abbiamo tutta una serie di registrazioni favolose, da Caruso e Schipa, da Kathleen Ferrier a Marilyn Horne, fino alle cantanti oggi in carriera. Hai una preferenza in merito? Io no, trovo solo che il recitativo (Frondi tenere, eccetera) sia un po’ punitivo. Il testo, in effetti, è bruttino…(il vegetabile, soprattutto)

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    • Amfortas 6 giugno 2015 alle 1:26 PM

      Giuliano, ciao. Sui controtenori ci sarebbe da dire tantissimo, ma io non ho tempo 🙂
      Tieni presente che qui Ombra mai fu è stata cantata molto bene da Vilija Mikštaitė. Ti stupirò, forse, mi piace la versione cantata dalla Bartoli 🙂 (tra le tante che preferisco). Il testo del larghetto – so di essere in minoranza 🙂 – non mi spiace, tanto che a suo tempo scrissi proprio un racconto sul famoso vegetabile…chissà dov’è finito 🙂
      Ciao e grazie!

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  3. Fabrizio Lavezzi 12 giugno 2015 alle 2:16 PM

    C’ero anch’io il 2 giugno al goldoni (ci siamo anche parlati mentre pensavi di aver perso il cell) e concordo pienamente con il tuo articolo. esaustivo soto ogni aspetto. saluti fabrizio UD

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  4. gabrilu 15 giugno 2015 alle 7:22 PM

    …Ed anche questa volta ho imparato quarcheccosa. Grazie, Amfy

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