Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Trieste – Teatro Verdi: Terzo concerto della stagione sinfonica

Prosegue la bella stagione sinfonica triestina con ottimi esiti artistici e teatro sempre affollato da un pubblico eterogeneo, composto anche da turisti, ma soprattutto con una maggiore presenza di giovani, che fa ben sperare per il futuro.
La serata prevedeva un interessante programma cameristico con musiche di Haydn, Bach e Mozart: una specie di trinità laica.
Si sa che Haydn è stato particolarmente prolifico nello scrivere sinfonie, tanto che il conto ufficioso è arrivato a più di cento pagine dedicate a questo genere. Ieri è stata eseguita la Sinfonia in fa minore n.49, datata 1768.
 Si tratta di un brano severo – il fa minore stesso ce lo suggerisce – che però ogni tanto si apre a sprazzi di grande luminosità riservati ai violini. È questa la caratteristica più saliente della sinfonia, che principia con un Adagio di grande tensione emotiva che prosegue nel tumultuoso Allegro seguente.
Anche il Minuetto è impettito, inamidato, quasi come se Haydn avesse voluto mantenere una decorosa dignità anche nell’atmosfera galante senza concedere troppo al divertimento.
Nel Presto finale torna però una tensione piuttosto intensa, come di esplosione di energia in sordina.
L’Orchestra del Verdi ha risposto benissimo alle sollecitazioni di Pinchas Zukerman, il quale con gesto eloquente e un po’ enfatico (ma solo un po’) ha guidato la compagine triestina a una grande prestazione, in cui ho particolarmente apprezzato gli archi gravi.
A seguire, dopo che legni e fiati sono tornati dietro alle quinte, il Concerto in re minore per due violini di Bach, che ho recentemente ascoltato anche in una tappa del Festival di Lubiana in contesto diverso perché eravamo in chiesa e con una formazione orchestrale largamente ridotta. Mi ripeto però in una considerazione iniziale che vale per Bach:

Quando si ascolta Bach la sensazione è quella di trovarsi di fronte a qualcosa di immenso di cui si può solo intuire l’architettura complessiva; la comprensione completa dell’Arte rimane, a mio parere, una chimera. E, forse, è proprio questo il fascino della Musica perché ogni volta ci parla in modo diverso, in una sorta di andamento maieutico il cui percorso si rinnova di volta in volta. Le fughe, i contrappunti, la geometrica apparente semplicità delle melodie, gli sprazzi solistici sono tutte tessere di un mosaico mobilissimo del quale, appunto, pare a volte di intuire il disegno complessivo ma subito dopo, come per magia, tutto trascolora in qualcosa di diverso e sfuggente, quasi onirico.

Nella fattispecie, il concerto vive anche di evidenti suggestioni vivaldiane e non solo per la struttura in tre movimenti ma anche per un certo retrogusto malinconico, screziato ogni tanto da vivaci ritornelli.
Il rincorrersi dei due solisti dà carattere e valenza emotiva a questa pagina distesa e distensiva, che ha regalato anche emozioni per l’affiatamento tra il giovane Giovanni Andrea Zanon e l’esperto Pinchas Zukerman. Da segnalare, ma non è certo una novità, Il solido contributo – come nel brano precedente di estrazione barocca – di Adele D’Aronzo al basso continuo.
A chiudere la serata Mozart con una delle sue composizioni più affascinanti in ambito cameristico: la Sinfonia concertante in mi bemolle maggiore per violino e viola, di carattere austero e rigoroso ma che lascia intravedere soprattutto nel Presto finale una divertita serenità.
A catalizzare l’attenzione è stata in questo caso la grande complicità tra i due solisti, che hanno dialogato con partecipata emotività sottolineando la malinconia, per esempio, dell’emozionante e avvolgente Andante del secondo movimento.
Molto buono anche in questo caso il rendimento dell’orchestra, capace di un suono deciso ma non prevaricante, anche grazie alla direzione di Zuckerman che ha preparato davvero bene la compagine triestina in cui, e mi fa piacere segnalarlo, hanno suonato molto bene i corni.
Serata trionfale, con qualche siparietto tra i due protagonisti e il pubblico, che ha gradito molto il concerto che è stato un esempio di rilievo di civiltà musicale.

Franz Joseph HaydnSinfonia in fa minore n.49
Johann Sebastian BachConcerto in re minore per due violini
Wolfgang Amadeus MozartSinfonia concertante in mi bemolle maggiore per violino e viola
  
DirettorePinchas Zukerman
  
ViolinoGiovanni Andrea Zanon
ViolaPinkas Zukerman
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste




Trieste – Teatro Verdi: Secondo concerto della stagione sinfonica e chiusura del Festival di Trieste/Il Faro della musica

Si è chiusa ieri la manifestazione Il Festival di Trieste/Faro della musica con un ultimo concerto inserito nella stagione sinfonica del Teatro Verdi di Trieste.
Organizzato in sinergia con La Società dei concerti, il Festival – lo si può già affermare senza esitazioni – è stato un enorme successo. Le motivazioni sono molteplici e indiscutibili: qualità intrinseca delle serate proposte, artisti famosi e soprattutto bravi, folta partecipazione del pubblico composto per quota parte più che significativa da giovani.
Tutte le realtà culturali e istituzionali coinvolte, le maestranze, gli sponsor, i dirigenti possono andare fieri di questa prima edizione e pensare con serenità alla prossima del 2024.
Nel concerto di chiusura protagonista è stato Mozart, colto in tre brani per pianoforte e orchestra composti tra il 1782 3 il 1786, tutti interpretati da Angela Hewitt nella doppia veste di direttore e solista al pianoforte, un monumentale e meraviglioso Fazioli.
I concerti hanno una matrice comune e cioè sono stati tutti scritti e pensati nel periodo viennese di Mozart dopo la rottura con Salisburgo. Non solo, Mozart li eseguiva personalmente per un pubblico ristretto di nobili e personalità altolocate nei salotti più in vista della città.
L’esprit salottiero è molto evidente nei due concerti eseguiti nella prima parte della serata, iniziata per motivi misteriosi con qualche minuto di ritardo: il Rondò per pianoforte e orchestra in re maggiore, K 382 e il Concerto per pianoforte n. 23 in la maggiore, K 488.
Entrambi i brani hanno caratteristiche che sono tipicamente mozartiane e cioè la brillantezza, il brio e l’agilità screziata qua e là da riflessivi ripiegamenti che si manifestano con melodie scopertamente liriche e accattivanti. Si pensi all’Adagio del secondo concerto ma non solo. C’è poi il dialogo incessante e ripetuto tra legni e archi, che si rincorrono e si completano tratteggiando quell’atmosfera di spensierata gioia tipica di un empatico disimpegno acclarato nelle intenzioni ma rigorosissimo dal lato musicale. Non a caso sono due tra i concerti più eseguiti di Mozart, perché all’ascolto appaiono come gemme purissime.
L’Orchestra del Verdi, ovviamente in formazione cameristica e con una distribuzione che prevedeva numerosi aggiunti giovani, è stata – di là di qualche comprensibile imperfezione – all’altezza di cotanta creatività, dialogando con pertinenza stilistica e suono cristallino con la solista.
Di tinta diversa invece è il Concerto per pianoforte n. 20 in re minore, K 466 e lo si capisce già dalla tonalità minore che indirizza a un’atmosfera più raccolta, meno esuberante ed esteriore di cui già la lunga e severa introduzione orchestrale è presaga.
La cantabilità è più accentuata, la valenza emotiva guarda quasi al teatro musicale e il dialogo con l’orchestra sembra se non corrusco, almeno più seriamente rigoroso. L’energia e la tensione sono più alte che nei due concerti della prima parte e il carattere è generalmente più marcato, nonostante la distensiva oasi del secondo movimento per la quale, sia detto per inciso, chi scrive non spenderebbe parole che facciano pensare a un pre Romanticismo.
Anche in questo caso l’orchestra è stata eccellente in tutte le sezioni.
Resta da considerare la prestazione di Angela Hewitt e non posso che sottolineare quanto sia stata ottima sia come direttore sia come solista.
La Hewitt ha carattere, dolcezza e luminosità di tocco, è consumata artista che accompagna con una mimica un po’ d’antan ma efficace la musica ed è raffinata nel gesto, sempre delicato e garbato, quasi fragile e al contempo capace di improvvise e robuste accensioni passionali. Inoltre è elegante sul palco da brava rappresentante di quella vecchia scuola che oggi si rimpiange quando si assistono a esibizioni sbracate ed ipercinetiche di pianisti, anche bravi, che mentre si esibiscono recitano per la grande platea dei social.
Successo al calor bianco, teatro affollato bis e acclamazioni. Tutto meritato.

Wolfgang Amadeus MozartRondò per pianoforte e orchestra in re maggiore, K 382
Wolfgang Amadeus MozartConcerto per pianoforte n. 23 in la maggiore, K 488
Wolfgang Amadeus MozartConcerto per pianoforte n. 20 in re minore, K 466
  
Direttore e pianoforteAngela Hewitt
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste

Partita la stagione sinfonica del Teatro Verdi di Trieste: Beethoven, Weber e Schumann schiudono le porte del Romanticismo

Inserita nella meritoria manifestazione Il Festival di Trieste/Faro della Musica è partita col primo concerto la stagione sinfonica del Teatro Verdi di Trieste. L’apertura è stata dedicata al Romanticismo, movimento trasversale, che sconvolse l’Europa a cavallo degli anni tra il 1700 e il 1800 con pagine musicali di compositori che di codesta temperie culturale sono il paradigma: Carl Maria von Weber, Robert Schumann e Ludwig van Beethoven.
L’Ouverture da Oberon ha principiato la serata e non poteva essere che così per un concerto romantico; il suono del corno evoca immediatamente quel mondo che, soprattutto nei primi anni, ha portato la magia fiabesca delle fate, dei folletti e anche di visioni demoniache nella musica.
Hartmut Haenchen, il quale già l’anno scorso battezzò la stagione sinfonica triestina, ha dato ulteriore prova della sua grande capacità di esprimere il carattere inquieto di una pagina musicale attraverso l’uso misuratissimo delle dinamiche. Eccellente, in questo senso, la risposta dell’Orchestra del Verdi, una compagine che sta crescendo a vista d’occhio e alla quale la recente nomina di Enrico Calesso come Direttore Musicale non potrà che fare bene.

A seguire il ritorno a Trieste di Antonio Menenes, uno dei maggiori virtuosi del violoncello, che all’inizio della carriera (1978) fu già ospite della Società dei Concerti interpretando il Concerto per violoncello e orchestra in re maggiore di Haydn per tornare poi, nel 1985, per la stagione sinfonica del Verdi con lo stesso Concerto in la minore per violoncello e orchestra di Robert Schumann eseguito anche stasera.
Brano per certi versi enigmatico, sofferto e più volte rivisto da Schumann che forse non riuscì nemmeno ad ascoltarlo a causa della prematura dipartita. Nonostante la classica struttura in tre movimenti è eseguito senza interruzioni – circostanza che ha colto di sorpresa qualche spettatore – e l’orchestra si limita a un accompagnamento ponderato del solista fatto di riprese e accentuazioni, anche se ovviamente il dialogo col podio è indispensabile.
Il violoncello è assoluto protagonista quindi, e Menenes ne ha data ampia dimostrazione sfoderando un suono molto bello, caldo, avvolgente e sin troppo perfetto anche nella cadenza conclusiva. Insomma, un’interpretazione ineccepibile, da applaudire, ma che forse non ha indagato tra le pieghe delle inquietudini sottese alle note.
Meritatissimo trionfo per Antonio Menenes, che ha concesso anche due bis (Villas Lobos e Bach).
Dopo la pausa è sbocciato Beethoven nell’affollato teatro triestino, con la Sesta sinfonia che già con il Pastorale che l’accompagna si presenta da sola, almeno per un primo livello di lettura.
Poi certo ci sono i pareri, anche autorevolissimi, di chi invita a un ascolto più consapevole e meditato ma io credo che oggi, nel 2023, un ascolto epidermico renda attualissimo questo capolavoro.
Chi non desidera un ritorno alla vita serena della campagna, al rumore soffice e al contempo impetuoso dello scorrere dell’acqua e del gentile cinguettare degli uccelli? Poco importa se l’ispirazione ha avuto una matrice pittorica o letteraria, quello che conta è che la musica emana serenità e gioia.
E perciò lode incondizionata ad Haenchen, che tutte queste meraviglie ha saputo ridestare tramite l’Orchestra del Verdi, eccellente in tutte le sezioni e brillante in particolare nei legni e negli ottoni.
Anche in quest’occasione teatro molto affollato e spettatori attenti e coinvolti, peccato che un’anziana signora si sia quasi arresa al suono del cellulare nonostante l’intervento di un giovane che le sedeva davanti. Ma è il teatro, nessuno è perfetto neanche qui in queste sale dedicate alla musica e comunque fuori c’è un mondo di turisti per caso sempre fracassone, spesso volgare e intontito dal proprio vagare senza senso.

Carl Maria von WeberOuverture da Oberon
Robert SchumannConcerto in la minore per violoncello e orchestra
Ludwig van BeethovenSinfonia n.6 in fa maggiore (Pastorale)
  
DirettoreHartmut Haenchen
VioloncelloAntonio Meneses
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste

Trieste – Teatro Verdi: Jordi Savall e l’Ensemble Hesperion XXI inaugurano Il Festival di Trieste

È sempre emozionante assistere a una nascita in generale, nello specifico all’esordio di una manifestazione culturale alla quale, da queste pagine dedicate alla Musica, OperaClick fa gli auguri di una vita lunga e felice.
Sto parlando di Il Festival di Trieste-Il Faro della musica, un’iniziativa in sinergia tra due grandi e gloriose istituzioni culturali triestine: La Società dei Concerti e il Teatro Verdi di Trieste.
Un progetto che ha richiesto – come specificato nell’intervento che ha preceduto la serata dalle autorità e dai dirigenti – anni di lavoro e che ha coinvolto moltissime realtà culturali e non solo del territorio.
Il primo concerto è andato alla ricerca metaforica della scaturigine della musica per come la intendiamo oggi e cioè la musica antica. Ovviamente è una semplificazione, perché alla musica e all’Arte in generale poco si attagliano le etichette o le tassonomie: l’estro artistico, per fare un paragone geograficamente calzante, è come un fiume carsico che riaffiora per poi scomparire e formare ancora nuove sorgenti anche in luoghi inaspettati e sorprendenti.
Jordi Savall insieme all’Ensemble Hesperion XXI è da sempre uno dei divulgatori più prestigiosi e costanti di questo repertorio, che ha alcune caratteristiche che bisogna conoscere se si vuole apprezzarne la bellezza.
La circostanza fondamentale da considerare è che quasi mai ci sono edizioni critiche come per la lirica o la sinfonica, ma semplicemente delle trascrizioni che assomigliano a un work in progress che comprende improvvisazioni anche fulminee, come è norma in ambito musicale jazzistico.
Voglio dire non è il dipanarsi di una sinfonia tardo romantica con la sua architettura stabile suddivisa in movimenti e tempi in cui lo spazio per l’interpretazione c’è ma deve rispondere a vincoli precisi: la musica fluisce in soluzioni armoniche reiterate e “mascherate” creando atmosfere cangianti che si compenetrano, si attorcigliano, si completano vicendevolmente. Sono composizioni anarchiche, libere dalle forme.
L’ispirazione è etnica e folclorica, nella serata di ieri di provenienza spagnola e portoghese con sfumature celtiche, italiane e inglesi. Le danze popolari, le cantilene, le nenie nelle loro infinite variazioni sono il fulcro di una serata dedicata a questa musica.
Non starò qui a sottolineare il magistero tecnico e il virtuosismo di Savall, che vive in simbiosi con la viola e la viola da gamba, qualità che distinguono anche Andrew Lawrence-King (arpa) e David Mayoral (percussioni).
Quello che conta è che nell’arco della serata il trio tra sguardi, sorrisi e ammiccamenti ha creato un’atmosfera incantata e fiabesca alla quale ha contribuito anche il pubblico con un silenzio e un’attenzione che non riscontravo da anni in un teatro o in una sala da concerto. L’ambiente immacolato deve essere stato terapeutico perché ha miracolato all’istante i tossitori seriali e gli scartatori compulsivi di caramelle, neanche fosse uno di quegli elisir portentosi di cui si favoleggia nella lirica.
Anche nelle fasi più accese e sensuali – penso a Savall che amoreggia con la viola – la tensione emotiva era altissima e al contempo eterea, impalpabile come la visione in un sogno di cui si ricordano a stento solo i frammenti.
Arpa e percussioni non sono state certo ancelle in questa festa della musica, ma protagoniste al pari della viola. In particolare l’intervento anche delicatissimo delle percussioni ha dato sempre una profonda tridimensionalità all’esecuzione.
Pubblico più che numeroso che ha tributato un uragano di applausi agli artisti i quali, generosamente considerando che la serata non aveva intervalli, hanno concesso bis a ripetizione.
Un Festival che è nato sotto una buona stella, che nella seconda serata affronterà tutt’altro repertorio.

Jordi SavallViola da gamba
Andrew Lawrence-KingArpa
David MayoralPercussioni

Herbert Blomstedt col suo carisma ipnotizza il pubblico e chiude felicemente il Festival di Lubiana con la Gewandhaus di Lipsia

Si è concluso ieri il 71° Festival di Lubiana, dopo una cavalcata di due mesi in cui tutta la capitale slovena è stata addobbata a festa dalla presenza della musica che è risuonata ovunque: nelle strade, nelle chiese e ovviamente nei luoghi più deputati all’ascolto come le sale per i concerti.
L’ultimo appuntamento prevedeva una delle più grandi e prestigiose orchestre europee, la Gewandhaus di Lipsia guidata da Herbert Blomstedt.
Sarà scontato, ma è impossibile non cominciare questa cronaca proprio dal direttore svedese perché – di là del fatto anagrafico, a 96 anni sul podio! – la sua presenza è stata artisticamente determinante per la serata.
Il gesto è asciutto e misurato, ma lo è sempre stato, non è una questione di età bensì di approccio alla “professione” di direttore d’orchestra.
E infatti Blomstedt coglie perfettamente “l’inattualità” – riferita al contesto musicale del tempo – della Sinfonia n.5 in si bemolle maggiore di Franz Schubert il quale, mentre Beethoven dettava l’agenda musicale con i suoi meravigliosi turgori romantici, con questa sinfonia fa un passo indietro nel tempo e torna a Mozart e Haydn sia nell’organico orchestrale, ridotto, sia nell’ispirazione quasi cameristica.
Ne esce una pagina musicale in cui la vaporosa leggerezza di fondo è ulteriormente ingentilita da un gesto nobile e contenuto, da dinamiche moderate ma efficacissime, che esaltano la sottile eleganza degli archi. Al contempo le agogiche, spedite e briose ma mai frettolose e arrembanti, danno alla narrazione quella felice fluidità che fa esaurire in un lampo l’esecuzione tanto che, alla fine, ho pensato dentro di me “Ne vorrei ancora!”.
Sostenuto dal Konzertmeister Frank-Michael Erben, Blomstedt si è goduto l’uragano di sinceri applausi che gli ha tributato il pubblico, trovando anche il tempo di omaggiare tutte le sezioni dell’orchestra.
Nelle sue vesti di direttore nell’arco della lunghissima carriera Blomstedt è stato anche un grande divulgatore, nel senso che ha contribuito in modo decisivo alla diffusione della musica della scuola scandinava. A lui si deve la popolarità di Jean Sibelius, per esempio, che non era certo sconosciuto ma sicuramente poco eseguito a suo tempo.
Ieri ha proposto due pagine di un altro compositore non esattamente conosciutissimo, lo svedese Franz Adolf Berwald il quale, dopo una vita in cui esercitò anche da…ortopedico, ha trovato considerazione artistica postuma.
La sua è una musica in cui le influenze romantiche sono evidenti – soprattutto nel primo breve brano proposto, “Ricordi delle Alpi norvegesi” – ma anche alcune peculiarità come nella Sinfonia n.3 in do maggiore che ha chiuso la serata.
Interessante, nella fattispecie, come il compositore in un contesto fiero riesca a ritagliare momenti improntati a una sinuosa inquietudine soprattutto nei primi due movimenti (Allegro fuocoso e Adagio).
Mi pare ridondante elogiare un’orchestra come la Gewandahaus ma, dal momento che qualche parola bisogna spenderla mi limiterò ad affermare che è stata semplicemente perfetta perché al magistero tecnico unisce anche un calore e una partecipazione emotiva non comune, soprattutto quando queste famose compagini vanno in tournée. E, probabilmente, anche questo è un merito di Herbert Blomstedt.
Ovviamente il pubblico, ipnotizzato dal magnetismo dello splendido quasi centenario sul podio, ha tributato alla serata un trionfo grandioso, meritato e, parere mio, propedeutico e ben augurante per la prossima edizione di questa bellissima kermesse che è il Festival di Lubiana che spero di poter seguire con assiduità anche l’anno prossimo.

Franz SchubertSinfonia n.5 in si bemolle maggiore
Franz BerwaldRicordi delle Alpi norvegesi
Franz BerwaldSinfonia n.3 in do maggiore
  
DirettoreHerbert Blomstedt
  
Gewandhaus Orchestra di Lipsia



Recital di Ludovic Tézier e Jonathan Tetelman a Lubiana. Grande successo per tutti, compreso Marco Boemi alla testa della Filarmonica Slovena

Questa estate sarà ricordata a lungo in Slovenia per le precipitazioni che definire abbondanti è davvero sottile eufemismo. Oltre al territorio devastato dalle inondazioni ne ha risentito anche la programmazione del Festival, perché alcuni eventi sono stati spostati last minute, per fortuna senza recare troppi disagi.
È stato il caso del concerto di ieri sera, inizialmente previsto nel comprensorio di Križanke di cui ho accennato qui e spostato nella sede – prestigiosissima per storia e tradizione esecutiva – della Filarmonica slovena.
I protagonisti sono stati il baritono Ludovic Tézier e il tenore Jonathan Tetelman, con Marco Boemi sul podio dell’orchestra di casa.
Programma, come sempre in queste occasioni, piuttosto variegato e cucito su misura per esaltare i pregi dei solisti. Va spesa però una parola per l’ottimo Marco Boemi, che ha ben guidato un’orchestra brillante e ha saputo dare comunque un’impronta personale alla serata; circostanza tutt’altro che scontata in codeste esibizioni, che vivono delle prestazioni dei solisti e in cui direttore e orchestra sono quasi ai margini dell’interesse del pubblico.
Boemi ha dato personalità e nerbo alle pagine orchestrali che trovate in locandina e particolarmente riuscita è stata l’esecuzione della Danza delle ore dalla Gioconda di Ponchielli, che ha esaltato gli spettatori. Molto ben interpretato anche il Baccanale dal Samson di Saint-Saëns, mentre più anonima – ma la musica è comunque adrenalinica – è sembrata l’Ouverture dalla Forza verdiana. Corretta, ma un po’ spenta, è sembrata l’esecuzione della Méditation dalla Thaïs interpretata dal solista Miran Kolbl.
 L’accompagnamento ai cantanti è sembrato accurato ma, almeno così è parso, meno appiattito sulle esigenze dei solisti di quanto lo sia di solito in questi recital.
Per quanto riguarda i protagonisti, Ludovic Tézier si è confermato quel grande artista acclamato nei maggiori teatri del mondo. Disinvolto in scena, conta su di una voce di timbro scuro ma non tetro che modula con grande perizia tecnica. Eccellente la tecnica di respirazione, che gli consente legato ed emissione d’antan. Non sono un fan di certi riconoscimenti, ma indubbiamente il Premio Cappuccilli è andato in buone mani. Nello specifico, ho gradito molto la sua interpretazione della grande aria Nemico della Patria da Andrea Chénier.
Jonathan Tetelman è il classico tenore emergente, ancora poco noto in Italia, ma presente all’estero in produzioni prestigiose; è di un mese fa il debutto a Salisburgo nei panni di Macduff.
La voce è di timbro bello e solare, gli acuti esibiti con baldanza e il registro centrale rigogliosissimo. La sensazione è che l’artista tenda a essere un po’ superficiale nelle sue interpretazioni e che sia più a proprio agio in un canto muscolare che nelle sottigliezze psicologiche, ma un Recital non è sicuramente la sede adatta per una valutazione completa. In ogni caso, grazie anche all’estrosa comunicatività e alla bella presenza, è stato applauditissimo. Credo non sia un caso che la sua interpretazione più riuscita sia stata l’aria di Turiddu dalla Cavalleria rusticana di Mascagni, mentre nell’iniziale duetto dai Pêcheurs de perles è sembrato un po’ fuori parte.
Alla fine successo al calor bianco per tutti e due bis eseguiti a furor di popolo: il duetto tra Marcello e Rodolfo dalla Bohème di Puccini e la riproposta del duetto dalla Carmen già prevista dal programma.

Georges BizetAu fond du temple saint da Les Pêcheurs de perles
Jules MassenetMéditation da Thaïs
Jules MassenetVoilà danc la terrible cité da Thaïs
Jules MassenetPourquoi me réveller da Werther
Georges BizetVotre toast, je peux vous le rendre da Carmen
Camille Saint-SaënsBaccanale da Samson et Dalila
Georges BizetJe suis Escamillo da Carmen
Amilcare PonchielliLa danza delle ore da Gioconda
Pietro MascagniMamma, quel vino è generoso da Cavalleria rusticana
Umberto GiordanoNemico della Patria da Andrea Chénier
Giuseppe VerdiOuverture da La forza del destino
Giuseppe VerdiO figli, o figli miei da Macbeth
Giuseppe VerdiDio, che nell’alma infondere da Don Carlos
  
BaritonoLudovic Tézier
TenoreJonathan Tetelman
  
DirettoreMarco Boemi
  
ViolinoMiran Kolbl
  
Orchestra Filarmonica Slovena

A Lubiana è il tempo delle grandi orchestre. La Royal Concertgebouw e Iván Fischer esaltano la Settima di Mahler

Al Festival di Lubiana è tradizione invitare grandi orchestre e anche questa edizione non fa eccezione.
Ieri è stata la volta della Royal Concertgebouw di Amsterdam diretta da Iván Fischer e nei prossimi giorni toccherà alla Boston Symphony Orchestra (Andris Nelsons) e per il concerto di chiusura alla Gewandhaus di Lipsia con il grande vecchio Herbert Blomstetd.
La Sinfonia n.7 in mi minore di Mahler è una pagina musicale impressionante che rispecchia in pieno la lacerata e controversa personalità del compositore che vi lavorò incessantemente e con furore – come riporta la moglie Alma –  quasi sino alla prima, che si svolse a Praga nel 1908.
Strutturata in cinque movimenti che comprendono due Nachtmusiken, il brano ha carattere mutevole ma persino sovrabbondante di effetti coloristici in cui convivono felicemente marce e atmosfere eteree. L’organico orchestrale è quello proverbialmente ampio di Mahler, particolarmente ricco nelle percussioni (timpani, piatti, grancassa, glockenspiel, triangolo, frusta, campanacci e campana) e prevede anche la chitarra e il mandolino nella seconda Nachtmusik.
Iván Fischer ha scelto un’interpretazione che definirei barbarica e rutilante, addirittura brutale in certi momenti, ma che ha restituito in pieno l’espressività e il contrasto di sentimenti di cui la musica è ambasciatrice. Nonostante ciò, il controllo delle dinamiche non gli è mai sfuggito di mano. In questo modo le poche oasi più serene della sinfonia sono emerse in modo prepotente e hanno avuto un nitore spirituale ancora più rilevante. Le agogiche tese, agitate, hanno innervato di grande tensione tutta l’esecuzione.
L’orchestra ha risposto come era lecito aspettarsi dal suo rango e cioè in maniera strepitosa in tutte le sezioni.
Formidabili gli archi gravi con gli otto contrabbassi che hanno fatto un lavoro incredibile, dialogando e al contempo sostenendo con vigore i continui colloqui con i legni. Lucenti e precisi gli ottoni, con i corni in grande evidenza. Le percussioni hanno restituito quelle sfumature agresti che profumavano di una ruralità antica e, probabilmente, ormai perduta.
Nel Rondò finale, che è una specie di sintesi di buona parte dell’inventiva mahleriana, l’emozione suscitata dal fluire della musica è stata rafforzata proprio dalla straordinaria coesione della compagine. Eccellente, tra gli altri, la prestazione della Konzertmeister.
il pubblico, numeroso ma forse meno folto del solito a causa delle proibitive condizioni atmosferiche, ha tributato un quarto d’ora di acclamazioni e applausi a direttore e orchestra.

Gustav MahlerSinfonia n.7 in mi minore
  
DirettoreIván Fischer
Royal Concertgebouw Orchestra



Un Don Giovanni tradizionalmente bello apre il Festival di Portogruaro: Mozart non delude mai!

Il 2023 saluta la quarantunesima edizione del Festival di Portogruaro che quest’anno è stato inaugurato per la prima volta con un’opera lirica. La scelta è caduta su uno dei più grandi capolavori della Storia della Musica: Don Giovanni di Mozart. Tra l’altro il librettista Da Ponte – e mai simile definizione è stata così riduttiva – ha vissuto un rapporto strettissimo con la cittadina veneta.
Alessandro Taverna, che della manifestazione è Direttore artistico, ha fatto una scommessa piuttosto rischiosa ma il quarto d’ora di applausi al termine dell’unica recita sono lì a dimostrare che l’azzardo è stato ripagato nel modo migliore possibile e cioè con l’apprezzamento incondizionato di un pubblico folto, attento e partecipe. Insomma, un trionfo, sostantivo spesso abusato ma che in questo caso spendo serenamente.
Non mi soffermerò sul Don Giovanni, che dopo 236 anni dal debutto a Praga conserva ancora gelosamente il proprio mistero – i libretti della trilogia Da Ponte sono vere e proprie anticipazioni delle teorie psicanalitiche che verranno un secolo dopo – e ci parla come se fosse stato scritto oggi. Anche l’ascoltatore di lungo corso, come chi scrive, resta ancora affascinato dal magnetismo di un’opera che indaga nelle pieghe di ognuno in un processo maieutico che costringe a farci domande e non a cercare risposte. Don Giovanni è, semplicemente, il paradigma del teatro lirico.
Il regista Alfredo Corno, che firma anche le scene e i costumi, si fa guidare da ciò che è scritto sul frontespizio del libretto: Dramma giocoso, un ossimoro che spiega già che un’ambiguità luciferina è la chiave di lettura dell’opera: si ride amaro, si piange ma con una punta di autocompiacimento, si ama ma sino a un certo punto. In un modo o nell’altro tutti i personaggi perseguono egoisticamente un loro scopo più o meno occulto e il più limpido è proprio lui, il cattivone, quel Don Giovanni che vuole scopare e basta. O no?
Messa in scena tradizionale – ammesso che voglia dire qualcosa – sotto ogni punto di vista, quindi, ma tutt’altro che stanca e fiacca perché le controscene sono curate, si percepisce che le interazioni tra i personaggi sono pensate e la vicenda procede senza intoppi, fluida e scorrevole.
Ho apprezzato la direzione di Massimo Raccanelli, sul podio dell’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta che tutto sommato ha fatto il proprio dovere, nonostante qualche imperfezione qua e là che nella musica dal vivo è sempre presente anche in compagini più prestigiose. Dinamiche controllate e agogiche spedite ma non frettolose hanno garantito equilibrio e compattezza alla narrazione.
Qualche problema l’ha dato l’acustica della sala del Teatro Russolo, che non è pensata per l’opera lirica – la buca non c’è proprio – e in un lavoro in cui il dialogo tra archi e legni è incessante la prevalenza, almeno dalla mia posizione, di questi ultimi qualche volta è stata un po’ spiazzante. Anche il buon Coro Kairo Vox, preparato da Alberto Pelosin, ha risentito in questo senso perché nella scena finale si percepiva appena.
Per quanto riguarda gli interpreti mi sento di accomunarli in un grande plauso.
Christian Federici ha caratterizzato un mobilissimo Don Giovanni col fraseggio, una bella voce da basso baritono puro e una presenza scenica sobria ma carismatica.
Bravo Rocco Cavalluzzi, Leporello ipercinetico e mai sopra le righe nella gestualità in una parte che si presterebbe a qualche esuberanza.
Valentina Mastrangelo (Donna Elvira) ed Elisa Verzier (Donna Anna) hanno figurato entrambe splendidamente: voci di bel timbro, adatte alla parte, eleganti, fiere e nobili come è giusto che sia per questi personaggi che devono differenziarsi anche nel portamento e nell’accento dal “basso stato”.
Forse un po’ rigido sul palco ma convincente anche Gillen Munguia (Don Ottavio) che ha cantato e recitato con professionalità in una parte ingrata che comprende due arie di difficoltà tecnica immane.
Disinvolta Maria Chiara Ardolino nei panni di Zerlina e buona anche la prestazione di Francesco Toso (Masetto). A completare la compagnia artistica Carlo Malinverno, il quale ha interpretato un autorevole Commendatore.
Dicevo all’inizio del pubblico, che ha gradito molto la serata e ha spesso applaudito (a ragione) anche a scena aperta i protagonisti.
Aggiungo a chiosa finale della recensione che nelle piccole realtà spesso si trova un amore per il teatro lirico che latita in altre istituzioni più note. La serata, per quanto mi riguarda, è stata un grande esempio di etica del lavoro e civiltà teatrale.

Don GiovanniChristian Federici
Donna AnnaElisa Verzier
Don OttavioGillen Munguia
Donna ElviraValentina Mastrangelo
CommendatoreCarlo Malinverno
LeporelloRocco Cavalluzzi
MasettoFrancesco Toso
ZerlinaMaria Chiara Ardolino
  
DirettoreMassimo Raccanelli
  
Regia, scene e costumiAlfredo Corno
LuciAndrea Gritti
  
Direttore del coroAlberto Pelosin
  
Orchestra Regionale Filarmonia Veneta



Al Festival di Lubiana i concerti si susseguono, anche in chiesa!

violinist Lana Trotovšek seen here at the Swiss Church Covent Garden, 9th December 2020. Commisioned by The Greenwich Trio

Ho avuto già modo di scrivere che il Festival di Lubiana coinvolge tutto il territorio della capitale slovena.
Dopo la serata Mahler in Lubiana, ieri sono tornato nella deliziosa Chiesa di Nostra Signora della Misericordia per un altro concerto intrigante, che prevedeva un mix di pagine musicali di compositori celeberrimi dell’Ottocento (Beethoven e Brahms) e altri due brani del Novecento firmati da autori – almeno a me – meno noti (Hansen e Antheil). Anche in questa occasione il concerto era esaurito, a conferma del seguito che ha il Festival e della felice scelta della programmazione effettuata da Darko Brlek, patron della manifestazione.
Di Thorvald Hansen, artista danese eclettico e trombettista, è stata eseguita la composizione estrema: la Sonata per pianoforte e tromba op. 18 scritta nel 1915, anno della morte.
Il brano è strutturato in tre brevi movimenti in cui la tromba, affidata al solista Rheinhold Friedrich, è sempre protagonista col suo suono lucente e limpido. Nel dialogo col pianoforte, suonato dalla compagna Eriko Takezava, gli impasti sonori sono stati suggestivi ma leggermente penalizzati dall’acustica della sala, che per la sua struttura tende a far riverberare entrambi gli strumenti. Bello, in particolare, l’Andante molto espressivo del secondo movimento.
A seguire la Sonata per pianoforte in do minore nr. 8 di Beethoven (Patetica), interpretata da Eriko Takezava in modo convincente grazie a un approccio tutt’altro che sdolcinato e, anzi, in alcuni passaggi sin troppo rude. Il famoso primo accordo, che dà la tinta al brano, è risuonato tellurico. Nei due movimenti successivi, meno tempestosi e improntati a un sottile lirismo, la solista è stata invece impeccabile sia nel tratteggiare la melodia sia nel dipanare l’esuberante vitalità che chiude il brano.
La prima parte della serata si è conclusa con l’esecuzione della Sonata per tromba e pianoforte di George Antheil, poliedrico compositore americano che scrisse anche famose -negli anni Venti del secolo scorso – colonne sonore per film.
Anche in questo caso l’esecuzione è stata affidata al duo Friedrich/Takezava che ne hanno dato un’interpretazione brillante e adrenalinica grazie al virtuosismo del trombettista, in un brano di sapore jazzistico che sprigiona brio ed energia anche grazie all’uso, nel secondo movimento, della sordina.
Applausi scroscianti per tutti alla fine della prima parte e bis – che francamente non ho riconosciuto – di Rheinhold Friedrich.
Dopo il breve intervallo è stato eseguito il pezzo forte della serata e cioè il Trio in mi bemolle maggiore per violino, corno e pianoforte op. 40 di Brahms, interpretato da Lana Trotovšek (violino), Beata Ilona Barcza (pianoforte) e Andrej Žust (corno).
Pagina musicale di gusto tipicamente romantico, il Trio si caratterizza per la presenza inusuale del corno, il cui suono è però quasi un simbolo del Romanticismo stesso (penso all’Ouverture da Der Freischütz di Weber).
Anche in questo caso devo rilevare come l’acustica della chiesa non abbia favorito l’equilibrio dell’esecuzione, perché il violino – peraltro brillantemente suonato da Lana Trotovšek – spesso è stato coperto dagli altri strumenti o perlomeno così era dal mio posto.
Il brano vive di forti contrasti, più trattenuti e sottotraccia che espliciti, che esprimono un’alternanza di mutevoli sentimenti. Si accavallano nostalgiche melodie che richiamano a una malinconia naturalistica e improvvise aperture se non spensierate, almeno più vivaci. La circostanza è palese nei due movimenti finali, in cui la transizione tra l’Adagio mesto e l’Allegro con brio, entrambi innervati da una forte e vitale pulsione ritmica, è sembrata paradigmatica dell’ispirazione brahmsiana.
L’incedere della musica dà modo a tutti i solisti di esibire con sobrietà il proprio virtuosismo.
Successo pieno, con il pubblico generoso di applausi per tutti.

ViolinoLana Trotovšek
CornoAndrej Žust
TrombaRheinhold Friedrich
PianoforteEriko Takezava
PianoforteBeata Ilona Barcza
  
Thorvald HansenSonata per pianoforte e tromba op. 18
George AntheilSonata per tromba e pianoforte
Ludwig van BeethovenSonata per pianoforte in do minore nr. 8
Johannes BrahmsTrio in mi bemolle maggiore per violino, corno e pianoforte op. 40




Gran Teatro Italia, ultima fatica di Alberto Mattioli, ci racconta la parte più nobile del nostro Paese.

Era il 3 dicembre 2011 quando, davanti all’entrata dell’amatissimo Teatro La Fenice di Venezia in cui mi ero recato per assistere alla prima di un Trovatore, mi sentii chiedere: “Scusi, lei è Paolo Bullo?
Panico. Paura. Un critico musicale teme tale approccio: sarà un soprano imbufalito? Un tenore incinghialito? Un baritono della scuola del muggito che mi vuole prendere a cornate? Sono brutti momenti in cui in un attimo ti passano davanti agli occhi tutte le critiche negative che hai scritto.
Invece no, era Alberto Mattioli, giornalista esimio prima ancora che critico musicale e gattolico, che voleva conoscermi de visu perché pochi giorni prima era stato chiamato in causa sul mio storico blog Di Tanti Pulpiti e aveva commentato non ricordo quale recensione o circostanza.
Credo che non fosse uscito ancora il suo secondo libro di successo, “Meno grigi e più Verdi. Come un genio ha spiegato l’Italia agli italiani.”
Nel frattempo ha scritto e fatto altro – anche libretti per opere – ma oggi parlo dell’ultimo librino come lo chiama il Nostro, maramaldeggiando con la sottile arte del cleuasmo: “Gran teatro Italia. Viaggio sentimentale nel paese del melodramma.”
Trovo che sia la sua pubblicazione migliore perché divulga non tanto l’opera lirica bensì l’amore e la passione per il teatro lirico attraverso alcune vicende note e meno note di tantissimi teatri italiani. Non tutti e qualcuno ha fatto polemica cretina perché invece io lo interpreto come una dimostrazione di serietà: se uno non ha di che scrivere che fa, si inventa le cose? Lo so che oggi si fa spesso così, ma insomma, via.
Credo che tutti sappiano che in Italia i teatri sono – scusate l’esagerazione – numerosi come le caserme dei carabinieri, ce ne sono ovunque e di tutte le dimensioni; perlopiù sono gioielli architettonici ricchissimi di storia e spesso danno lavoro a centinaia di persone.
Anche qui, magari non tutti perché l’incompetenza e la malapolitica hanno consentito qualche scempio anche in luoghi insospettabili.
A Trieste, exempli causa, non hanno costruito niente, ma in compenso hanno abbattuto o cambiato destinazione d’uso a due teatri solo per restare all’attualità: rasa al suolo la Sala Tripcovich/de Banfield, dove ora non c’è più nulla. Sì, avete capito bene, nulla. Il Filodrammatico invece, che vantava anche una tradizione prestigiosa datata 1828 e ben 1800 posti in una via che, puta caso, per la toponomastica è degli Artisti, è diventato dopo alterne (s)fortune una specie di condominio per persone abbienti e turisti. Ma, in linea generale, in Italia prevalgono le storie positive o comunque non horror come a Trieste.
Mattioli, passando in rassegna un’infinità di teatri e teatrini, parla anche di teatranti e del pubblico, anzi di quella particolare categoria antropologica che sono gli spettatori del teatro d’opera. Ci ricorda la meraviglia di grandi scrittori e compositori del passato di fronte alle bellezze dei templi della musica.
Ci racconta aneddoti di vita vissuta, ogni tanto attinge ai Sacri Testi – sono molte le divertenti citazioni tratte da libri di un tempo – e altre volte si affida ai relata refero.
Tramite il progressivo uso di queste tessere ci illustra quel meraviglioso mosaico in divenire che è l’Italia e parte della sua Storia più nobile e, in un gioco di specchi che incontrerebbe il gusto di Robert Carsen, ci parla degli italiani e dei loro vezzi e malvezzi.
Il libro, che prevede una Sinfonia iniziale e un Intervallo, è scritto nel consueto stile divulgativo dell’Autore ed è scorrevole e anche divertente per chi sa cogliere l’ironia e, qualche volta, anche accettare il sarcasmo.
Su certe affermazioni in merito ai melomani e alle regie operistiche, peraltro più che note a chi è dell’ambiente, qualcuno dissentirà, sparlerà, maledirà, scrivendo quindi metaforicamente un altro atto del libro. Il foyer dell’opera e sempre aperto e accertato che, come dico io, il nome del nostro bistrattato Paese è tenuto alto più dai morti che dai vivi saranno cachinni che dureranno come lampo in notte bruna.
Dobbiamo volere bene ai nostri teatri, andiamo ad abbracciarli ogni tanto come si usa in silvoterapia con gli alberi, perché al loro pari hanno radici profonde. Magari non aumenteremo i globuli rossi ma sicuramente ne trarranno giovamento le sinapsi del cervello.
È un libro che consiglio davvero a tutti, soprattutto a chi di teatro, opera e argomenti correlati sa poco o nulla.