Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Festival di Lubiana: Sondra Radvanovski e Piotr Beczała in concerto

Sondra Sondra Radvanovsky. Canadian Opera Company in Toronto , Canada.

Il Festival di Lubiana scorre senza interruzioni come la Ljubljanica, il fiume che attraversa la capitale slovena che è una delle più gettonate attrazioni turistiche della città perché lungo il suo percorso, tra anse e ponti,  sono tantissimi i luoghi suggestivi.
In questo fluire lento e affascinante, i concerti al Cankarjev dom e non solo si susseguono: ieri è stata la volta dell’atteso Recital di Sondra Radvanovsky e Piotr Beczała con l’Orchestra Filarmonica Slovena diretta da Gianluca Marcianò.
Non mi è sembrato che la serata avesse un tema particolare da seguire, visto che sono state fatte coabitare pagine musicali di Puccini – nella prima parte – , Giordano, Mascagni e Dvořák. Del resto, com’è giusto, questi concerti servono a celebrare i cantanti che vi partecipano cucendosi addosso arie e duetti in cui possono esprimere il loro meglio.
L’Orchestra Filarmonica slovena, che è una compagine diversa dall’Orchestra Sinfonica del concerto della Netrebko, è sembrata una volta di più in eccellente forma in tutte le sezioni.
Gianluca Marcianò mi è parso più direttore da emozioni forti e robuste che da ricercate finezze; alcune sonorità telluriche potrebbero aver incrinato le basi del Cankarjev dom, ma è anche vero che nell’accompagnamento ai cantanti si è ben disimpegnato, soprattutto – a mio gusto – nei duetti da Tosca e Rusalka. Divertente poi il siparietto nel finale dell’Andrea Chènier nel quale ha “interpretato”, peraltro con voce più da tenore che da basso, il carceriere Schmidt.
Sondra Radvanovsky è stata all’altezza della sua fama di superstar e ha confermato tutti i pregi che le sono universalmente riconosciuti: volume impressionante, registro centrale rigoglioso, acuti folgoranti e gravi impreziositi da sfumature sombre che accrescono il fascino di una voce singolare nel timbro e che sembra aver anche superato, almeno in buona parte, il vibrato stretto che all’inizio della carriera era piuttosto invasivo. La tecnica di respirazione le consente messe di voce rare da ascoltare, cavata sicura e legato armonioso. L’unica pecca – a mio parere – è la dizione che in alcuni momenti è ancora nebulosa mentre la presenza scenica è quella dell’artista di rango abituata ai grandi palcoscenici internazionali.
Il soprano è sembrata convincente nella sua caratterizzazione di Tosca, una Floria più orientata verso una gelosia sbarazzina e giovane, scevra dai furenti eccessi matronali che una tradizione morchiosa ha cucito addosso alla protagonista pucciniana. Molto buona anche l’interpretazione della fiabesca Rusalka di cui ha riproposto, una volta di più, la celestiale Invocazione alla luna. Ottime anche le esecuzioni di Vissi d’arte e La mamma morta.
Piotr Beczała è un altro di quei tenori che in Italia si vedono poco o nulla per motivi sconosciuti ai più – ma quest’estate è prevista la sua presenza all’Arena di Verona – e che invece meriterebbe più attenzione dai nostri direttori artistici.
Negli anni la voce si è irrobustita e ora è quella di un lirico pieno, anche se l’artista continua a frequentare parti come Faust e il Duca. Ieri è stato all’altezza della Radvanovsky, anche se nei duetti il soprano lo copriva. Non è certo un problema. La voce è di bel timbro solare, mediterraneo e gli acuti penetranti. Ottime la dizione e la pronuncia; forse le sue interpretazioni difettano di personalità, ma non certo di generosità e slancio. Io gli imputo, si fa per dire, solo una certa pigrizia nell’accontentarsi di esecuzioni che puntano più all’effetto muscolare ed esteriore che all’approfondimento psicologico del personaggio, ma è anche vero che non è certo un recital la sede più adatta a queste speculazioni.
Nello specifico, ho trovato in linea con la tradizione il suo Cavaradossi, interessante e più sfumato il Principe da Rusalka, ardimentoso il suo Chènier.
Nel programma, che trovate in locandina, erano previsti anche duetti che sono stati assai gustosi per pertinenza stilistica e vocalità di entrambi i protagonisti che hanno palesato una buona intesa reciproca. Nello Chènier c’è stata una piccola incomprensione tra Marciano e Beczała su un attacco, ma nulla di particolarmente rilevante.
Bis con l’atmosfera decadente dell’operetta, adatto a una città pienamente mitteleuropea: il duetto/Valzer  Lippen schweigen (Tace il labbro) da l’immortale Die lustige Witwe (La vedova allegra) di Franz Lehár.
Successo al calor bianco per tutti, con il pubblico – forse meno numeroso di quanto mi aspettassi – che è stato prodigo di applausi tra un brano e l’altro e si è scatenato con ovazioni alla fine del concerto.

SopranoSondra Radvanovski
TenorePiotr Beczala
  
DirettoreGianluca Marcianò
  
Giacomo PucciniPreludio da Edgar
Giacomo PucciniSola, perduta, abbandonata da Manon Lescaut
Giacomo PucciniLa Tregenda da Le Villi
Giacomo PucciniRecondita armonia da Tosca
Giacomo PucciniMario, Mario, Mario da Tosca
Giacomo PucciniE lucevan le stelle da Tosca
Pietro MascagniIntermezzo da Guglielmo Ratcliff
Antonin DvorakAria del Principe da Ruslaka
Antonin DvorakInvocazione alla Luna da Ruslaka
Antonin DvorakDuetto da Rusalka
Umberto GiordanoPreludio da Siberia
Umberto GiordanoLa mamma morta da Andrea Chènier
Umberto GiordanoCome un bel dì di maggio da Andrea Chènier
Umberto GiordanoVicino a te s’acqueta duetto da Andrea Chènier
  
Orchestra Filarmonica Slovena

La musica della notte illumina Trieste e il Politeama Rossetti: The Phantom of the Opera di Andrew Lloyd Webber per la prima volta in Italia.

Una scommessa che ex ante prevedeva molti rischi che è stata ampiamente vinta ex post. Così si potrebbe riassumere l’iniziativa intrapresa da Il Rossetti, Teatro stabile del Friuli-Venezia Giulia, di portare per la prima volta in Italia, a Trieste, il musical The Phantom of the Opera.
Ma probabilmente l’azzardo è stato ben ponderato a tavolino considerando i molti atout che può mettere sul tavolo Trieste, soprattutto negli ultimi anni; il numero di turisti, infatti, è salito – e si sta incrementando ancora con mia personalissima angoscia – in modo esponenziale. Non è un caso che alla recita di ieri, una delle ultime, salendo le scale che mi portavano in platea sentissi parlare poco italiano e quasi niente triestino. Un pubblico davvero internazionale, non solo giovane o giovanissimo, per un musical che è ormai una pietra miliare di questo genere musicale.
Certamente un pubblico diverso dai tempi in cui chi scrive ha cominciato a frequentare un teatro che è sempre stato all’avanguardia e in cui grandi artisti rodavano i loro spettacoli. Un nome per tutti, Giorgio Gaber che qui impostò la seconda parte della sua carriera, quella forse meno popolare ma sicuramente più prestigiosa e più culturalmente impegnata, con quei monologhi stralunati che stavano a metà tra lo stand up del Derby di Milano e la musica d’autore di De André, Jannacci e Guccini. Lo so che c’entra poco ma oggi l’indirizzo del Rossetti è Largo Gaber e perciò mi sono lasciato andare ai ricordi di gioventù, quando facevo finta di essere sano.
Portare a Trieste un musical così famoso e visto da milioni di persone in Inghilterra e negli USA e avere la sala piena per innumerevoli recite è una vittoria enorme, di cui Francesco Mario Granbassi – Presidente dello Stabile – può andare più che fiero.
Mi sono accostato alla vicenda del fantasma, tratta dal noto romanzo di Gaston Leroux, per vie traverse o meglio cinematografiche, quando nella prima metà degli anni Settanta del secolo scorso uscì in Italia Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma, che pur mantenendo nella sostanza il plot originale era però contaminato da altre oscure presenze e cioè gli incubi di Hugo, Goethe e Wilde. Fu un insuccesso al botteghino ma oggi è un cult movie propedeutico per chi, come me, poco sapeva di questa produzione.
È stato invece Andrew Lloyd Webber, nel 1986, a consacrare all’eternità il musical di cui ha scritto il libretto e le musiche con il contributo di Charles Hart e Richard Stilgoe. La regia e le scene sono di Federico Bellone, che riprende l’originale di Cameron Mackintosh.
Per me, che vengo dal teatro d’opera ma non ho alcuna puzza sotto al naso perché sono cresciuto a piattoni colmi di Jimi Hendrix e Beethoven, è stata una serata meravigliosa.
L’allestimento è sfarzoso, ricco, quasi abbagliante dal lato scenotecnico con un palco che ruota velocemente e porta in un attimo da una scena all’altra. Inoltre, sono rimasto impressionato dalla straordinaria precisione dei tempi teatrali, sia nei momenti più drammatici sia in quelli più distesi.
Alla fine credo si possa considerare questo musical un cugino stretto dell’opera, e del resto la vicenda di questo parla e i personaggi di contorno – si fa per dire – sono spesso caricature dei protagonisti dei teatri lirici: la primadonna isterica, la giovane stella emergente, il tenore trombone; gli impresari stessi, figura ormai scomparsa nell’attuale teatro lirico ma che ha avuto un’importanza fondamentale e mai troppo sottolineata nella diffusione del melodramma.
Nella trama si colgono qua e là riferimenti al Don Giovanni, all’opera buffa della tradizione napoletana e alla commedia dell’Arte. Nella musica echeggiano suggestioni pucciniane e – mutatis mutandis – certi concertati sembrano di un Donizetti o di Verdi: sapete quando l’azione si ferma, nulla succede e tutti parlano per loro conto? Ecco.
Le luci sono da Oscar, né più né meno, e chi ha occhio fotografico ne apprezza l’eloquente tridimensionalità al pari della distribuzione dei personaggi in scena, che ubbidiscono in modo sorprendente alle “regole” della composizione.
È una regia curata nella recitazione, nelle coreografie, nelle interazioni tra i personaggi, nelle controscene e che sfrutta sagacemente con le imponenti scenografie la profondità del palco. Nulla è lasciato al caso e, per un cascame marcio di teatro lirico come me vedere una regia vera e propria e non una piatta e anemica mise en scène , è una specie di miracolo da raccontare ai colleghi prima di andare a vedere i cantieri.
La parte musicale è amplificata con un occhio (o un orecchio, forse) alle nuove frontiere di tolleranza dei decibel, che fanno sembrare bisbigli le deflagrazioni della Götterdämmerung nella versione Decca diretta da Sir Georg Solti. Il suono dell’orchestra dal vivo è perfettamente bilanciato all’interno dell’imponente flusso sonoro di base.
Tutta la affollata compagnia artistica ha palesato un rendimento straordinario sia dal lato vocale sia da quello attoriale.
Ramin Karimloo, star della produzione, ha tratteggiato un fantasma certo inquietante e tetro ma anche ricchissimo di sfumature psicologiche che hanno ben illuminato il buio del suo vissuto. La sua è una presenza carismatica, che attira subito l’attenzione e colpisce per umanità e profondità di interpretazione. La voce è ricca di armonici, con sfumature sombre che ne accentuano il fascino.
Amelia Milo è stata pure lei efficace, per quanto dal punto di vista vocale -almeno a mio parere – sia stata contemporaneamente penalizzata e aiutata. L’amplificazione dopa il volume ma toglie armonici e la voce da soprano soubrette arriva piatta mentre, al contrario, si notava che l’artista fraseggiava con attenzione. La sua minuta Christine però è fresca, giovane e accorata e perciò risolta in pieno.
Convincente anche il Raoul di Bradley Jaden – già protagonista di altri lavori di Webber –  che ha un invidiabile physique du rôle e una voce gradevole oltre che assoluta padronanza del palcoscenico.
Irresistibile la coppia di impresari composta da Earl Carpenter (Monsieur André) e Ian Mowat (Monsieur Firmin), dinamici, affiatati e tragicamente frivoli.
Divertenti anche Anna Corvino (Carlotta Giudicelli) e Gianluca Pasolini (Ubaldo Piangi) bravissimi a prendere in giro vezzi e malvezzi delle star operistiche, tra l’altro con cospicui mezzi vocali di soprano e tenore. Siccome il nome della Corvino mi risultava familiare, ho cercato nel mio sterminato archivio e ho visto che aveva partecipato nel al Parsifal di Wagner rappresentato a Bologna nel 2014, con la regia straordinaria di Romeo Castellucci.
Brave anche la segaligna Madame Giry interpretata da Alice Mistroni e la adolescenziale e delicata Meg Giry impersonata da Zoe Nochi.
Successo infuocato (è il caso di dirlo) con pubblico impazzito che ha chiamato al proscenio tutto il cast più volte e avrà sanato il deficit di qualche Stato acquistando i gadget dello spettacolo.
Se potessi, ci tornerei.

he PhantomRamin Karimloo
Christine DaaéAmelia Milo
RaoulBradley Jean
Monsieur AndréEarl Carpenter
Monsieur FirminIan Mowat
Carlotta GiudicelliAnna Corvino
Ubaldo PiangiGian Luca Pasolini
Madame GiryAlice Mistroni
Meg GiryZoe Nochi
BuquetMatt Bond
Monsieur LefevreJeremy Rose
Dance CaptainMark Biocca
  
Parole delle canzoniCharles Hart
  
Libretto e parole aggiunte alle canzoniRichard Stilgoe
  
Regia e sceneFederico Bellone
  
CoreografieGillian Bruce
  
Impianto luciValerio Tiberi
  
Ensemble Nicola Ciulla, Luca Gaudiano, Antonio Orler, Chiara Vergassola, Marianna Bonansone, Martina Cenere, Robert Ediogu, Stefania Fratepietro, Jessica Lorusso, Marta Melchiorre, Margherita Toso

Trionfo del Teatro La Fenice in trasferta al Festival di Lubiana. Madama Butterfly di Puccini raccoglie un grandioso successo dal pubblico.

Con uno sforzo organizzativo che immagino tutt’altro che lieve da entrambe le parti, il Festival di Lubiana ospita per due serate – qui si dà conto della prima – la Madama Butterfly di Puccini nell’allestimento di Mariko Mori e Àlex Rigola in collaborazione con la Biennale di Venezia, ripreso da Cecilia Ligorio.
L’ambientazione è di chiara matrice minimalista e dell’immagine del Giappone oleografico e, forse, oggi un po’ stantia, rimane ben poco.
La regista immagina uno spazio anodino, in cui il bianco è screziato da gentili cromie pastello per i costumi che richiamano il teatro greco. L’interazione tra i personaggi, chiaramente ispirata al Teatro del Nō e del Kabuki per le coreografie, è anch’essa ridotta a tavolino: ne esce uno spettacolo asciutto, teso, spesso emozionante che consente di concentrarsi sulla nota vicenda di Cio-Cio-San, tra le più strazianti dell’intero catalogo operistico. A dominare la scena c’è una struttura simile al simbolo matematico dell’Infinito, una specie di numero otto che si sviluppa in orizzontale.
L’unico punto debole dell’allestimento mi è sembrato la lunga proiezione che accompagna l’inizio del terzo atto ma, probabilmente, il motivo è dovuto al fatto che la tecnologia ci ha abituati a tutto. Non per caso me lo ricordavo più suggestivo al debutto, ormai dieci anni fa. Discutibile l’entrata del Coro – ottima l’esecuzione del famoso coro a bocca chiusadal secondo balcone della magnifica sala del Cankarjev (Alla Fenice avveniva, altrettanto discutibilmente, dalla platea) perché distoglie l’attenzione da uno dei momenti più alti della musica lirica in toto. Le luci, di Albert Faura, sono del tutto allineate con il resto dello spettacolo, tenui ma efficaci.
Lo dico sempre, uno spettacolo per funzionare deve trovare corrispondenza di intenti e sinergia tra regia e direzione e Daniele Callegari, che di Puccini è eccellente interprete, ne ha dato prova evidente assecondato da un’Orchestra della Fenice in gran serata.
Callegari spazza via ogni sospetto di puccinismo, il che significa rendere la musica di Puccini per quello che è e cioè proiettata nel Novecento nella sua quasi crudele essenzialità. Il direttore mantiene un suono trasparente, limpido, e in ogni caso dal passo teatrale incalzante e spedito senza appesantire la narrazione con effetti d’antan come rallentando letargici e deflagrazioni nucleari di suono che sono spesso causa di incomprensioni del genio lucchese. Al contempo, l’accompagnamento ai cantanti è affettuoso e partecipe, propedeutico alla caratterizzazione dei personaggi.
A proposito della compagnia di canto, nel lodare tutti i coprotagonisti che trovate in locandina, mi soffermo da subito sulle eccellenti prestazioni di Manuela Custer, ormai Suzuki di riferimento storico sia dal lato vocale sia dal lato scenico e sull’altrettanto efficace Vladimir Stoyanov che cesella con classe una parte assai ambigua e difficile dal lato emozionale con voce adatta e gestualità contenuta ma eloquente.
Buono anche il contributo di William Corrò (Yamadori), Cristiano Olivieri (Goro) e Cristian Saitta (Zio Bonzo).
Vincenzo Costanzo, nonostante la giovane età,  è un veterano nella parte di Pinkerton che conosce a menadito. La sua è stata una buona recita ma in alcuni momenti ha anche mostrato un certo affaticamento soprattutto negli acuti, che gli sono usciti non perfettamente a fuoco seppure senza incidenti di sorta. Ha convinto in pieno, invece, nel fraseggio e per l’adeguata presenza scenica.
Monica Zanettin è stata la trionfatrice della serata e lo ha meritato, per quanto chi scrive abbia notato qualche lieve sbavatura nella sua buona prova. Ottima nel canto di conversazione – fondamentale in Puccini – ha risolto con bravura anche attoriale il problema principale della parte: la crescita psicologica del personaggio che da bambina diventa donna e poi madre disperata e moglie abbandonata. Anche nel suo caso ho notato qualche sporadico appannamento vocale e ho saputo dall’ufficio stampa del Festival che per la replica di questa sera sarà sostituita da Rebeka Lokar. Ma forse il miglior complimento a Zanettin è venuto dall’amica che mi ha accompagnato in teatro: alla fine piangeva come una fontana.
Il pubblico, foltissimo, ha tributato allo spettacolo un enorme successo, chiamando al proscenio più volte tutti i protagonisti. Come dicevo applausi per tutti e trionfo per Monica Zanettin e Daniele Callegari.
Chiosa finale: come nella serata dedicata a Verdi è bello vedere che la musica italiana e, in questo caso, istituzioni culturali italianissime siano i migliori ambasciatori del nostro Paese all’estero.

io-Cio-SanMonica Zanettin
PinkertonVincenzo Costanzo
SuzukiManuela Custer
SharplessVladimir Stoyanov
GoroCristiano Olivieri
YamadoriWilliam Corrò
Zio BonzoCristian Saitta
YakusidéEnrico Masiero
Il Commissario imperialeEmanuele Pedrini
Ufficiale del registroMassimo Squizzato
Madre di Cio-Cio-SanMarta Codognola
La ziaFrancesca Poropat
La cuginaSabrina Mazzamuto
  
DirettoreDaniele Callegari
  
Direttore del coroAlfonso Caiani
  
RegiaÀlex Rigola
Scene e costumiMariko Mori
LuciAlbert Faura
Regia ripresa daCecilia Ligorio
  
  
BalleriniInma Asensio, Elia Lopez Gonzales, Chira Vittadello
  
  
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice di Venezia
  



Mahler e Schönberg in versione cameristica a Lubiana convincono anche in…chiesa!

Come ho scritto nella recensione di ieri, il Festival di Lubiana appartiene a tutto il territorio della capitale slovena in cui abbondano, tra le altre meraviglie, numerose chiese.
E proprio nel comprensorio di Križanke, uno dei principali monumenti architettonici di Lubiana, è allocata la Chiesa di Nostra Signora della Misericordia dove spesso si tengono concerti per orchestre da camera e altro.
È un edificio piccolino, ricco di storia, che può contenere circa duecento persone, che anche in quest’occasione hanno affollato il concerto inserito nella manifestazione.
Le pagine musicali previste dal programma erano due: il celeberrimo sestetto per archi Verklärte Nacht di Arnold Schönberg e l’arrangiamento dello stesso compositore di Das Lied von der Erde di Gustav Mahler nella versione per tenore e baritono.
Schönberg, prima di diventare la bandiera dell’Espressionismo musicale ha percorso anche strade più ortodosse ed è bene diffondere e conoscere anche le radici che hanno poi dato vita al suo rivoluzionario albero compositivo.
L’esecuzione è stata affidata all’Ensemble Dissonance di cui fanno parte professori d’orchestra che suonano abitualmente con le maggiori compagini slovene ed era diretto, ieri, da Jonathan Stockhammer. I solisti erano due giovani cantanti, il tenore austriaco Paul Schweinester e il baritono sloveno Jaka Mihelač.
Prima dell’inizio è stata ricordata Brigiti Pavlič, scomparsa prematuramente quest’anno in gennaio e a lungo attiva a Lubiana e Maribor come dirigente teatrale.
Ispirata da una poesia di Richard Dehmel che Schönberg riteneva indispensabile avere presente durante l’ascolto e che per me contiene in nuce l’esile trama della successiva Erwartung, Verklärte Nacht è una pagina musicale in cui echeggiano reminiscenze wagneriane e non solo, dove i cromatismi degli archi sembrano rincorrersi e al contempo allontanarsi creando un’atmosfera suggestiva e ipnotica.
Molto bravi tutti gli interpreti tra i quali –  senza togliere nulla agli altri –  è spiccato il contributo del violino di Kana Matsui e della viola di Roberto Papi.
Dopo un brevissimo intervallo è stata la volta dell’esecuzione di Das Lied von der Erde che, dal mio punto di vista, è stata più problematica. Non per particolari mende degli interpreti, anzi, ma perché l’acustica dell’ambiente ha un po’ inficiato l’equilibrio musicale.
Almeno dalla mia posizione le voci dei cantanti – che magari non saranno state grandi, ma certo sono parse espressive – sono state spesso coperte dai legni che risuonavano con grande vigore, mentre per esempio il pianoforte e l’harmonium si percepivano appena. Nonostante ciò è stata una bella interpretazione perché, pur nell’arrangiamento forzatamente minimalista, il senso del ciclo della vita e della morte, dell’alternarsi delle stagioni e delle tante domande prive di risposta che Mahler – il quale morì senza ascoltare il suo lavoro – lascia come briciole sullo spartito è stato pienamente sviscerato.
La Marcia Funebre in particolare, è sembrata quasi guadagnare in asciuttezza e drammaticità dalla riduzione cameristica.
I due solisti – a mio gusto la versione è più efficace con un contralto, ma non è certo un problema – hanno cantato bene. Paul Schweinester è tenore di bella voce lirico leggera, partecipe e preciso, e allo stesso modo il baritono Jaka Mihelač è sembrato cosciente che nel Lied l’accento, lo scavo della parola, la dizione e la pertinenza stilistica sono fondamentali.
Alla fine successo pieno, con numerose chiamate all’…altare per tutta la compagnia artistica.


Arnold SchönbergVerklärte Nacht
Gustav MahlerDas Lied von der Erde (arrangiamento Schönberg)
  
DirettoreJonathan Stockhammer
  
TenorePaul Schweinester
BaritonoJaka Mihelač
  
Ensemble Dissonance

Al Festival di Lubiana trionfano Anna Netrebko (&Friends) in una serata dedicata a Giuseppe Verdi

Il 71° Festival di Lubiana è in corso da un paio di settimane con molteplici proposte artistiche che abbracciano tutta la capitale slovena. Le piazze, le chiese e, ovviamente, le sale da concerto sono piene di appassionati e semplici curiosi. L’aria che si respira fa bene alla salute perché si vivono la musica e l’arte in modo spontaneo, tutt’altro che paludato e profondamente democratico, tanto che mi sento di spendere l’abusato aggettivo inclusivo con serena leggerezza.
Con queste premesse non c’è una graduatoria di importanza per le serate ma solo appuntamenti più prestigiosi per i nomi degli artisti coinvolti.
È il caso del concerto di ieri al Kankarjev dom, che avrebbe potuto benissimo essere intitolato Anna Netrebko & Friends sia per l’indiscutibile carisma e popolarità del soprano sia per la proposta nazionalpopolare delle arie e i duetti scelti per l’occasione. Attenzione però, perché al contrario di buona parte delle baracconate degli anni 90 del secolo scorso il livello artistico è stato altissimo anche nella scaletta, completamente dedicata a Giuseppe Verdi. Anch’io, che non sono precisamente avvezzo a nazionalismi strumentali, ho pensato che ascoltare artisti di codesto calibro che cantano e suonano Verdi all’estero fosse una promozione seria per la nostra identità culturale.
Una precisazione doverosa all’inizio della cronaca della serata: il mezzosoprano Elena Zhidkova era evidentemente in precarie condizioni di salute e perciò bisogna solo ringraziarla per la partecipazione.
Sul podio dell’ottima Orchestra sinfonica slovena, Michelangelo Mazza si è disimpegnato con grande intelligenza accompagnando i cantanti con attenzione e diligenza ma anche senza abdicare alle finezze che pretendono le partiture verdiane. Agogiche stringenti ma non frettolose, dinamiche vivaci ma lontanissime da effettacci bandistici che affliggono certe esecuzioni circensi. Verdi, anche quello più infuocato, resta sempre compositore raffinato.
Di Anna Netrebko si legge qualsiasi cosa ovunque, ma la realtà è una sola: è un’Artista. Ha carisma, presenza scenica, con uno sguardo coglie lo stato d’animo del personaggio, con un gesto entra nella vicenda. Inoltre, e credo sia utile sottolinearlo, è l’esempio di quanto siano cretini i giudizi lapidari sui cantanti. “Quello è così, tal altra e così ecc”. I cantanti sono in divenire, non possono essere cristallizzati in una valutazione tranchant valida per tutta la carriera. Oggi Netrebko ha una voce completamente diversa di un tempo per tornitura, colore e armonici e, di conseguenza, affronta repertori diversi seguendo l’evoluzione naturale dello strumento vocale, preziosissimo. Si notano anche dei difetti, più accentuati nelle arie meno frequentate (Pace, pace mio Dio) in cui la dizione e la pronuncia sono sembrate almeno rivedibili. Al contrario, nella sortita dal Macbeth che ha appena affrontato alla Scala e in cui ha recitato con proprietà il parlato della lettera, anche le prefate imperfezioni si attenuano di molto. La voce è ampia, robusta, di colore bellissimo e confortata da acuti quasi sfrontati e messe di voce delicatissime, sostenute da una tecnica e da una respirazione da manuale. Il soprano è nel pieno della maturità artistica e ci è arrivata, anche se pare ieri, dopo quasi trent’anni di carriera.
Yusif Eyvazov, si sa, non ha una di quelle voci benedette da dio ed è altrettanto noto che la sua tecnica, soprattutto nella gestione del passaggio, è piuttosto personale. Resta il fatto che è un cantante – dal mio punto di vista – sempre piacevole da ascoltare per entusiasmo, vivacità sul palcoscenico e comunicativa. Inoltre dizione e pronuncia sono quasi ineccepibili e non si può certo affermare che non abbia una voce importante per quanto difficile da gestire. Va da sé che – fatta di necessità virtù – del tenore si apprezzano più gli slanci eroici che i riflessivi ripiegamenti. E, del resto, ieri ha interpretato con generosità lo spavaldo e tracotante Duca, l’emozionalmente terremotato e sulfureo Alvaro, l’infelice guerriero Radamès e l’ardimentoso e audace Manrico. Una specie di concentrato in pillole delle caratteristiche del tenore verdiano per come è recepito nell’immaginario collettivo. Molto sicuro (e divertito) della sua forma vocale, Eyvazov ha gigioneggiato un po’ negli acuti, qua e là si è lasciato andare a qualche birignao ma, bisogna ricordarlo, i recital hanno dinamiche diverse da una serata “normale” in teatro e il pubblico ha gradito le sue interpretazioni viscerali, di pancia, degli sfortunati personaggi verdiani.
Il discorso si potrebbe ripetere nella sostanza per Željko Lučić, interprete di Rigoletto, Renato, Conte di Luna e Don Carlo di Vargas. I caratteri sono sfaccettati, ma vuoi per la scelta dei brani vuoi per indole, il baritono ha esaltato i lati più brutali dei personaggi, trascurando un po’ quelli meno epidermici e, soprattutto, dimenticandosi che i baritoni verdiani non sono mai solo protervi vilain ma anzi, i tratti di nobiltà sono prevalenti.
Di là di questo distinguo anche a Lučić il volume non manca e ieri sera nel duetto della Forza e nel terzetto del Trovatore ha boxato negli acuti con Eyvazov uscendone sconfitto di misura ai punti. Meglio, anche se sempre un po’ troppo truce, l’interpretazione dell’aria di Renato dal Ballo.
Il programma è stato completato con una pregevole esecuzione dei Ballabili dall’Otello, in cui Michelangelo Mazza ha trovato dall’orchestra slovena leggerezza e dinamismo.
Inevitabile il bis con il Brindisi dalla Traviata.
Occorre che dica come ha risposto il pubblico che affollava il Cankarjev?

SopranoAnna Netrebko
TenoreYusif Eyvazov
BaritonoŽeljko Lučić
MezzosopranoElena Zhidkova
  
DirettoreMichelangelo Mazza
  
Orchestra Sinfonica Slovena
  
Giuseppe Verdi Nel dì della vittoria (Macbeth) Ella mi fu rapita (Rigoletto) Un dì, se ben rammentomi (Rigoletto) Eri tu (Un ballo in maschera) Pace, pace mio Dio (La forza del destino) O tu che in seno agli angeli (La forza del destino) Stride la vampa (Il trovatore) Udiste? Come albeggi (Il trovatore) Invano Alvaro (La forza del destino) Ballabili da Otello La fatal pietra (Aida) Tace la notte (Il trovatore)



Considerazioni di bassa manovalanza sulla nuova stagione del Teatro Verdi di Trieste. In sintesi, non male.

È stata presentata ieri la nuova stagione lirica e di balletto del Teatro Verdi di Trieste. Per la stagione sinfonica, che attendo con trepidazione, c’è da aspettare ancora qualche giorno.
Commento, per lo sconforto dei più, da circa vent’anni la presentazione del nuovo cartellone e ovviamente anche in quest’occasione non posso esimermi.
So già che chi mi legge da tanto penserà: Ora parte il mantra con relative lamentazioni. In realtà no, non quest’anno. E non perché i titoli proposti, o gli interpreti, facciano gridare al miracolo ma perché – a mio parere che condivido – mi sembra che qualche passetto in avanti rispetto al passato si sia fatto e non solo nella scelta delle opere. Ci sono anche situazioni che mi lasciano perplesso ex ante ma ho anche la consapevolezza di avere esperienza ed equilibrio per essere obiettivo ex post su alcuni nomi che, al momento, mi risultano piuttosto indigeribili.
Intanto c’è un titolo in più dell’anno scorso e non è da sottovalutare, anzi! Ora gli spettacoli sono otto (balletto compreso); le prime – chissà se mi hanno ascoltato oppure è un caso – iniziano alle 20 e non alle 20.30; decisione che inevitabilmente creerà qualche malumore ma che a chi scrive sembrava doverosa da sempre perché in questo modo ci si allinea alla pratica dei maggiori teatri. Io, addirittura, comincerei alle 19.30, per dire.
Trovo inopportuno che Die Zauberflöte apra il 7 dicembre, giorno consacrato alla prima scaligera. Sempre per l’opera mozartiana ho seri dubbi su Beatrice Venezi, chiamata sul podio dell’orchestra. Ammetto però che non l’ho mai ascoltata dal vivo e mi sono limitato a leggere un suo insignificante libello. Certo, le recensioni dei colleghi – di quei pochi, pochissimi, che stimo – non sono incoraggianti.
Poi non posso non vedere che in un’Italia governata dalla destra, in una regione amministrata dalla destra, in una città in cui la destra esprime anche la giunta comunale in cui il Sindaco è Presidente anche della Fondazione triestina diriga per la prima volta una delle bandiere “culturali” della destra.
Però, ribadisco, a me interessa solo che non scempi una delle vette del genio umano e cioè Die Zauberflöte. Certo, i dialoghi saranno in italiano invece che nell’originale tedesco ma sarà un caso e non certamente la provinciale (anzi, rionale) necessità di ribadire un’italianità da barzelletta.
Si apre con Manon Lescaut di Puccini, che mancava a Trieste da tre lustri, anticipando di un mese il centenario dalla morte di Sor Giacomo. Mi pare una scelta intelligente. Poi, appunto, Die Zauberflöte.
In gennaio Anna Bolena di Donizetti – vista pochi anni fa con un altro allestimento ma che è sempre un bel sentire – e poi Ariadne auf Naxos di Richard Strauss, finalmente. Io quando ascolto Strauss mi sento a casa.
A seguire Nabucco di Verdi, visto appena tre anni fa e di cui, onestamente, non sentivo la necessità di un’altra proposta. Verdi ha scritto anche opere che a Trieste non vediamo da generazioni, come La forza del destino, tanto per nominarne una.
Vale anche per La Cenerentola di Rossini che vedremo in aprile: un Tancredi? Un’Ermione? Rossini ha scritto anche opere serie e noi triestini non le vediamo da una vita nel nostro teatro.
C’è poi il balletto Giselle in un allestimento proveniente da Lubiana sulla cui professionalità non ho dubbi e, per finire, quello che è forse l’appuntamento più interessante della stagione e cioè il dittico Il castello del Duca Barbablù di Bartók – compositore straordinario – e La porta divisoria , opera di Fiorenzo Carpi su libretto di Giorgio Strehler tratto dal racconto La metamorfosi di Franz Kafka. Si tratta di un atto unico suddiviso in cinque quadri, rimasto incompiuto e che fu commissionato al compositore da Victor de Sabata. Il Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto ha affidato al compositore Alessandro Solbiati la stesura del quinto quadro.
Enrico Girardi, critico musicale del Corriere della sera e mio buon amico, che a Spoleto è condirettore, è stato mallevadore dell’operazione di recupero di questo lavoro per il quale si può affermare che profuma di triestinità.
La serata è stata allietata dall’esecuzione di alcuni lacerti dal Nabucco.
È tutto. E non mi pare poco.

Intervista a Oksana Lyniv.

Andrea Ranzi ph
Andrea Ranzi

Sì, sono vivo (strasmile). Sono stato impegnato con una mostra fotografica di cui quando ho tempo vi racconterò qualcosa. Ho compiuto 68 anni. Mi aspettano 11 serate al prossimo Festival di Lubiana. Ok?

Oksana Lyniv, Direttore musicale del Teatro Comunale di Bologna, in attesa di tornare a Bayreuth per Der fliegende Holländer sta lavorando a un nuovo progetto musicale nella città felsinea. Le abbiamo rivolto qualche domanda.

Prima di raccontarci del progetto in onore di Respighi, ci dica dei suoi primi passi da giovane musicista in Ucraina.

Provengo da una famiglia musicale, mio papà è maestro del coro e quindi sono cresciuta in un ambiente musicale. La mia decisione di diventare direttrice d’orchestra è nata tra i 16 e i 18 anni grazie alla mia esperienza con le orchestre giovanili formate da studenti, ed essendo riuscita a realizzare un mio sogno di gioventù voglio essere anche un modello per i giovani per invogliarli a realizzare e portare avanti i loro sogni.

Com’è stato lavorare fianco a fianco con Kirill Petrenko ora, tra le altre cose, direttore musicale dei Berliner Philharmoniker?

La mia esperienza alla Bayerische Staatsoper con Kirill Petrenko è stata una delle più formative per gli sviluppi futuri della mia carriera. Potendo assistere a tutte le prove e alle recite ho imparato tantissimo e quando ero lì ho fatto anche i miei primi debutti internazionali che mi hanno aperto tante porte.

Lei, nel 2021, è stata la prima donna a dirigere a Bayreuth. Immagino che sia stata una grande soddisfazione, ma ci dica qualcosa di più.

Il mio debutto al Festival di Bayreuth ha un significato molto simbolico in quanto sono stata la prima donna a dirigervi dopo 145 anni. La responsabilità è stata grandissima sia nei confronti della storia in generale sia per il preciso momento storico che stavamo vivendo in quel frangente temporale, ovvero la pandemia. È stata una sfida dal punto di vista tecnico. L’acustica del Festspielhaus, col golfo mistico e la buca nascosta, è già una sfida in sé ed è stata aggravata dal distanziamento obbligatorio dovuto al Covid, per cui il coro era posto in un’altra sala, tutto doveva essere collegato e sincronizzato nei minimi dettagli. Ho sentito quindi una forte responsabilità e ho voluto che fosse un successo duraturo nel tempo. E infatti mi hanno invitato anche per l’anno successivo e vi tornerò anche questa estate.

Veniamo ora al Festival Respighi. Come definirebbe la musica e lo stile del compositore bolognese?

Finora ho diretto pochi brani di Respighi: due Suite, per l’esattezza quella degli Uccelli e la III delle Antiche arie e danze, che eseguiremo anche in Piazza Maggiore. Sono molto interessata alle opere sinfoniche per la loro ricchezza di colori e brillantezza e per il loro forte carattere italiano. 

Come nasce la collaborazione con Maurizio Scardovi e Musica Insieme sul Festival Respighi Bologna?

Sono molto contenta di essere stata coinvolta in questo progetto dal Sindaco come rappresentante del Teatro Comunale di Bologna e ho seguito con approvazione la sua volontà di creare un progetto che unisse le maggiori istituzioni musicali della città. Apprezzo anche l’iniziativa di Maurizio Scardovi di rilanciare questo compositore bolognese e con lui tutta quella musica italiana che per troppo tempo è stata sottovalutata e trascurata dai cartelloni. È un progetto di recupero di una grande fetta della storia e della musica di Bologna, città dal grande passato musicale che bisogna assolutamente ricollegare al presente. Inoltre bisogna dare carattere internazionale al Festival Respighi Bologna, in modo da sviluppare un festival dal carattere forte.

È la prima volta che l’Orchestra del Conservatorio viene diretta dal Direttore musicale del Teatro Comunale: come affronterà questo impegno, che la vede come sempre in prima linea per la promozione dei giovani talenti?

Lo affronterò con grande entusiasmo perché il Conservatorio è il primo passo verso la carriera e poter contribuire alla preparazione di giovani e brillanti musicisti che un domani potrebbero arricchire le file dell’Orchestra del Teatro Comunale mi pare una bella iniziativa.

Dirigerà in Piazza Maggiore per la prima volta ed è anche la prima volta che l’Orchestra del Conservatorio suona in Piazza Maggiore, una serie di debutti intorno a Ottorino Respighi che rendono questo evento straordinario: che augurio formulerebbe al Festival Respighi Bologna?

Penso che sia una bellissima iniziativa creare un ponte tra passato e futuro. I giovani sono il futuro e questa iniziativa piacerebbe di certo a Respighi, al quale i giovani e la loro formazione stavano tanto a cuore. Dunque faccio un grande in bocca al lupo a noi.  

Come proseguirà la sua collaborazione con Musica Insieme in futuro?

Parliamo già di una collaborazione anche per il prossimo anno e per me sarà molto interessante scoprire nuovi repertori.

Bene, allora in bocca al lupo!

Grazie a lei e un saluto ai tanti lettori di OperaClick.

Recensione serena de La Messa di Requiem di Verdi al Teatro Verdi di Trieste

Credo siano note a tutti le tristi e inquietanti vicende che riguardano Villa Verdi a Sant’Agata di Villanova in provincia di Piacenza, al centro di una lunga e inestricabile diatriba per questioni ereditarie.
Sono molte le realtà istituzionali e culturali che si sono attivate per rimediare a una situazione incresciosa e, tra le altre iniziative, anche le Fondazioni liriche stanno fornendo il loro contributo aderendo alla manifestazione “VIVA Verdi” che prevede la realizzazione di concerti straordinari i cui proventi andranno in beneficenza per sostenere il progetto della casa/museo di Verdi.
L’esecuzione della Messa di Requiem al Teatro Verdi di Trieste va inserita, meritoriamente, nel prefato contesto.
Il Sovrintendente Giuliano Polo ha sottolineato che la scelta è stata dettata dall’esigenza di valorizzare Orchestra e Coro locali e cantanti già presenti a Trieste per Turandot, con l’eccezione di Isabel De Paoli che però risiede in città e, per quello che può valere, ho trovato sensata questa scelta.
La direzione è stata affidata ad Alessandro Vitiello, anch’egli triestino e allievo del mai dimenticato Gianluigi Gelmetti che fu sul podio nel 2013 quando il capolavoro verdiano fu eseguito nell’ambito dei festeggiamenti per il centenario dalla nascita del Compositore.
Vitiello ha dato una lettura tesa e al contempo attenta a esaltare le caratteristiche spirituali, meditative, della straordinaria partitura verdiana, trovando un equilibrio interpretativo che ha esaltato sia la tellurica irruenza di pagine come il Dies Irae sia la serena compostezza dell’Hostias.
L’Orchestra del Verdi ha risposto con passione e competenza alle indicazioni del podio, esibendo soffice morbidezza negli archi, vigore controllato nelle percussioni e robusta precisione negli ottoni, ma tutte le sezioni sono sembrate in gran spolvero.
Buona anche la prova del Coro della Fondazione che ha cantato con gusto, raccoglimento e impeto, assecondando le mutevoli atmosfere psicologiche del testo liturgico.
La compagnia di canto era omogenea e tutti i solisti hanno ben figurato anche per l’indispensabile compostezza richiesta dalla circostanza.
Angela Nisi, nonostante qualche veniale forzatura, si è ben disimpegnata nella parte sopranile, palesando un’incisiva proiezione della voce.
Brillante Isabel De Paoli, che ha trovato gli accenti giusti per una parte onerosa che richiede anche affiatamento col soprano nel meraviglioso duetto Recordare.
Bravo anche Amadi Lagha, al debutto, che è riuscito a piegare il suo strumento vocale esuberante alle variegate dinamiche che richiede la parte senza sacrificare brillantezza negli acuti.
Autorevole Gabriele Sagona, chiaro nella dizione, severo al punto giusto nel Confutatis e austero nel fraseggio nell’arco della recita.
Pubblico piuttosto numeroso e assai felice degli esiti artistici della serata, che ha applaudito a lungo tutta la compagnia artistica più volte chiamata al proscenio.

DirettoreAlessandro Vitiello
Direttore del coroPaolo Longo
  
SopranoAngela Nisi
MezzosopranoIsabel De Paoli
TenoreAmadi Lagha
BassoGabriele Sagona
  
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste

Recensione severa di Turandot di Giacomo Puccini al Teatro Verdi di Trieste: tanto rumore per nulla (o quasi).

No, non è stata la “stessa” Turandot del 2019, per quanto la sostanza dell’impianto scenico e i due interpreti principali fossero gli stessi.
L’allestimento ha guadagnato molto dai nuovi costumi di Danilo Coppola, più vicini alla concezione registica di Davide Garattini Raimondi e, tutto sommato, meno scontati di quelli che a suo tempo furono ripresi dal Teatro di Odessa. La divisione – certo un po’ manicheista – tra buoni e cattivi, tra popolo e regale nobiltà è risultata più chiara. Allo stesso modo, il costume nero si prestava bene al teorico anonimato di Calaf, alla triste parabola della vita di Liù e all’accorata partecipazione del coro, notoriamente protagonista nell’opera al pari degli altri personaggi. Le tre maschere sono state dinamiche, sulfuree, com’è giusto che sia, Turandot fredda e distaccata, ma con qualche cedimento dopo la scena degli enigmi.
La versione scelta è stata, come a suo tempo, quella che si interrompe con la morte di Liù e a questo proposito ho trovato giusto il taglio – che si ascoltava con superstizioso disagio – della voce registrata che ricordava la morte di Puccini.
Le proiezioni invece dopo un po’ stufano, e se assolvono al loro dovere di dare tridimensionalità allo spettacolo al contempo non aggiungono nulla alla comprensione dello stesso, soprattutto quelle che sembravano uno spot per promuovere il Test di Rorschach.
Purtroppo, nonostante qualche criticità veniale, la parte migliore della serata è stato proprio l’allestimento, perché sul fronte musicale – nel teatro lirico bisogna pur cantare e suonare, e farlo bene – le cose non sono andate nel verso giusto.
Nulla da eccepire sulla prestazione dell’Orchestra del Verdi, i cui standard sono sempre elevati, mentre qualche perplessità ha suscitato la lettura di Jordi Bernàcer, decisamente orientata su dinamiche spaccatimpani, agogiche frettolose e poco attenta a valorizzare le parti meno estroverse di una partitura che vive sì di contrasti anche importanti ma che non deve essere ridotta a un’edonistica esibizione di suono bombastico.
Le percussioni erano spesso sovrastanti, almeno dalla mia posizione. Il Coro, disciplinato e puntuale dal lato scenico, ha cantato bene ma con troppa foga e forse di questo eccesso di decibel è responsabile proprio il podio. Bene i ragazzini del coro di voci bianche, preparati da Cristina Semeraro.
È auspicabile che nelle prossime recite si trovi un maggior equilibrio sonoro.
Kristina Kolar, eccellente nel 2019, ieri sera è sembrata meno convincente soprattutto nella sortita – certo, di rara difficoltà – in cui è sembrata disorientata e con un’intonazione non ineccepibile. Il soprano si è poi ripresa ma la sensazione è che possa fare molto meglio perché la voce resta adatta alla parte e di rilievo per volume e consistenza. Da migliorare invece la dizione e la pronuncia.
Amadi Lagha, convincente Calaf quattro anni fa, è stato al solito generoso ed empatico ma l’accento è parso generico, il fraseggio non approfondito e gli acuti, notoriamente punto di forza dell’artista e infatti esibiti con grande entusiasmo, privi di punta e più grossi che penetranti.
Liù è stata interpretata da Ilona Revolskaja che ha una voce assai particolare, di tinta quasi contraltile, che prende corpo negli acuti ma anche affetta da un vibrato stretto molto pronunciato e sostanzialmente inudibile nei registri medio e grave. Buone un paio di messe di voce, ma complici anche una partecipazione scenica dimessa e dizione e pronuncia rivedibili a essere generosi il personaggio non è uscito nella sua tragica grandezza.
Problematica anche la prestazione di Marco Spotti, Timur poco incisivo e ondivago nell’intonazione.
Molto buono il rendimento delle Tre Maschere che sono state ineccepibili sia dal lato vocale sia dal punto di vista attoriale. Un plauso particolare, non me ne vogliano gli altri colleghi, va al Ping del sempre solidissimo Nicolò Ceriani.
All’altezza del cimento anche le parti di contorno che trovate in locandina.
Teatro affollato da un pubblico che ha contestato – dal loggione – in modo piuttosto ingeneroso la regia e applaudito con moderazione una compagnia artistica che probabilmente migliorerà di molto il proprio rendimento nelle prossime recite.

TurandotKristina Kolar
CalafAmadi Lagha
LiùIlona Revolskaja
TimurMarco Spotti
PingNicolò Ceriani
PangSaverio Pugliese
PongEnrico Iviglia
L’Imperatore AltoumGianluca Sorrentino
MandarinoItalo Proferisce
Prima ancellaFederica Guina
Seconda ancellaLuisella Capoccia
Il Principe di PersiaMassimo Marsi
  
DirettoreJordi Bernàcer
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaDavide Garattini Raimondi
Scene e luciPaolo Vitale
CostumiDanilo Coppola
Assistente alla regia e movimenti sceniciAnna Aiello
  
Piccoli Cantori della città di Trieste diretti da Cristina Semeraro
Orchestra di fiati Giuseppe Verdi
  
Orchestra e Coro del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste



Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Turandot di Giacomo Puccini.

Venerdì 12 maggio al Teatro Verdi di Trieste “va in onda” la prima di Turandot di Giacomo Puccini e ovviamente mi sento in dovere di scrivere qualche spigolatura sull’opera per i miei happy few.
Opera amatissima e popolare Turandot, lasciata incompiuta da Puccini, che morì mentre ne stava scrivendo le ultime due scene poi completate da Franco Alfano con la supervisione di Arturo Toscanini.
Ripensando a Turandot, la prima circostanza che mi colpisce è l’indicazione temporale in cui si svolge la vicenda: al tempo delle favole, a Pekino (sì, scritto così).
Se ci pensate è molto bello, rilassante, tornare per un paio d’ore al tempo delle favole: è proprio l’essenza di ciò che dovrebbe essere il teatro, una momentanea sospensione della (e dalla) realtà che, come ben sappiamo, non è che sia poi così allegra e spensierata per nessuno.
Il libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni fu tratto da una nota fiaba di Carlo Gozzi, già messa in musica con esiti alterni da Antonio Bazzini e Ferruccio Busoni.
Le cosiddette fiabe, lo affermo da sempre, andrebbero rilette con gli occhi di un adulto perché nascondono significati simbolici piuttosto inquietanti che per fortuna da bambini non si colgono. Pensate alla produzione dei fratelli Grimm o di Hans Christian Andersen, che non a caso sono definite fiabe iniziatiche. Per fortuna mio papà si è limitato a raccontarmi Il pesciolino d’oro di Aleksandr Puškin che, come potete vedere, effetti nefasti ne ha causati non pochi (strasmile).
Comunque, la trasposizione teatrale non segue fedelmente il testo originale, tanto che per esempio il personaggio di Liù – centrale in Puccini – è inventato di sana pianta e non esiste in Gozzi. Puccini aveva ben presente le esigenze teatrali e anzi si riteneva investito della missione di scrivere solo ed esclusivamente per il teatro. Di conseguenza grandi dibattiti, tantissima corrispondenza, qualche volta spiritosa, altre pungente, con i librettisti. I librettisti, poveri, sono proprio maltrattati per default dai compositori…si pensi a Verdi e Piave o Cammarano, solo per citare un caso.
Puccini si arrovellò tanto sul finale dell’opera, scrivendo e riscrivendo la musica, scartando molti versi che gli venivano proposti dai librettisti: non trovava una quadratura che lo soddisfacesse del tutto. Purtroppo la malattia che lo minava da tempo non indugiò, invece; morì il 29 novembre del 1924 per i postumi dell’operazione a cui era stato costretto.
Per l’editore Ricordi quindi ci fu il problema di affidare a qualcuno la scrittura del finale dell’opera, sulla base degli appunti lasciati da Puccini. La vicenda è complicata, non voglio farla troppo lunga.
Il compito fu affidato a Franco Alfano, supportato (o meglio, osteggiato) da Arturo Toscanini. Il risultato è che il finale probabilmente si avvicina abbastanza all’idea di Puccini ma ne confonde lo stile compositivo, anche nella versione rivista da Toscanini.
Ancora nel 2002 Ricordi affidò a un compositore contemporaneo la stesura di un altro finale. Luciano Berio, a parer mio, fece un gran lavoro proprio perché volle differenziare la “sua” musica da quella di Puccini. Ma queste sono speculazioni personali e perciò del tutto risibili.
In cuor mio sono del parere di Toscanini, che la sera della prima rappresentazione – Teatro alla Scala, 25 aprile 1926 – interruppe l’esecuzione dopo il corteo funebre che segue la morte di Liù: sono perciò molto soddisfatto che probabilmente sarà proprio questa la soluzione che si adotterà per la prima al Verdi.
Turandot è un’opera che si stacca nettamente, a mio parere, dal resto della produzione di Puccini, tanto che in molti si sono chiesti come mai sia diventata così popolare. La risposta sta nel genio di Sor Giacomo, capace di far convivere nella partitura elementi di assoluta novità insieme a certi stilemi più tradizionali. Le parti melodiche ci sono, ma paiono quasi dejà vu o meglio illusioni di una musica ormai estinta, fagocitata dal Moloch del Novecento, il secolo della follia. Non è un caso che Webern consideri “importante” Turandot, e lo scriva al suo maestro Schönberg, padre della musica seriale.
Le percussioni hanno un’importanza fondamentale e sono usate sia a scopi coloristici sia per tingere di esotico, di quell’oriente che era ai tempi l’ultimo grido della moda, la partitura. Il coro assume le vesti di un vero personaggio, e le sorti di una buona riuscita dell’opera passano in modo rilevante proprio per il coro.
In quanto ai cantanti le difficoltà sono notevoli, soprattutto per quanto riguarda la parte della “Principessa di gelo”: scrittura ostica, acuta e difficile anche dal lato interpretativo oltre che tecnico.
Il tenore è condannato, oggi, a un Nessun dorma che si avvicini all’idea che ha la vulgata di “Vincerò”, un’aria che non è mai stata scritta (strasmile).
Liù ha difficoltà vocali moderate, ma il fraseggio e l’accento devono essere convincenti, altrimenti il personaggio ne esce insipido. Tutto sommato abbordabile la parte da basso di Timur. Decisivo il rendimento delle “maschere” o ministri Ping, Pong e Pang: se la loro prestazione non è all’altezza sono problemi seri perché reggono in modo decisivo la parte centrale dell’opera.
Ovviamente il direttore deve trovare la giusta misura, soprattutto nelle dinamiche che possono essere insidiose. Come in tutto Puccini, fondamentale è il lavoro di concertazione che deve rendere preciso il canto di conversazione.
Un paio d’anni fa mi ricordai di Turandot in un momento difficile, era il periodo del lockdown severo causato dalla pandemia.
È tutto, per ora.