Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Manon Lescaut di Puccini inaugura la stagione lirica del Teatro Verdi di Trieste. La regia di Guy Montavon deraglia nell’ultimo atto.

Dopo la sospensione per sciopero del vernissage, la pomeridiana di ieri è stata la prima occasione utile per ascoltare e vedere Manon Lescaut di Puccini, che ha aperto la stagione del Teatro Verdi di Trieste da cui mancava dal 2007.
C’era molta curiosità nell’aria perché da qualche tempo giravano voci su di una regia, nella migliore delle ipotesi, stravagante.
L’allestimento, proveniente da Montecarlo dove ottenne a suo tempo un successo clamoroso (con Anna Netrebko nei panni della protagonista), è il classico esempio di teatro di regia riuscito male proprio nella concezione drammaturgica.
Voglio dire che, piaccia o meno la trasposizione temporale, i caratteri dei personaggi sono perfettamente riconoscibili e coerenti con il libretto sino al terzo atto compreso, quando il regista Guy Montavon si inventa una specie di MacGuffin teatrale che trasforma a proprio uso e consumo Geronte – il personaggio più realistico e attuale dell’opera, ché di vecchi potentati che si attorniano di giovani ragazze la cronaca e la storia è piena – in un killer psicopatico. A scatenare la follia è il fatto che Des Grieux distrugge una sua presunta opera d’arte e cioè libera la povera Manon che nel secondo atto era stata trasformata in una specie di statua vivente, con un procedimento che richiamava qualcosa di perfidamente trasversale tra la Body art e il Body painting in salsa new age.
Per questo motivo,  il santone Geronte trasforma la compagnia di strampalati che lo segue come una setta in una scombinata giuria popolare che decide di condannare a morte Manon, la quale non vedrà mai alcuna nave e tanto meno deserti ma solo una tetra prigione adiacente a una stanza dalla quale Des Grieux osserva impotente il suo martirio.
Ecco, tutta questa parte che ho descritto affannosamente è insensata perché non c’entra nulla col livre abominable di Prévost né, tantomeno, con la Manon Lescaut di Puccini.
Spiace sottolinearlo perché sino a quel momento regia e messinscena erano singolari ma tutt’altro che sgradevoli: scenografie sfarzose e ben realizzate, luci splendide, controscene curate e approfondite le interazioni tra i personaggi. Un’altra criticità dell’allestimento sono le due lunghe pause per i cambi scena che, unite all’intervallo, rendono la serata estenuante e, soprattutto, spezzano in modo irreparabile la tensione emotiva della narrazione teatrale e musicale. Il pubblico si distrae in queste circostanze e infatti a un certo punto una inviperita Gianna Fratta ha fulminato con lo sguardo un paio di signore in prima fila che non volevano saperne di farle cominciare l’Intermezzo.

Gianna Fratta, appunto, la quale ha dato un’interpretazione al calor bianco della partitura pucciniana, sottolineandone la sensualità e la crudezza che grondano da ogni nota. Non è, appunto, la Manon di Puccini un’opera da sdilinquimenti e smancerie – lo è la Manon di Massenet – bensì una storia di amore, lacrime e dolore. Emozioni violente che si sono espresse anche con qualche decibel di troppo, soprattutto negli interventi del Coro, peraltro in ottima forma. L’inizio del secondo atto, con quella atmosfera fintamente raffinata, in cui gli echi della musica settecentesca sono artatamente involgariti sino al pacchiano, mi è sembrato un momento di grande musica.
L’Orchestra del Verdi, che ha il sound pucciniano nel DNA, si è espressa al meglio e mi piace sottolineare la bellissima prestazione dei legni, senza ovviamente voler togliere nulla alle altre sezioni.
La compagnia di canto mi è parsa, nel complesso, modesta dal punto di vista vocale e ottima da quello attoriale.
Unica eccezione Lana Kos, che di Manon Lescaut forse non ha il peso vocale in senso stretto, ma sopperisce con la tecnica alle parziali mende di volume. La voce è gradevole, ben proiettata negli acuti che passano la densa orchestra pucciniana e il fraseggio attento e partecipe che esalta quel canto di conversazione che è il marchio di fabbrica di Puccini. Inoltre l’interprete è accorata, vivace, attenta: la sua Manon è decisamente di buon livello e ha conquistato il pubblico triestino che l’ha premiata con un trionfo.
Roberto Aronica è stato un Des Grieux credibile scenicamente ma altalenante nel rendimento vocale, pur senza che ci siano inconvenienti particolari. Dopo un inizio piuttosto contratto, il tenore si è rinfrancato e nel lungo duetto del secondo atto si è espresso al meglio. È rimasta però una sensazione di incompiutezza, perché al suo cavaliere è mancata quella passionalità rovente che il personaggio pretenderebbe.
Viscido e opportunista al punto giusto il Lescaut di Fernando Cisneros, che vanta una voce di buon volume ma gestita in modo un po’ troppo grossier per quanto il personaggio non sia proprio un uomo da raffinatezze. Impeccabile, invece, la sua prestazione attoriale.
Matteo Peirone ha tratteggiato un Geronte in linea con le direttive della regia, ma spesso la voce non ha passato l’orchestra, almeno dalla mia posizione, circostanza che vale anche per il flebile Edmondo di Paolo Nevi.
Brava Magdalena Urbanowicz nei panni del musico e di routine gli interventi di Nicola Pamio e Giuseppe Esposito che hanno contribuito alla tutto sommato buona riuscita della recita.
Il pubblico, numeroso, ha apprezzato con moderazione la serata, applaudendo tutta la compagnia artistica e riservando grandi applausi per Lana Kos e Gianna Fratta.
I responsabili della regia non si sono presentati al proscenio, probabilmente perché dopo lo sciopero la prima ufficiale, quella con i carabinieri, le autorità, l’inno e i critici seri è stata spostata a mercoledì 8 novembre.

Manon LescautLana Kos
Il Cavaliere Renato Des GrieuxRoberto Aronica
LescautFernando Cisneros
Geronte di RavoirMatteo Peirone
EdmondoPaolo Nevi
Un musicoMagdalena Urbanowicz
Il Lamionaio/Maestro di BalloNicola Pamio
L’osteGiuseppe Esposito
  
DirettoreGianna Fratta
Direttore del coroPaolo Longo
  
Regia e luciGuy Montavon
SceneHank Irwin Kittel
CostumiKristopher Kempf
  
Orchestra e Coro del Teatro Giuseppe Verdi di Trieste



9 risposte a “Manon Lescaut di Puccini inaugura la stagione lirica del Teatro Verdi di Trieste. La regia di Guy Montavon deraglia nell’ultimo atto.

  1. Furio Petrossi 5 novembre 2023 alle 5:33 PM

    Sugli interpreti sono le sensazioni che ho avuto anch’io e che hai espresso con chiarezza. Anche sul volume dell’orchestra (ero in seconda galleria, laterale), peraltro ottimamente diretta, e sulle incertezze iniziali del canto. Ho avuto modo di vedere il filmato della versione di Montecarlo (Anna Netrebko e Yusif Eyvazov). Ovviamente nessuna incertezza per De Grieux (studente fuoricorso) e Manon che sottolinea col gesto ogni piccolo passaggio del suo stupendo canto.
    Sulla regia dico: peccato! Belli il primo e il secondo atto. Il terzo ci sta: la società giudica la donna che non sta alle sue regole. L’ultimo è troppo diretto. Il deserto della solitudine della donna bastava e avanzava. Ha voluto spiegare troppo.

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    • Amfortas 5 novembre 2023 alle 6:33 PM

      Ciao Furio, grazie dell’intervento e anche di quelli precedenti. Secondo me più che spiegare troppo il regista è andato proprio fuori tema nel quarto atto, che con Manon Lescaut c’entra come i proverbiali cavoli a merenda. Ciao, Paolo

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  2. Andrea Burro 6 novembre 2023 alle 12:33 PM

    Buongiorno Sig. Paolo,

    ringrazio sin d’ora dell’ospitalità.
    Ho assistito alla recita di ieri, domenica 5 novembre. Il tenore Karahan non ha cantato ed è stato sostituito da altro signore di cui a tutti è sfuggito il nome. Non mi interessa entrare nel merito delle prestazioni di orchestra, corso e solisti. Neppure mi interessa entrare nel merito dell’allestimento. Mi interessa però entrare nel merito della sostituzione. Può succedere di dover ricorrere ad una sostituzione dell’ultimo, ci mancherebbe. Credo che per rispetto del professionista e del pubblico si dovrebbe dire: a causa di motivo xy il signor xy oggi non canta e sarà sostituito nel ruolo xy dal signor xy. Il teatro ringrazia il signor xy della disponibilità”. Almeno una volta si usava così. In aggiunta si appiccica un foglietto sulla locandina in modo che il pubblico ne sia informato. Questo per rispetto e del pubblico e dell’artista in questione. Ieri tutto ciò non è avvenuto, al punto tale che più d’uno pensava che a cantare fosse Roberto Aronica, per il sempice fatto di avere in comune calvizie con il solista sul palco.
    So che ci sono problemi più pressanti e importanti nella vita del teatro e non solo, ma è forse dalle piccole cose che si apprende a risolvere le grandi. Forse il problema più sconvolgente è che ieri per Manon Lescaut il teatro era mezzo vuoto.

    Andrea Burro

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    • Amfortas 6 novembre 2023 alle 5:52 PM

      Salve Andrea, sono perfettamente d’accordo. Mi fa pensare che si sia trattato di un problema improvviso perché, a dire il vero, di solito la sostituzione è annunciata e segnalata sul libretto con un foglietto, appunto. Strano anche che il teatro sia stato disertato, di solito la domenica fanno il pieno! Ciao e grazie, Paolo

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  3. Pier Brovedani 14 novembre 2023 alle 8:12 PM

    Caro Paolo, con questa regia viene purtroppo confermata la mia impressione: ormai i registi la fanno da padrone. Negli articoli di presentazione 20 righe sono dedicate alla regia, quattro alla direzione musicale, due ai cantanti.
    Ma a questo punto, per non cadere nel ridicolo, proporrei, quando si vuole rendere contemporanea un’opera, DI POTER MODIFICARE ANCHE IL LIBRETTO.
    “Giunge il cocchio d’Arras!” No: arriva una bella Ferrari. “Cortese damigella” No: bella pupa!
    “L’affitto elle imposte a me fidato dalla bontà del re” no: dal sottosegretario.
    “Una carrozza e cavalli che volino siccome il vento” sempre la Ferrari di cui sopra a 200 all’ora.
    “Esilio?” Daspo internazionale!
    E così via. Almeno evitiamo il ridicolo (senso del ridicolo specialmente presente nei giovani che dovrebbero accostarsi al melodramma..)
    Il nostro amico e direttore d’orchestra triestin sloveno, Boris Svara, ultranovantenne ancora presente, teorizzava (mi ricordo lunghe discussioni a proposito) che bisogna tradurre il libretto nella lingua in cui avviene la rappresentazione (così lo sloveno a Maribor) in modo da renderlo comprensibile. E succedeva tranquillamente, senza modificare il risultato artistico.
    Ma questa volte c’è di più, come hai scritto: il regista si impossessa e violenta la storia. La landa desolata (dove è previsto si possa morire di sete) diventa una sordida cella alla Guantanamo, in cui la prigioniera deve morire di stenti. La storia straziante diventa una angosciante puntata del telefilm “Criminal Minds”.
    Non a caso finora sono comparse due lettere sul Piccolo di condanna senza appello. Una di queste, non sopportando l’orrore, proponeva di produrre l’opera solo in concerto. Così uno può chiudere gli occhi e godersela..
    Alla prossima, maestro.

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    • Amfortas 15 novembre 2023 alle 8:26 am

      Ciao Pier. Generalizzare è sempre sbagliato, sempre e lo sai benissimo. Leggo anch’io le lettere che scrivono al Piccolo e trovo che le motivazioni siano risibili, soprattutto quando si fanno paragoni – come Paolo Petronio – tra arti diverse. Che senso ha paragonare la Gioconda o una statua a un’opera lirica? Sono più buone le pere oppure preferisci sciare? Risponderesti a una domanda così? No. Perciò quelli sopra sono solo escamotage inutili per far valere le proprie ragioni in modo irragionevole. Una variante dello straw argument all’italiana.
      Detto questo, come vedi ho preso ampiamente le distanze da questo allestimento, ma ciò non significa nulla se non che QUESTO allestimento era brutto e insensato, come ce ne saranno altri. Dare l’opera in forma di concerto? È una contraddizione in termini; l’opera nasce per essere rappresentata non per essere ascoltata a occhi chiusi. Non mi risulta che Puccini abbia fatto esordire Manon Lescaut, per dire, al buio. Lo ha fatto in un teatro, con un pubblico presente e palpitante. L’opera senza allestimento è un modo di castrare la musica lirica: una violenza enorme, assai peggio di un allestimento non riuscito o di una regia cretina.
      Sulla traduzione del libretto sono anche in disaccordo perchè spesso, in passato e sarebbe così anche oggi, le traduzioni sono ridicole e distolgono, quelle sì, l’attenzione dalla musica e dalla vicenda. Altroché regie, le traduzioni sono violenza al compositore perché alterano la musica e il senso delle opere. “Il fior che avevi a me tu dato nella prigion io l’ho serbato” è una roba da far accaponare la pelle, se non addirittura le palle.
      Ciao bel, alla prossima 🙂

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      • Geni Sardo 15 novembre 2023 alle 1:17 PM

        Io devo spesso chiudere gli occhi, vado a Teatro fin da piccola e non mi mancano bellissimi ricordi.
        Spesso devo ricorrere ai ricordi anche per l’eccessiva copertura dell’ orchestra .
        Mi arrangio ma non è il massimo!!!
        Vorrei poter vedere un’opera in cui regista direttore d’orchestra e cantanti, magari litigando riuscissero ad offrirci uno spettacolo decoroso, con un senso che si armonizzi col libretto , la partitura e magari, se ci riescono ripulire dalla patina del tempo.

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      • Amfortas 15 novembre 2023 alle 4:23 PM

        Geni ciao, due contro uno non vale! I ricordi sono una meraviglia, ma sono il passato, un passato che ci dovrebbe far venire la voglia di vivere il presente per proiettarci nel futuro. Anch’io ho bei ricordi di spettacoli di una volta, ma questo non mi impedisce di godere hic et nunc della produzione teatrale operistica odierna. Strehler fu contestato ferocemente e altrettanto successe con Ronconi e altri registi che oggi sono rimpianti. Quanto alla “copertura dell’orchestra” è tutt’altro discorso ma è anche vero che si potrebbe aprire una parentesi sul significato di “suono”. Cos’è un suono forte, oggi? Quel “forte” identifica gli stessi decibel di 70 anni fa? È tutto relativo, Geni, e tutto fa rapportato all’epoca che viviamo.
        Ciao e grazie, Paolo

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