Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Mahler, Schumann e… Svevo al Teatro Verdi di Trieste. Grande prestazione della compagine orchestrale triestina guidata dal Maestro Enrico Calesso.

Il 2023 è l’anno del centenario della pubblicazione di “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, romanzo iconico per noi triestini e non solo.
Soprattutto nelle ultime settimane le celebrazioni si sono susseguite senza soluzione di continuità: dibattiti, pièce teatrali, manifestazioni varie che hanno coinvolto tutta la città.
In questa temperie il Teatro Verdi di Trieste, massima istituzione culturale della regione, ha dato un importante contributo programmando per l’ultimo concerto della stagione sinfonica una pagina musicale di Giulio Viozzi – compositore triestino – dedicata proprio al concittadino scrittore: “Musica per Italo Svevo”, un brano sostanzialmente sconosciuto che è stato riscoperto recentemente e che risale al 1962.
È sempre difficile dare un giudizio al primo ascolto, ma qualche indicazione si può esprimere.
Scritta per una grande orchestra, la pagina musicale è tipicamente novecentesca come ha ben spiegato Enrico Calesso, all’esordio ieri nelle vesti di nuovo Direttore stabile della fondazione triestina.
Il tema inziale percorre tutto il brano ed è di carattere principalmente eroico, tanto che ascoltando – nonostante l’interruzione di un cellulare, il mio – il primo accostamento che m’è passato per la testa è stato con la colonna sonora di qualche film. L’uso piuttosto intenso delle percussioni e i contrasti dinamici mi hanno anche ricordato Stravinsky e il Puccini della Turandot, ma sono codeste suggestioni di un modesto recensore che ha anche apprezzato la splendida prova degli archi gravi.
Difficile, anche per chi come me conosce quasi a memoria il romanzo di Svevo, trovare qualche collegamento con le vicende di Zeno Cosini.
A seguire, dopo l’immersione nell’esprit di una Trieste culla della Mitteleuropa e fucina di talenti trasversali, il Concerto in la minore per pianoforte e orchestra op.54 di Robert Schumann, interpretato da Massimo Gon.
Strutturato in tre movimenti – l’Intermezzo e l’Allegro sono stati eseguiti senza interruzione, come da indicazioni del Compositore – il brano è uno dei capisaldi del Romanticismo ed è un esempio di dialogo alla pari tra orchestra e solista, che si compenetrano in un flusso sonoro in cui quasi mai prevale un virtuosismo esasperato e che esalta la poetica di una narrazione a tutto tondo innervata da mutevoli stati d’animo screziati da tenere malinconie. Molto buona la prestazione dei legni, nello specifico.
Gon ha un tocco delicato, quasi timido nella sua dolcezza e nella raffinata eleganza nell’affrontare gli arpeggi che ha reso luminosa e al contempo riflessiva, in alcuni momenti quasi ombrosa, l’esecuzione. Successo pieno, suggellato da due bis dedicati a Chopin e Scarlatti.

Dopo l’intervallo è stato servito il piatto forte della serata, la Prima sinfonia in re maggiore di Gustav Mahler che credo non abbia bisogno di presentazioni, sia perché è notissima sia perché è una delle vette più alte della musica sinfonica tout court.
E qui ci starebbe un lungo e particolareggiato peana all’Orchestra del Verdi che, come più volte rilevato nelle recensioni – non solo qui su OperaClick, ma ovunque ci sia qualcuno sensato che si occupa di musica –  va a concludere un anno in cui l’ensemble di casa ha acclarato una crescita artistica e professionale straordinaria. E questa crescita si è manifestata in tutte le sezioni, credo di poterlo affermare con sicurezza visto che seguo le recite di musica lirica e sinfonica da…qualche anno: diciamo cinquanta.
Il Titano presenta enormi difficoltà esecutive – insomma, è Mahler, il rischio di confondere tutto in un indistinto magma sonoro è altissimo – eppure ieri il suono è uscito pulito, devastante nelle dinamiche impreziosite da agogiche che non erano pigre, bensì meditate e analitiche, che è tutt’altra cosa.
Gli archi gravi e gli ottoni sono stati straordinari (bravissima Chiara Molent, primo contrabbasso della fondazione), ma tutte le sezioni hanno suonato in modo eccellente.
Le compagini orchestrali hanno però bisogno di una guida per rendere al meglio e ieri, anche se sembra superfluo sottolinearlo, Enrico Calesso ha dato una lettura davvero emozionante di questo formidabile affresco naturalistico di Mahler, in cui c’è tutta un’umanità che si esprime con slanci popolareschi di danze, di fiabe per bambini dai risvolti resi lugubri e grotteschi, di gioie e di dolori. Di vita, una vita palpitante come la parabola di tutti noi nel nostro breve viaggio sulla terra.
Il pubblico, assai numeroso, ha capito l’impegno e la passione dei protagonisti e li ha premiati con un tripudio di applausi e innumerevoli chiamate al proscenio.

Giulio ViozziMusica per Italo Svevo per orchestra sinfonica
Robert SchumannConcerto in la minore op.54 per pianoforte e orchestra
Gustav MahlerPrima sinfonia in re maggiore
  
DirettoreEnrico Calesso
PianoforteMassimo Gon
  
Orchestra del Teatro Giuseppe Verdi di Trieste



Die Zauberflöte di Mozart raccoglie un buon successo al Teatro Verdi di Trieste grazie a una compagnia artistica omogenea e a un piacevole allestimento di Ivan Stefanutti.

Dopo la burrascosa produzione del 2017 che scatenò l’ira del solitamente sopito pubblico triestino, è tornata al Teatro Verdi una produzione di Die Zauberflöte molto rassicurante ed educata, che ha ricevuto notevoli consensi dagli spettatori.
L’opera di Mozart si presta a mille interpretazioni tanto è ricca di molteplici situazioni esplicite e reconditi sottotesti e il regista Ivan Stefanutti , che firma anche scene e costumi, sceglie la via della contaminazione tra culture diverse – un puzzle che profuma di esotismi orientali –  in cui si compenetrano fiabesche realtà e sfumate suggestioni oniriche accentuate dall’impianto luci di Emanuele Agliati, che valorizza scene e costumi.
Ne esce un allestimento di un certo pregio, in cui i costumi fantasmagorici hanno un’inusitata rilevanza per la narrazione e in qualche modo assolvono alla distinzione di rango tra i personaggi popolari, quelli più marcatamente bizzarri e stravaganti e gli altri che appartengono a una nobiltà di censo o di ieratica sacralità.
Lo spettacolo soffre di una certa staticità soprattutto nelle masse – il solito coro spesso schierato e immobile – ma le interazioni tra i protagonisti sono messe in luce con garbo e professionalità.
Manca, per scelta registica, una chiara rappresentazione della simbologia massonica, che chi conosce la trama e la genesi dell’opera intuisce a momenti ma che probabilmente non sarà percepita dalla maggioranza delle persone. Non è un male, nel senso che si tratta di un’opzione più volte percorsa nella storia interpretativa dell’opera che forse rende più lineare l’azione, anche se affiora qua e là qualche momento di stanchezza, soprattutto nella chiusura del primo atto.
La scelta di tradurre in italiano i dialoghi – Die Zauberflöte è un Singspiel, come è noto – non è proprio filologicamente ineccepibile ma la buona capacità di pronuncia di quasi tutti gli interpreti contribuisce a renderla accettabile.
L’interpretazione di Beatrice Venezi è sembrata in linea con la regia, nel senso che ha puntato al sodo senza troppi fronzoli ma anche senza troppe sfumature, una direzione di discreta routine che comunque mi è sembrata procedere priva di intoppi e concentrata soprattutto sulla gestione ritmica.
Certo, Mozart pretenderebbe qualche scelta agogica e dinamica più marcata, cosa che probabilmente avverrà nelle prossime recite perché le “prime”, notoriamente, sono l’ultima delle prove. Buona la prestazione dell’Orchestra del Verdi in tutte le sezioni, ma mi piace rimarcare l’ottimo rendimento dei legni. Anche il Coro si è portato con la consueta professionalità.
Tutta la compagnia di canto ha ben figurato sia per pertinenza stilistica sia per coinvolgimento emotivo e attoriale ma il soprano Darija Auguštan (Pamina) si è resa protagonista di una prestazione brillante. Intonazione perfetta, ottima pronuncia, voce gradevole che sale ai moderati acuti della parte con grande facilità e scioltezza, circostanze favorite da una tecnica vocale di vecchia scuola in cui l’emissione del suono è fluida perché tutta in avanti, sul fiato.
Paolo Nevi, che nella Manon Lescaut aveva palesato un volume non debordante, mi è sembrato più in forma nei panni di Tamino. Quello che è mancato, almeno ieri sera e comunque nell’ambito di un rendimento positivo, è stata una maggiore attenzione alla parola, nel senso che il personaggio è uscito monodimensionale nel fraseggio, privo di quella fierezza nobile e distaccata che caratterizza il tenore amoroso mozartiano.
Grintosa e aggressiva – come è giusto – Nicole Wacker quale sulfurea Regina della Notte. Il soprano ha cantato con buoni esiti artistici la sua parte che prevede due arie temibili e notissime al pubblico, raccogliendo applausi a scena aperta e un bel successo personale alla fine.
In parte anche Vincenzo Nizzardo, che di Papageno ha colto il lato schiettamente popolare sia dal punto di vista vocale sia da quello altrettanto importante della disinvoltura scenica.
Bravo anche Alessio Cacciamani, Sarastro di grande civiltà vocale e scenica, che ha cesellato un personaggio che deve sprigionare autorevolezza e umanità al contempo.
Il tenore Marcello Nardis, Monostatos, è uno di quegli artisti che impreziosiscono le produzioni teatrali perché caratterizza sempre con proprietà i personaggi che gli vengono affidati: anche ieri è stato così a riprova di una costanza di rendimento che ormai prosegue da anni.
Nella piccola parte di Papagena si è ben disimpegnata Chiara Maria Fiorani, efficace anche come spiritosa caratterista.
Gradevoli le prestazioni delle Tre Dame (Francesca Bruni, Eleonora Filipponi, Antonella Colaianni) e dei Tre Geni (Caterina Trevisan, Francesca Clemente, Marina Lombardi) e di buona routine tutti gli altri coprotagonisti che trovate in locandina.
Teatro affollato, spettatori contenti e prodighi di applausi per tutta la compagnia artistica, più volte chiamata al proscenio.

PaminaDarija Augustan
TaminoPaolo Nevi
Regina delle NotteNicole Wacker
SarastroAlessio Cacciamani
PapagenoVincenzo Nizzardo
PapagenaChiara Maria Fiorani
MonostatosMarcello Nardis
OratoreLiu Ytian
Prima DamaFrancesca Bruni
Seconda DamaEleonora Filipponi
Terza DamaAntonella Colaianni
Primo sacerdote/second armigeroViktor Shevchenko
Secono sacerdote/primo armigeroGianluca Moro
Tre geniCaterina Trevisan, Francesca Clemente, Marina Lombardi
Primo schiavoGianluca Di Canito
Secondo SchiavoLuigi Silvestre
Terzo schiavoFrancesco Paccorini
  
DirettoreBeatrice Venezi
Direttore del CoroPaolo Longo
  
Regia, scene e costumiIvan Stefanutti
Impianto luciEmanuele Agliati
  
  
Coproduzione Teatri di opera Lombardia, Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, Opera Carolina
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste



Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Die Zauberflöte di Mozart al Teatro Verdi di Trieste

Dunque, giovedì prossimo 7 dicembre il Teatro Verdi accoglie Die Zauberflöte (Il flauto magico) di Mozart. Dico, Wolfgang Amadeus Mozart, uno dei più grandi geni della storia dell’umanità, colto in questo caso nella sua ultima composizione teatrale. Perciò, dopo essermi genuflesso più volte, oso scrivere qualche sintetica e informale nota per chi verrà in teatro e magari non conosce molto di questo straordinario capolavoro.
Il flauto magico appartiene al genere musicale dello Singspiel, una forma teatrale tedesca e austriaca di origine popolare che prevedeva oltre al canto anche dialoghi parlati.

Ci sono nel teatro lirico molti altri esempi di Singspiel, lo stesso Mozart per esempio scrisse Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio). Altri esempi celebri sono il Fidelio di Beethoven e Der Freischütz (Il franco cacciatore) di Carl Maria von Weber.

Nel Flauto magico convivono felicemente molte suggestioni e le interpretazioni e le letture possono essere diverse e, a mio parere, tutte plausibili. Per molti è l’opera massonica per antonomasia, disseminata com’è di simboli esoterici: numeri (il tre, a partire dagli accordi iniziali, è una costante), il passaggio dal buio alla luce, la presenza delle prove dell’acqua e del fuoco e tanto altro ancora.

Personalmente amo considerare quest’opera come una fiaba per adulti mascherata da una semplicità empatica e colorata, un viaggio un po’ accidentato nell’inconscio e quindi estremamente personale, intimo, in cui come nei corsi d’acqua carsici ogni tanto riaffiora in superficie qualche ricordo che magari scompare subito dopo. Un viaggio iniziatico alla scoperta di noi stessi, se mi concedete la metafora azzardata.

La trama dell’opera si trova facilmente, anche sulla benemerita Wikipedia.

I tanti personaggi dell’opera parlano, dal punto di vista musicale, lingue differenti. Sono cioè caratterizzati da stili diversi che ne fotografano il lignaggio e la provenienza sociale. Inoltre, nel corso della narrazione succede che in qualche modo il nostro parere sul loro operato cambi, trasformando i buoni in cattivi e viceversa. Insomma anche in questo caso l’apparenza inganna. A seguire un breve cenno ai principali protagonisti dell’opera.

Papageno e Papagena sono di estrazione popolare e il loro stile è appunto quasi folcloristico, sanguigno nei versi, nelle intemperanze caratteriali e nelle melodie. Tamino e Pamina sono due innamorati ed esprimono sempre un canto amoroso e ispirato a una dignitosa sensibilità e sensualità, scevra di eccessivi languori larmoyant.

Sarastro non a caso è affidato alla voce di un basso profondo, perché deve esprimere autorevolezza, ieraticità in un ambito quasi oratoriale, da musica sacra e solenne. Monostatos è vicino agli stilemi di un carattere buffo, che sembra stridere con gli altri personaggi.

La Regina della notte (Königin der Nacht) è, forse, la protagonista più ambigua, vero motore della vicenda, che si esprime con un canto tipico dell’opera seria del periodo. Dominio dei soprani di coloratura, la parte richiede oltre che virtuosismo un accento fiero, dizione scandita, temperamento sulfureo.
l grande genio di Mozart riesce a far convivere tutte queste particolarità rendendole omogenee, liquide, filanti. Lo fa anche attraverso l’orchestra e con l’uso di strumenti come il Glockenspiel che, lo scrivo per i profani, ricorda tanto il suono dei carillon.

Gioverà ricordare che l’autore del libretto, Emanuel Schikaneder, fu anche il creatore di Papageno della prima assoluta che si svolse a Vienna, il 30 settembre 1791.
Per la buona riuscita artistica dell’opera mi pare indispensabile che i cantanti siano anche disinvolti in scena, mobili nel fraseggio ma anche buoni attori.

Il direttore d’orchestra ha un compito arduo, risolvere il problema del suono orchestrale che deve essere sempre trasparente ma mai lezioso, anodino. La musica esprime una vitalità prorompente che non può essere compromessa da clangori e allo stesso tempo restare virile e incisiva.

La regia…beh…si valuterà sul campo e cioè in teatro. Non esistono regie moderne o tradizionali, ma solo regie intelligenti o stupide. Al Teatro La Fenice ne vidi una splendida versione, per esempio.

Se potessi esaudire un desiderio, vorrei che a Trieste succedesse ciò che accadde in Germania, dopo il debutto dell’opera. La Zauberflöte uscì dai teatri e il popolo si impadronì delle sue melodie, improvvisando per strada le scene più famose o cantando le arie anche in modo sgangherato, chissenefrega.

Oddio, nella Trieste di oggi sarebbe un problema, ma non stiamo a sottilizzare.

Nel caso qualcuno volesse provarci, beh, credo che potrei essere un Papageno formidabile e, forse, anche una pittoresca Regina della notte (strasmile).

Un saluto a tutti, alla prossima!

Les Contes d’Hoffmann Di Jacques Offenbach al Teatro La Fenice di Venezia: serata straordinaria grazie a una compagnia artistica eccezionale e alla regia di Damiano Michieletto.

Jacques Offenbach ha avuto una vita difficile ma non tanto quanto la genesi della sua opera più conosciuta, Les Contes d’Hoffmann, capolavoro assoluto del teatro lirico.
La vicenda è un mix di alcuni brevi novelle di E.T.A. Hoffmann che si può tranquillamente definire come un pazzo visionario il quale, per molti aspetti, ha visto davvero avanti nel tempo. Lo si identifica come scrittore romantico a ragione, perché le poderose inquietudini del Romanticismo grondano dalle parole e dai personaggi che animano le sue storie.
Dal mio punto di vista tutte le versioni del libretto dell’opera riescono a cogliere la temperie del protoromanticismo e non ha fatto eccezione quella proposta ieri a Venezia, che era un ponderato packaging funzionale alla narrazione di Damiano Michieletto. Tagliati i dialoghi parlati, escluse arie famose come Scintille, diamant – apocrifa e anche se i puristi storceranno il naso a me sarebbe piaciuto ascoltarla dallo straordinario Alex Esposito – ed esclusa anche l’aria di Giulietta nel terzo atto.
Le questioni filologiche però mi lasciano freddo, perché ciò che importa è che lo spettacolo funzioni e – Santo Cielo! – qui più che funzionare mi ha fatto saltare dalla sedia.
La compagnia artistica era omogenea, equilibrata e di alto livello e anche se Frédéric Chaslin, sul podio di un’eccellente Orchestra del Teatro La Fenice, ha fatto sentire qualche pesantezza di troppo – soprattutto nel primo atto, mentre nel secondo e nel terzo dinamiche e agogiche sono risultate meno arrembanti – alla fine la direzione non è andata in conflitto con la regia, circostanza tutt’altro che trascurabile.
Protagonista assoluto Alex Esposito che – letteralmente – ha fatto il diavolo a quattro, sconquassando il pubblico con il suo impeto attoriale e il brillante rendimento vocale. Una prova maiuscola, che gli spettatori hanno premiato con un’ovazione formidabile. Insinuante, sulfureo, rapace, ipercinetico, Esposito ha caratterizzato i suoi diavolacci con sopraffina curiosità intellettuale e capacità di eloquenza che è propria solo dei grandi artisti.
Nei panni dello sventurato Hoffmann, Ivan Ayon Rivas non gli è stato da meno e anzi ha rilanciato con una prova vocale notevolissima in cui declamato, acuti, disinvoltura scenica e pertinenza stilistica hanno contribuito a rendere credibilissimo il personaggio.
Olympia è stata interpretata dal soprano Rocío Pérez la quale, pur nel singolare contesto scenico, è parsa brillante e attendibile in una parte inquietante e clamorosamente attuale – si pensi all’abuso della AI e ai deep fake –  come quella della bambola meccanica.
Carmela Remigio ha colorato di mille sfaccettature Antonia, forse il personaggio più malinconico dell’opera, con la classe artistica che la contraddistingue da sempre. La voce, calda, sensuale e solare al contempo, è sembrata perfetta per delineare la sfortunata parabola del personaggio.
Veronique Gens, dalla figura elegantissima, ha interpretato con un minimo di distacco e freddezza una Giulietta che forse meriterebbe qualche slancio passionale meno evanescente, ma è stata comunque protagonista di una prova positiva.
Bravissime anche Paola Gardina (La Muse) e Giuseppina Bridelli (Nicklausse) entrambe nei panni di due personaggi sfuggenti, dalle personalità difficilmente decifrabili.
Il tenore Didier Pieri si è disimpegnato con elegante disinvoltura nei suoi quattro personaggi, sfoggiando una voce leggera, tipica del caratterista, ma piacevole nel timbro.
I coprotagonisti, che sono sempre fondamentali nella buona riuscita di uno spettacolo, sono stati tutti bravissimi: Federica Giansanti (La Voce), Christian Collia (Nathanaël), François Piolino (Spalanzani), Yoann Dubruque (Hermann/Schlemill) e Francesco Milanese (Luther/Crespel). Ottimo il rendimento del Coro, impegnatissimo anche dal lato scenico oltre che impeccabile vocalmente.
La regia di Damiano Michieletto meriterebbe una recensione a parte perché è difficile condensare in poche righe le innumerevoli suggestioni che si sono dipanate nell’arco della serata.
A mio parere un’opera come Les Contes, che sfugge qualsiasi presunta tradizione interpretativa, esige un allestimento fuori dagli schemi e sopra le righe che ne esalti il valore anarchico in senso lato e ne innervi l’irrequietezza intellettuale.
L’idea fondante è quella di descrivere la vita di Hermann dalla primissima adolescenza alla maturità attraverso gli innamoramenti, le infatuazioni e le relative sanguinose delusioni, tutte viste attraverso uno straordinario prisma onirico che ne distorce e riflette gli esiti. Intorno al protagonista, in una sorta di multiverso parallelo, si muovono personaggi fantastici che appartengono al mondo dei bambini e agli incubi degli adulti. Un’irrealtà quasi felliniana in cui grottesco, macabro e reale si compenetrano e si contaminano.
Per realizzare questo straordinario caleidoscopio di sentimenti, situazioni e personaggi il regista si affida al suo storico team di collaboratori e il risultato è sorprendente per spessore intellettuale e appagamento sensoriale. Le scene di Paolo Fantin sono stupende, ricchissime di particolari e impreziosite da un impianto luci (Alessandro Carletti) che meriterebbe un Oscar per come ricrea attorno ai personaggi un mondo parallelo fatto di ombre (il primo atto), di figure distorte e capovolte (l’atto di Antonia), di atmosfere cangianti per carattere, personalità e temperamenti (il terzo atto). Bellissimi i costumi di Carla Teti, che dà fondo a tutta la sua creatività per mettersi al servizio dell’idea registica.
Fondamentali le coreografie di Chiara Vecchi, che sono non solo piacevoli ma funzionali alla narrazione quando non addirittura rivelatrici. Il secondo atto, in questo senso, è davvero da ricordare anche per l’apporto formidabile di alcune bambine ballerine di bravura sbalorditiva.
Nello spettacolo colpisce come non ci sia mai un attimo di sosta e di come sia dinamico e allo stesso tempo ricco di trovate provocatorie che però mai neanche sfiorano alcuna volgarità.
Dopo i trionfali applausi finali, un paio di scarpette rosse ha fatto riferimento alla terribile vicenda – l’ultima di tante, forse nel momento che scrivo la penultima – di Giulia Cecchettin.
Alla serata era presente il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sommerso di applausi al pari di tutta la compagnia artistica.

Partita con Beethoven e Ciajkovskij la stagione della Società dei Concerti di Trieste

Alcune auto d’epoca (bellissime) dei primi anni Trenta del secolo scorso posizionate davanti all’ingresso del Teatro Verdi hanno accolto gli spettatori della serata inaugurale della stagione cameristica della Società dei Concerti.
Fascino immutabile, tirate a lucido, le automobili rappresentavano bene il passare degli anni in maniera nobile e aristocratica. Allo stesso modo, le stagioni concertistiche dell’istituzione culturale triestina – che ieri festeggiava il 1500° concerto – si susseguono con sobrietà e classe proponendo compositori immortali e interpreti di eccellente livello da novant’anni.
Pubblico assai numeroso composto da moltissimi giovani, abbonati di lungo corso e persone che andavano per la prima volta a teatro. Un flusso in divenire virtuoso che non può che far piacere al Presidente Piero Lugnani e al Direttore Artistico Marco Seco, che hanno brevemente introdotto la serata.
Protagonisti Beethoven e Ciajkovskij, entrambi colti nella difficile arte del Trio con pianoforte, violino e violoncello, due pagine musicali che, ascoltate di pancia, non possono che far riflettere sulla diversa natura dei due compositori.
Nella musica di Beethoven si ha sempre la sensazione che tutto abbia struttura geometrica, che ci sia un’architettura formale non rigida ma in ogni caso aristocratica e predeterminata, quasi severa. Tanto che ieri, ascoltando il celeberrimo secondo movimento (Largo assai) del Trio per archi e pianoforte n.5 in re maggiore Op.70, mi sono accorto che è una musica quasi estranea al compositore perché è rarefatta, indefinibile, madreperlacea: non è un caso che sia stato proprio questo movimento a consegnare alla storia della musica il brano come “Trio degli spettri”.

D’altra parte, Ciajkovskij è invece compositore viscerale e anarchico, furioso negli ardori e terribilmente malinconico nei ripiegamenti riflessivi, che sfiorano gli abissi più profondi dell’anima. Di certo, nel Trio in la minore per violino, violoncello e pianoforte Op.50 non si percepisce la dichiarata avversione per l’uso di archi e pianoforte in contemporanea.
L’ispirazione popolare di alcune parti del concerto, soprattutto nella seconda parte dove le danze riecheggiano chiaramente, è evidente, com’è chiaro che nella prima parte (Pezzo elegiaco) Ciajkovskij dia fondo a quella che a torto è chiamata retorica, quando invece è enfasi oratoria, che è tutt’altra cosa.
Gli interpreti sono stati assolutamente strepitosi – nonostante, relata refero, un inconveniente dovuto a un ritardo aereo – e hanno dato conferma alla mia vecchia tesi che il trio sia una delle forme musicali più democratiche, perché per quanto i protagonisti siano virtuosi dello strumento e suonino allo scoperto devono sacrificarsi per la buona riuscita dell’insieme.
Di Lucas Debargue, al pianoforte, ho apprezzato in particolare il controllo delle dinamiche e il tocco morbidissimo capace però anche di improvvisi slanci drammatici. Bravissimo anche David Castro Balbi al violino, il quale in un attimo passa da un suono grasso e opulento a eteree delicatezze quasi appena percepibili. Eccellente il contributo di Alexandre Castro Balbi al violoncello anche nel non facile pizzicato del Trio di Ciajkovskij.
Alla fine pubblico entusiasta che ha chiamato gli interpreti al proscenio una decina di volte, degna conclusione di una serata di grande pregio tecnico e di valenza emotiva straordinaria.

Ludwig van BeethovenTrio per archi e pianoforte n.5 in re maggiore Op.70,
Piotr Ilic CiaikovskijTrio in la minore per violino, violoncello e pianoforte Op.50
  
PianoforteLucas Debargue
ViolinoDavid Castro Balbi
VioloncelloAlexandre Castro Balbi



Manon Lescaut di Puccini inaugura la stagione lirica del Teatro Verdi di Trieste. La regia di Guy Montavon deraglia nell’ultimo atto.

Dopo la sospensione per sciopero del vernissage, la pomeridiana di ieri è stata la prima occasione utile per ascoltare e vedere Manon Lescaut di Puccini, che ha aperto la stagione del Teatro Verdi di Trieste da cui mancava dal 2007.
C’era molta curiosità nell’aria perché da qualche tempo giravano voci su di una regia, nella migliore delle ipotesi, stravagante.
L’allestimento, proveniente da Montecarlo dove ottenne a suo tempo un successo clamoroso (con Anna Netrebko nei panni della protagonista), è il classico esempio di teatro di regia riuscito male proprio nella concezione drammaturgica.
Voglio dire che, piaccia o meno la trasposizione temporale, i caratteri dei personaggi sono perfettamente riconoscibili e coerenti con il libretto sino al terzo atto compreso, quando il regista Guy Montavon si inventa una specie di MacGuffin teatrale che trasforma a proprio uso e consumo Geronte – il personaggio più realistico e attuale dell’opera, ché di vecchi potentati che si attorniano di giovani ragazze la cronaca e la storia è piena – in un killer psicopatico. A scatenare la follia è il fatto che Des Grieux distrugge una sua presunta opera d’arte e cioè libera la povera Manon che nel secondo atto era stata trasformata in una specie di statua vivente, con un procedimento che richiamava qualcosa di perfidamente trasversale tra la Body art e il Body painting in salsa new age.
Per questo motivo,  il santone Geronte trasforma la compagnia di strampalati che lo segue come una setta in una scombinata giuria popolare che decide di condannare a morte Manon, la quale non vedrà mai alcuna nave e tanto meno deserti ma solo una tetra prigione adiacente a una stanza dalla quale Des Grieux osserva impotente il suo martirio.
Ecco, tutta questa parte che ho descritto affannosamente è insensata perché non c’entra nulla col livre abominable di Prévost né, tantomeno, con la Manon Lescaut di Puccini.
Spiace sottolinearlo perché sino a quel momento regia e messinscena erano singolari ma tutt’altro che sgradevoli: scenografie sfarzose e ben realizzate, luci splendide, controscene curate e approfondite le interazioni tra i personaggi. Un’altra criticità dell’allestimento sono le due lunghe pause per i cambi scena che, unite all’intervallo, rendono la serata estenuante e, soprattutto, spezzano in modo irreparabile la tensione emotiva della narrazione teatrale e musicale. Il pubblico si distrae in queste circostanze e infatti a un certo punto una inviperita Gianna Fratta ha fulminato con lo sguardo un paio di signore in prima fila che non volevano saperne di farle cominciare l’Intermezzo.

Gianna Fratta, appunto, la quale ha dato un’interpretazione al calor bianco della partitura pucciniana, sottolineandone la sensualità e la crudezza che grondano da ogni nota. Non è, appunto, la Manon di Puccini un’opera da sdilinquimenti e smancerie – lo è la Manon di Massenet – bensì una storia di amore, lacrime e dolore. Emozioni violente che si sono espresse anche con qualche decibel di troppo, soprattutto negli interventi del Coro, peraltro in ottima forma. L’inizio del secondo atto, con quella atmosfera fintamente raffinata, in cui gli echi della musica settecentesca sono artatamente involgariti sino al pacchiano, mi è sembrato un momento di grande musica.
L’Orchestra del Verdi, che ha il sound pucciniano nel DNA, si è espressa al meglio e mi piace sottolineare la bellissima prestazione dei legni, senza ovviamente voler togliere nulla alle altre sezioni.
La compagnia di canto mi è parsa, nel complesso, modesta dal punto di vista vocale e ottima da quello attoriale.
Unica eccezione Lana Kos, che di Manon Lescaut forse non ha il peso vocale in senso stretto, ma sopperisce con la tecnica alle parziali mende di volume. La voce è gradevole, ben proiettata negli acuti che passano la densa orchestra pucciniana e il fraseggio attento e partecipe che esalta quel canto di conversazione che è il marchio di fabbrica di Puccini. Inoltre l’interprete è accorata, vivace, attenta: la sua Manon è decisamente di buon livello e ha conquistato il pubblico triestino che l’ha premiata con un trionfo.
Roberto Aronica è stato un Des Grieux credibile scenicamente ma altalenante nel rendimento vocale, pur senza che ci siano inconvenienti particolari. Dopo un inizio piuttosto contratto, il tenore si è rinfrancato e nel lungo duetto del secondo atto si è espresso al meglio. È rimasta però una sensazione di incompiutezza, perché al suo cavaliere è mancata quella passionalità rovente che il personaggio pretenderebbe.
Viscido e opportunista al punto giusto il Lescaut di Fernando Cisneros, che vanta una voce di buon volume ma gestita in modo un po’ troppo grossier per quanto il personaggio non sia proprio un uomo da raffinatezze. Impeccabile, invece, la sua prestazione attoriale.
Matteo Peirone ha tratteggiato un Geronte in linea con le direttive della regia, ma spesso la voce non ha passato l’orchestra, almeno dalla mia posizione, circostanza che vale anche per il flebile Edmondo di Paolo Nevi.
Brava Magdalena Urbanowicz nei panni del musico e di routine gli interventi di Nicola Pamio e Giuseppe Esposito che hanno contribuito alla tutto sommato buona riuscita della recita.
Il pubblico, numeroso, ha apprezzato con moderazione la serata, applaudendo tutta la compagnia artistica e riservando grandi applausi per Lana Kos e Gianna Fratta.
I responsabili della regia non si sono presentati al proscenio, probabilmente perché dopo lo sciopero la prima ufficiale, quella con i carabinieri, le autorità, l’inno e i critici seri è stata spostata a mercoledì 8 novembre.

Manon LescautLana Kos
Il Cavaliere Renato Des GrieuxRoberto Aronica
LescautFernando Cisneros
Geronte di RavoirMatteo Peirone
EdmondoPaolo Nevi
Un musicoMagdalena Urbanowicz
Il Lamionaio/Maestro di BalloNicola Pamio
L’osteGiuseppe Esposito
  
DirettoreGianna Fratta
Direttore del coroPaolo Longo
  
Regia e luciGuy Montavon
SceneHank Irwin Kittel
CostumiKristopher Kempf
  
Orchestra e Coro del Teatro Giuseppe Verdi di Trieste



Nel sesto concerto della stagione sinfonica al Teatro Verdi di Trieste brilla la stella di Stefan Milenkovich. Ottima la prova dell’orchestra triestina ben guidata da Francesco Ivan Ciampa

Come ho avuto occasione di rimarcare spesso, la stagione sinfonica triestina quest’anno ha una caratteristica molto gradita: il pubblico affolla il teatro e così è stato anche ieri sera per il penultimo concerto.
Sicuramente la presenza di una star come Stefan Milenkovich è stata determinante – erano molti gli stranieri, anche suoi connazionali – ma la tendenza, rispetto agli anni scorsi che hanno visto il teatro spesso vuoto a metà, è decisamente cambiata.
E poi, di là degli esiti artistici davvero rimarchevoli, ieri è successo uno di quegli episodi che rendono le serate a teatro uniche, divertenti e irripetibili. Durante l’esibizione del solista serbo è saltata una corda del suo violino che l’ha costretto a un funambolico cambio di strumento al volo con Stefano Furini, Konzertmeister dell’orchestra triestina: non gli è andata malissimo, perché ha ricevuto in cambio uno Stradivari. A seguire siparietti vari, prima del bis dedicato a Bach, che hanno dimostrato che l’atmosfera era innervata dalla voglia e dal piacere di fare musica insieme.
Francesco Ivan Ciampa, sul podio dell’Orchestra del Verdi, è stato protagonista della serata alla pari del prestigioso ospite perché non si è limitato a mere esecuzioni ma ha cesellato la sua interpretazione personale di entrambe le pagine previste dal programma.
Nel Concerto per violino e orchestra in re maggiore op.77 di Brahms, dedicato al sommo Joseph Joachim, ha non solo assecondato le esigenze del solista ma, ben conoscendo il respiro sinfonico del brano, si è speso anche per dare risalto all’orchestra nell’importante e severa introduzione. La compagine triestina, che ribadisco essere da tempo in forma spettacolare, ha risposto alla perfezione in tutte le sezioni, anche se mi piace sottolineare la morbidezza degli archi e il bellissimo suono dei legni.
Che dire di Milenkovich? Dal mio punto di vista la sua grandezza non è tanto nel virtuosismo che è quasi scontato in musicisti di questa levatura ma nella statura dell’artista in toto, in quella capacità di esprimere sentimento ed eloquenza attraverso un legato e un controllo delle dinamiche eccezionale che gli consentono di sviscerare quello che c’è dietro alle note rendendole vive e palpitanti. Inoltre, e non guasta di certo, ha un bellissimo portamento, composto ed elegante e scevro da inutili orpelli. Ha cioè la consapevolezza di arrivare al cuore del pubblico solo attraverso la musica. Meritatissimo perciò il trionfo che il pubblico gli ha riservato.
La Sesta sinfonia in si minore op. 74 di Čaikovskij, più nota come Patetica, è sempre assai emozionante da ascoltare, soprattutto dal vivo, in teatro, quando si percepiscono le tensioni emotive degli interpreti.
Così è stato ieri, perché ero molto vicino all’orchestra e al podio e ho potuto apprezzare il coinvolgimento di Ciampa il quale, anche attraverso una mimica e una gestualità accentuata, ha vissuto e indagato la partitura del lacerato uomo Čaikovskij, che dopo un terzo movimento vitale e adrenalinico piazza, a chiudere la sinfonia, un Adagio che è un abisso straziante di malinconia e mal di vivere.
Poco importa se si è percepita qualche imperfezione e anzi, considero queste peculiarità al pari della corposa pastosità degli archi o della deflagrante espressività delle percussioni. Sono caratteristiche che rendono un’interpretazione originale, degna di essere ascoltata nella concezione del direttore che ha sviscerato tutta la passionalità sanguigna e delicata al contempo di un compositore che ha vissuto una vita tormentata e per il quale nutro una venerazione che va ben oltre l’ammirazione per il suo lascito artistico. Essere Achab e Moby Dick allo stesso tempo non è facile per nessuno.
Pubblico, alla fine, in visibilio, ed è giusto così.

Johannes BrahmsConcerto per violino e orchestra in re maggiore op.77
Petr Il’ic CaikovskijSesta sinfonia in si minore op. 74
  
DirettoreFrancesco Ivan Ciampa
ViolinoStefan Milenkovich
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste

Nel sesto concerto della stagione sinfonica al Teatro Verdi di Trieste brillano Francesca Dego e Alessandro Taverna.

Anche quest’anno, come ormai da tradizione, alla vigilia della Barcolana – che porta in città una quantità spaventosa di persone dall’Italia e dall’estero – era in programma un concerto della stagione sinfonica. Il sesto, appunto, e in questa occasione ex ante la scelta del programma mi è sembrata azzeccata. Non che ci fosse nulla di marinaresco o legato alla cultura del mare, ma sicuramente le pagine musicali esprimono gioia di vivere e divertimento in senso lato come fa la grande manifestazione triestina.
A fare eccezione il primo brano e cioè l’Ouverture da Der Freischütz, perché neanche la mia fervida fantasia e il mio amore per le vie traverse che uniscono arti differenti riescono a trovare correlazione tra le vele bianche delle barche e gli oscuri presagi della “gola del lupo”: marinai e cacciatori sembrano proprio agli antipodi. Giulio Cilona, giovane Kapellmeister della Deutsche Oper Berlin ne ha dato una bella interpretazione, che ha messo in luce la sottile tensione che innerva la pagina di Weber che anticipa i temi dell’opera in cui naturale e sovrannaturale si contendono il ruolo di protagonista.

Una volta ridotta nell’organico l’orchestra è stato il momento di un Mendelssohn adolescente (14 anni!), quello del Concerto in re minore per violino, pianoforte e orchestra d’archi, affidato alla perizia di due grandi solisti ben noti a Trieste, Francesca Dego al violino e Alessandro Taverna al pianoforte.
Pagina musicale imponente, strutturata nei classici tre movimenti, il concerto si apre con una lunga e severa esposizione degli archi che ricorda molto Beethoven, ma ben presto il clima grave si rasserena e inizia un sottile dialogo tra i solisti che prosegue senza sosta sino alla fine. Nel gioco di rimandi tra violino e pianoforte c’è l’anima del concerto, che vive di singoli virtuosismi ma anche della gioia di fare musica insieme.
Nell’Adagio centrale l’atmosfera è vivace e al contempo lieve e sognante, un’oasi di tenerezza che prepara a un Allegro finale scoppiettante e brioso in cui tutti i protagonisti esprimono energia e vigore ma sempre nel contesto di un impianto generale equilibrato.
Alessandro Taverna e Francesca Dego sono stati ineccepibili e, ancora una volta, hanno palesato un’ottima intesa: di là dei tecnicismi e delle caratteristiche peculiari si percepisce che fanno volentieri musica insieme e la scelta di due corposissimi bis (Brahms e Schumann) ne è stata la conferma. Entrambi i solisti hanno la grande qualità di dosare in modo sapiente le dinamiche senza togliere corpo e tensione alla narrazione, creando un’atmosfera rilassata ed elettrica al contempo.
Il pubblico ha evidentemente percepito questa intesa artistica e ha premiato gli artisti con un uragano di applausi.
Molto buona in tutte le sezioni la risposta dell’Orchestra del Verdi di cui ancora una volta ho apprezzato la compattezza e la precisione.

A chiudere la serata nel segno della gioia e della leggerezza il Beethoven della Sinfonia n. 8 in fa maggiore, op. 93, scritta nel 1812 quando il compositore aveva già rivoluzionato il mondo musicale.
In questo caso è stata meno centrata l’interpretazione di Cilona, che mi è sembrata un po’ troppo inamidata nella gestione ritmica e appiattita nelle dinamiche sbilanciate, almeno dalla mia posizione, su un mezzoforte che non ha messo in luce la delicatezza della più inattuale delle sinfonie di Beethoven il quale, dopo gli sconvolgimenti della Quinta in particolare, torna a guardare a Haydn e Mozart.
Quindi, se dal lato puramente tecnico non ho nulla da eccepire, mi è sembrato invece che mancasse quella briosa empatia che l’Ottava sprigiona in interpretazioni più meditate e che invece latita dove la gestione metronomica è stringente e un po’ claustrofobica.
Anche in questo caso ottima la prestazione della compagine triestina che, come Cilona, ha ricevuto meritati applausi e gratificazioni dal pubblico.

Carl Maria von WeberOuverture da Der Freischütz
Felix Mendelsshon – BartholdyConcerto per violino, pianoforte e orchestra d’archi
Ludwig van BeethovenSinfonia n8 in fa maggiore op.93
  
DirettoreGiulio Cilona
  
ViolinoFrancesca Dego
PianoforteAkessandro Taverna
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste




Al teatro Verdi brillante quinto concerto della stagione sinfonica con Federico Mondelci e Stefano Furini sugli scudi.

Il programma del quinto concerto della stagione sinfonica al Teatro Verdi di Trieste presentava molti spunti interessanti sia nella scelta dei brani sia per quanto riguarda gli interpreti.
La serata è principiata in modo impegnativo con il Magnificat per due soprani, coro e orchestra di Luciano Berio, scritto nel 1949. Nell’organico, che comprende solo un contrabbasso tra gli archi, sono decisivi gli interventi delle percussioni e dei legni che danno un retrogusto severo ai vocalizzi dei due soprani Veronika Foia e Giulia Diomede e agli incisi, a volte deflagranti, del coro. Forse, per l’esordio nella stagione del coro della fondazione – che comunque se l’è cavata bene – sarebbe stato più opportuno un brano di ascolto più epidermico.
Federico Mondelci non ha certo bisogno di presentazioni. L’artista, ben noto a Trieste, è uno dei più acclamati virtuosi di quello strumento meraviglioso che è il sassofono.
Nelle due pagine proposte – il Concerto in mi bemolle maggiore per sassofono e archi, op. 109 di Glazunov e la suite Scaramouche di Darius Milhaud – Mondelci ha eseguito una sorta di excursus delle possibilità espressive dello strumento.
Nel primo brano, strutturato in quattro movimenti, l’artista ha cesellato dinamiche preziose e virtuosismi che hanno descritto il carattere mutevole di una pagina che è malinconica e al contempo brillante, palesando anche un’ottima intesa con l’orchestra d’archi ben diretta da Ayrton Desimpelaere.
Nella suite di Milhaud – che tra l’altro ebbe rapporti professionali anche con Luciano Berio – il sassofono è impiegato in modo che siano l’empatia e l’estroversione di note anche gioiosissime a colpire il pubblico, circostanza che è puntualmente avvenuta perché l’ambiente era quello di una serata in qualche locale da musica blues o jazz. Molto “francese” il secondo movimento, in cui l’atmosfera si è colorata di sfumature che sapevano di volute di fumo e aromi di eccellenti alcolici.
Straordinario il bis, dedicato a una ciarda del sassofonista spagnolo Pedro Iturralde in cui Mondelci ha duettato con Stefano Furini, Konzertmeister dell’orchestra del Verdi.
Dopo l’intervallo è stata la volta di un compositore amatissimo, Richard Strauss, che dal mio punto di vista a Trieste è poco eseguito anche se quest’anno comparirà nella stagione lirica con Ariadne auf Naxos.
Ein Heldenleben (Una vita d’eroe) è notoriamente una composizione autobiografica sulla quale si sono scritti fiumi di parole sin dagli esordi (1898) e rappresenta l’addio di Strauss al genere del poema sinfonico.
La divisione in sei parti è puramente accademica perché la musica è un fluire continuo, un ribollente magma di sentimenti e suggestioni spesso screziate da una feroce autoironia che ricorda, non a caso, alcuni lacerti mahleriani. Il brano è uno degli ultimi esempi delle composizioni che si rifanno alla tradizione tardo romantica.
L’orchestra, imponente e rafforzata opportunamente nell’organico, è stata guidata con grande maturità da Ayrton Desimpelaere a una prova maiuscola e buona parte del merito, oltre che ai professori d’orchestra, va proprio al giovane direttore: è facile ascoltare composizioni straussiane ridotte a mera esibizione muscolare, una specie di magma sonoro in cui protagonista è l’indistinguibile. La musica di Strauss non è questo, anzi, sono proprio i particolari a renderla speciale.
In questo senso la trasparenza e la limpidezza di suono sono state le caratteristiche che più hanno colpito dell’interpretazione di Desimpelaere il quale, pur non rinunciando a dinamiche importanti, ha saputo trovare equilibrio e passo narrativo scorrevole.
Stefano Furini, per l’occasione con un prestigiosissimo Stradivari, ha confermato una volta di più di essere virtuoso dello strumento, interpretando con passione e ricercatezza la difficile parte scritta per il solista.
Nell’arco della serata tutte le sezioni dell’Orchestra del Verdi si sono portate benissimo a ulteriore suggello di una crescita professionale tangibile.
Applausi per tutti da parte di un pubblico forse meno numeroso di quanto lo sia stato nelle ultime occasioni, ma che ha seguito con attenzione e premiato gli artisti con numerose chiamate al proscenio.
Dopo il Magnificat sono state salutate con grandi applausi anche Miriam Spano e Silvia Russo, artiste del coro approdate felicemente alla pensione.

Luciano BerioMagnificat
Aleksandr GlazunovConcerto in mi bemolle maggiore per sassofono e archi, op. 109
Darius MilhaudSuite Scaramouche
Richard StraussEin heldenleben
  
DirettoreAyrton Desimpeleare
  
SassofonoFederico Mondelci
SopranoVeronika Foia
SopranoGiulia Diomede
ViolinoStefano Furini
  
Direttore del CoroPaolo Longo
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste

Nel quarto concerto della stagione sinfonica al Teatro Verdi di Trieste trionfa Ettore Pagano col suo violoncello. Grande prestazione dell’orchestra della fondazione triestina, ben diretta da Kevin Rhodes

Quest’anno la notizia è che il Teatro Verdi ha recuperato l’affetto del suo pubblico. Certo, la quantità dei turisti presenti nel capoluogo durante i fine settimana aiuta, ma dal momento che contano i fatti bisogna solo rallegrarsi di vedere il teatro pieno, la fila fuori dalla biglietteria e sorridere nel constatare la notevole presenza di giovani.
Anche il quarto concerto della stagione sinfonica – una delle migliori degli ultimi anni – è andato praticamente esaurito e il programma non era popolare nel senso più comune del termine, perché i brani scelti non erano certo tra quelli più gettonati.
Serata dedicata alla musica russa, con Čaikovskij e Rachmaninov colti in alcune pagine musicali assai diverse tra loro e, unico appunto, forse anche troppo distanti dal punto di vista stilistico. Tra la prima parte e la seconda l’atmosfera emotiva è cambiata di molto e forse la narrazione complessiva ne ha risentito. Ovviamente è un’opinione personale e perciò discutibilissima.
Un’altra considerazione di carattere generale è che il rendimento dell’Orchestra del Verdi sta crescendo in modo esponenziale sia come collettivo sia nelle varie sezioni. Intendiamoci, la compagine triestina è sempre stata di buon livello, ma ultimamente la sensazione è che sia scattata una scintilla che ha acceso una passione che forse si era un po’ affievolita. Perciò, al netto di occasionali imprecisioni e sbavature sempre presenti nelle serate dal vivo, credo che un omaggio ai professori d’orchestra sia d’obbligo.
L’apertura è stata affidata al Pezzo capriccioso in si minore, op. 62 di Čaikovskij che è caratterizzato da una tinta malinconica, di ispirazione folclorica tipicamente russa sin dalle primissime note, appena screziata dal virtuosismo del solista che soprattutto nel finale è assoluto protagonista.
Solista che era Ettore Pagano, il quale già l’anno scorso raccolse un trionfo a Trieste e che si è confermato talento purissimo anche nella successiva Trascrizione per violoncello e orchestra del Nocturne nr.4 – originariamente scritto per pianoforte – in cui ha figurato molto bene anche il flauto di Giorgio Di Giorgi.
Ma Pagano è esploso in tutta la sua grande comunicativa nel terzo brano proposto, Variazioni su un tema rococò per violoncello e orchestra op. 33, non a caso cucito su misura dal compositore per un grande violoncellista del passato, Wilhelm Fitzenhagen.
Virtuosismo, legato, musicalità ed empatia, controllo delle dinamiche stupefacente hanno consentito a Pagano di superare tutti gli scogli di una pagina di ardua esecuzione e di accattivarsi ancora una volta la simpatia e gli applausi del pubblico triestino. Un vero e proprio trionfo rafforzato da due splendidi bis, in cui è spiccata anche una specie di adrenalinica improvvisazione che stava a cavallo tra il blues e il jazz che mi ha ricordato, si parva licet, certe folli cavalcate della chitarra di Jimi Hendrix.
Passare da un clima così disinibito al sinfonismo classico, per quanto esuberante, della Sinfonia in mi minore nr.2 op.27 di Sergej Rachmaninov è stato, almeno per me, piuttosto scioccante.
Pagina musicale sterminata, di cui si sente in qualche modo un desiderio di rivalsa – rimando alla biografia del compositore – la sinfonia vive di accesi contrasti dinamici esposti spesso con un eccesso di enfasi che la rende piuttosto densa e impegnativa all’ascolto nonostante gli sprazzi cantabili e liricheggianti siano numerosi. Le percussioni sono spesso sovrastanti e il glockenspiel, strumento gentile, pare quasi rabbuiarsi.
Anche il famoso Adagio più che stemperare la tensione emotiva attenua solo parzialmente il turbinio di sentimenti dell’Allegro precedente.
Il quarto movimento è addirittura convulso, ansiolitico ed è stato bravo Kevin Rhodes, puntualissimo sul podio dell’orchestra in tutto l’arco della serata, a mantenere una linea interpretativa capace di valorizzare tutte le sezioni orchestrali che si sono abbondantemente coperte di gloria: senza togliere nulla agli altri, i contrabbassi, i violoncelli e le viole hanno fatto un grandissimo lavoro. Segnalo anche l’eccellente prova nell’Adagio di Stefano Torcellan, primo clarinetto che ha felicemente raggiunto la pensione.
Anche stasera applausi per tutti, meritatissimi, con Kevin Rhodes scatenato evidentemente felice, e a ragion veduta, degli esiti artistici del concerto.

ëtr Il’ič ČaikovskijPezzo capriccioso in si minore, op. 62

Pëtr Il’ič Čaikovskij
trascrizione per violoncello e orchestra del Nocturne nr.4
Pëtr Il’ič ČaikovskijVariazioni su un tema rococò per violoncello e orchestra op. 33,
Sergej RachmaninovSinfonia in mi minore nr.2 op.27
  
DirettoreKevin Rhodes
  
VioloncelloEttore Pagano
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste