Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Tosca di Giacomo Puccini al Teatro Verdi di Trieste.

Sarah Bernhardt fotografata da uno dei più grandi di sempre: Nadar

Riprende l’attività al Teatro Verdi di Trieste con Tosca di Giacomo Puccini. E questa è la buona notizia; la brutta è che anch’io riprendo a scrivere di musica (smile).
Ora, di Tosca si potrebbe semplicemente dire che è l’ennesima opera tratta da un testo teatrale che parla della necessità che ha il Potere, sempre e in ogni epoca, di zittire ed eliminare il dissenso. Tema attuale, anche in questi giorni. Ma io sono prolisso, perciò, se non vi accontentate di questa sintesi, annoiatevi pure col resto (strasmile).
Da sempre tra le dieci più eseguite al mondo, Tosca continua a esercitare un fascino particolare sul pubblico che ne fa una delle opere più amate a tutte le latitudini. Trieste non fa eccezione, perché le vicende della cantante Floria Tosca sono state raccontate spesso sul palcoscenico del teatro triestino; l’ultima produzione risale al 2017.

Eppure a Mahler (reverenza) non piacque per niente, tanto che scrisse così:

Ieri sera dunque sono stato a vedere la «Tosca» di Puccini. Esecuzione ottima sotto ogni punto di vista, si resta veramente strabiliati di trovare qualche cosa di simile in una città austriaca di provincia. Ma l’opera! Nel primo atto solenne processione con un continuo scampanio (le campane si sono dovute far venire dall’Italia). Nel secondo atto un tale viene torturato tra urli orrendi e un altro pugnalato con un acuminato coltello da pane. Nel terzo atto di nuovo immenso scampanio su una veduta di tutta Roma dall’alto di una cittadella – di nuovo un’altra diversa serie di campane – e un tale viene fucilato da un plotone di soldati. Prima della fucilazione mi sono alzato e sono andato via. Non occorre aggiungere che il tutto è messo irisieme come sempre con abilità da maestro; al giorno d’oggi ogni scalzacane sa orchestrare in modo eccellente.

Nientemeno.
Fedele D’Amico (reverenza) sosteneva che dal punto di vista drammaturgico e musicale Tosca fosse in qualche modo l’antesignana di un filone che avrebbe poi portato a Salome, Elektra e Wozzeck. Il top, per certi versi, del Novecento musicale. Ma, ed è fondamentale notarlo, non per la figura della protagonista bensì per quella, mostruosa nella sua perfidia, di Scarpia.
Puccini vide una recita di La Tosca di Victorien Sardou nel 1889, a Milano: la protagonista era Sarah Bernhardt. Se ne innamorò (della pièce teatrale, non della Bernhardt, strasmile) e chiese all’editore Ricordi di acquisire i diritti del testo drammaturgico. Sembra che Sardou non fosse proprio entusiasta della cosa, tanto da mettersi di traverso all’operazione che comunque si chiuse col debutto a Roma, il 14 gennaio 1900 con libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa.
Ma, di là di queste notizie storiche, qual è – a mio parere, ovvio – il motivo vero del successo di quest’opera? Rispondo con una piccola provocazione: il motivo è il cinema!
Voglio dire che Puccini coglie con Tosca – non a caso testo teatrale cucito sartorialmente addosso alla diva Bernhardt – gli umori del pubblico del tempo, che incominciava ad apprezzare la settima arte.
I personaggi principali sono tutti eccessivi, ambigui e assolutamente finti, cinematografici appunto.
Nella cantante Floria Tosca convivono erotismo e religione, sottomissione e furia omicida. Attrazione per il Potere, per la relazione pericolosa.
Il Barone Scarpia è definito così dal Mario Cavaradossi:

Bigotto satiro che affina con le devote pratiche la foia libertina e strumento al lascivo talento fa il confessore e il boia.

Un sadico che come Jago – qui un ventaglio, in Verdi un fazzoletto – si crea l’opportunità per far scoppiare la gelosia a proprio uso e consumo. Un mostro che galleggia tra il sacro e il profano, tra il Potere e la Chiesa.
Il terzo vertice del triangolo amoroso, Mario Cavaradossi, sembra il classico vaso di coccio. Fragile, instabile, innamorato della vita più che di Tosca. Profondamente tenore nell’esteriore entusiasmo e nella triste fine. Mi sembra una di quelle persone che sono brave in tutto, ma part-time, quando hanno tempo e voglia.
La concisione drammatica, il passo teatrale incalzante sono stemperati dalle consuete aperture liriche, tipiche di Puccini, ma è nei dialoghi – il sempre citato canto di conversazione pucciniano – che si capisce il vero carattere dei personaggi.
Poi certo, c’è la musica, ci sono le romanze e le arie, i duetti, le melodie. Sono la parte più popolare, la colonna sonora mi verrebbe da dire, della vicenda.
Si colgono alcune analogie con Otello di Verdi.
C’è stato un momento, durante la faticosa collaborazione tra Verdi stesso e il librettista (e mai come in questo caso appare limitativo definirlo così!) Arrigo Boito in cui fu paventata la possibilità d’intitolare l’opera Jago invece di Otello: anche il lavoro di Puccini potrebbe chiamarsi Scarpia e non Tosca.
I due perfidi personaggi hanno più di qualche affinità, anche se differiscono molto dal punto di vista psicologico. Sono entrambi baritoni per esempio; ancora, fanno leva sulla gelosia per ottenere il loro scopo e si servono di un oggetto qualsiasi per ingannare le loro vittime: un fazzoletto nel caso di Jago, un ventaglio per il corrotto barone romano Scarpia.
Sono due geni del male, due disgraziati; a fare le spese della loro cattiveria sono i buoni: Desdemona, Otello, Tosca, Cavaradossi.
Sempre dal punto di vista psicologico e della narrazione è interessante notare che i personaggi forti, nelle due opere, si uccidono: Otello si pugnala, Tosca salta giù dai bastioni di Castel Sant’Angelo.

Allora, almeno per questo estremo sacrificio, è giusto che le opere siano passate alla storia della cultura e dell’Arte con i nomi di Otello e Tosca.
Dal punto di vista strettamente musicale però le gemme sono altre. La misteriosa alba di Roma, intermezzo nel terzo atto. Gli accordi iniziali che fotografano Scarpia, il soggiogante Te Deum che chiude il primo atto.
Il mio consiglio è perciò quello di ascoltare Tosca in modo meno superficiale, per cogliere con orecchie nuove quello che si cela nelle pieghe della partitura, nel canto di conversazione.
Forse, chissà, l’ennesima Tosca vi sembrerà meno scontata del solito.

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