Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Dischi storici: Il Trovatore di Giuseppe Verdi. Interessante iniziativa culturale a Trieste.

Intanto mi preme segnalare, in apertura di questo post, la bella iniziativa congiunta del Teatro Verdi e del Politeama Rossetti di Trieste, chiamata (un po’ macchinosamente, ma transeat) Romeo e Giulietta si fanno in quattro.
In poche parole si può acquistare una specie di biglietto multingresso per assistere a quattro spettacoli teatrali diversi, tutti centrati sulla storia degli amanti veronesi: il Roméo et Juliette di Gounod (lirica), l’originale Romeo e Giulietta di Shakespeare (prosa), West side story di Bernstein (musical) e il balletto Romeo & Juliet coreografato da Mauro Bigonzetti su musiche di Sergej Prokof’ev.
Mi pare una bella idea, anche visto il prezzo contenuto del biglietto.
Proseguo poi con la mia personale e stringata rivisitazione di alcuni dischi storici: questa volta tocca a Il trovatore di Giuseppe Verdi, anno di grazia 1956 edito dalla EMI.
In questa incisione c’imbattiamo in una delle performance più straordinarie di Maria Callas, che interpretava Leonora per la seconda volta in studio, dopo quella di qualche anno prima, mi pare nel 1952 ma non ne sono certo.
C’è poco da dire, è una pietra miliare dell’Arte del Canto e a questa considerazione si giunge perché è impossibile non apprezzare il magistero tecnico del soprano, la sua cura della parola scenica, tale che sembra di ascoltare per la prima volta alcune frasi (anche le più note, penso solo all’incipit celeberrimo dell’aria di sortita Tacea la notte placida), specialmente se non si sente il disco da qualche tempo. Una continua scoperta di finezze, di particolari nascosti, di accenti che rendono vivo e reale il personaggio di Leonora.
La seconda considerazione è ancora più sconvolgente, da un certo punto di vista, e cioè la Callas a più di cinquant’anni di distanza è una Leonora attuale, moderna, come la si vorrebbe sentire oggi in teatro.
C’è un abisso tra lei e i pur notevolissimi compagni d’incisione, le cui prove appaiono irrimediabilmente datate e vecchie, al di là di problemi vocali che affliggono in particolar modo Giuseppe Di Stefano, Manrico, ma anche gli altri.
 
Elvio Giudici (anche Celletti, che è ancora più intransigente) sostiene addirittura che questo è un Trovatore senza Manrico, e forse è un giudizio un po’troppo cattivo, ma sicuramente alla valutazione così severa contribuisce il confronto immediato e impietoso con la Callas.
Di Stefano avrebbe il timbro perfetto per la parte, ma non c’è nulla di più, perché mancano troppe cose per delineare un Manrico convincente: basta ascoltare il cantabile Ah sì ben mio con orecchie serene (si può dire? Mah…) per rendersene conto. Neanche nel canto spiegato il tenore riesce ad emergere, perché comunica al massimo un senso di concitata agitazione.
 
Discreta, ma non di più, la prova di Rolando Panerai quale Conte di Luna, almeno perché cerca (non riuscendoci sempre, peraltro) di non cantare tutto forte e di dare un senso musicale alla parola scritta. Buona risulta l’aria Il balen del suo sorriso.
 
La mia gloriosissima concittadina Fedora Barbieri interpreta Azucena e lo fa abbastanza bene, ma non mi convince in pieno. C’è qualche bellissima intuizione, in particolare nell’allucinata ma lucida, sorvegliata, Stride la vampa,

risolta con un accento vigoroso ed efficace, senza cachinni ed effettacci di cattivo gusto. Spesso però gli acuti sono al limite e i gravi cavernosi e artefatti.

Nicola Zaccaria, nella parte minore ma fondamentale di Ferrando, è molto bravo.
Resta la direzione d’orchestra e io, a costo di essere maledetto da chi mi legge (strasmile), sostengo che la concertazione di Herbert von Karajan (alla testa di un’Orchestra e un Coro della Scala…d’altri tempi) non mi entusiasma per nulla pur non negando che in alcuni momenti sia suggestiva.
Voglio dire che a me questa direzione pare schizofrenica, nel senso di discontinua, qualche volta pure enfatica, clangorosa e comunque priva di un fil rouge narrativo, quasi fosse un mosaico formato da pezzi singoli belli che però non si fondono in un insieme armonioso .
Il contrario insomma di ciò che sostiene Giudici, ahimé, che trova la direzione efficace e teatrale, drammaturgicamente congrua. Per me manca completamente di poesia e lirismo nelle tante pagine elegiache dell’opera ed eccede di tinte scure e tetre nelle parti più drammatiche.
Questa circostanza mi ha sempre sorpreso perché io idolatro Karajan per il suo Ring, così straordinario proprio per l’equilibrio tra luce e buio, per la perfetta simbiosi raggiunta tra orchestra e cantanti.
Tutto questo, ovviamente, è da considerarsi solo come un’opinione e nulla più.
E a proposito di opinioni, apprezzo molto questo sito dedicato a Maria Callas, curato dall’amica Marion (brava, bravissima), dateci un’occhiata perché merita davvero.
È fatto con passone, competenza ed entusiasmo e io l’aggiungo subito tra i miei preferiti.
Buon fine settimana a tutti.

P.S.
Mami (kazen) che fine hai fatto?

 

Recensione semiseria del Don Giovanni di Mozart alla Scala di Milano.

Vorrei chiarire subito che quando parliamo del Don Giovanni di Mozart ci addentriamo in una di quelle opere d’Arte che sono da considerare tout court tra le più grandi “imprese” del genio umano.
Voglio dire che il discorso trascende la disciplina artistica, in questo caso l’opera lirica, e sconfina in un terreno che resterà inesplorato per la stragrande maggioranza delle persone normali, anche quelle che hanno la fortuna di avere una mente brillantissima (che non sia il mio caso mi pare persino superfluo evidenziarlo, ma insomma, siccome leggo cose in giro…).
Don Giovanni Violino  
Il Don Giovanni non si capisce, è una fede (vero Giorgia? Strasmile), non c’è una chiave di lettura, ce ne sono infinite. Non c’è una via giusta e una sbagliata, ci sono solo molte interpretazioni più o meno convincenti.
Questa recensione semiseria (anzi, sarà abbastanza seria e circostanziata) si riferisce alla seconda recita, martedì 2 febbraio.
Il regista di questa ripresa scaligera (lo spettacolo è già stato visto nel 2006, mi pare), Peter Mussbach, non ha dubbi: il protagonista è un seduttore erotomane, incapace di trovare pace fisicamente e mentalmente, in continuo movimento finalizzato alla ricerca della sua soddisfazione.
Una lettura forse superficiale e semplicistica, ma che ha il merito di essere chiara, trasparente e non costringe lo spettatore ad arzigogoli intellettualoidi pretestuosi.
 
Lasciar le donne! Pazzo!
Lasciar le donne? Sai ch’elle per me
son necessarie più del pan che mangio,
più dell’aria che spiro!
 
Dichiara il seduttore, scandalizzato, a Leporello.
È il classico esempio di regia minimalista che decontestualizza la vicenda e la colloca in uno spazio atemporale che ben si presta alla rappresentazione di un mito, un archetipo.
Ecco allora che il mondo in cui vive Don Giovanni è rappresentato da due monoliti scuri, che si muovono intorno a lui creando gli spazi, i pertugi, dentro ai quali vivono i personaggi dell’opera, anch’essi incapaci di cambiare e di trovare una stabilità interiore.
Personaggi che sembrano tutti preda di un’ipercinesi dell’anima, più che del corpo.
Locandina Don Giovanni  
I costumi, di Andrea Schmidt Futterer, sono funzionali a questa specie di direttiva generale tanto che i protagonisti non si cambiano mai d’abito e restano sempre uguali: abbigliamento sadomaso (Don Giovanni), un gessato volgarotto (Leporello), un completo da tamarro di campagna in ghingheri (Masetto), un grigio e indefinibile vestito (come il suo carattere, Don Ottavio), mentre il Commendatore nella scena finale, della resa dei conti, sembra un lucente personaggio di fantascienza, un robot. Viene appunto da un altro mondo.
Le signore invece, che non sembrano poi detestare tanto le attenzioni di Don Giovanni (discutibile qui la caratterizzazione di Donna Anna, nella scena iniziale) sono tutte molto sensuali: Donna Anna in abito scuro, Donna Elvira in tubino nero e filo di perle, Zerlina in abito da sposina color rosa pastello.
Non c’è spazio per sfumature, come il monolite nettamente divide lo spazio sul palcoscenico così il buio, lo scuro, appartiene ai potentati e la vivacità dei colori al popolo vittima (?) dei soprusi.
Le luci, di Alexander Koppelmann, sono anch’esse organiche all’allestimento, nelle sfumature del blu e dell’azzurro, e sono più vive solo nel finale.
Quello che conta è che si percepiva uno sforzo registico sul lavoro dei cantanti, in cui nulla era mai lasciato al caso. Mussbach può essere discusso, ovviamente, ma è un regista e non uno scenografo che si occupa di regia a tempo perso.
Sul podio di un’Orchestra della Scala in ottima serata c’era Louis Langrée che mi ha fatto temere il peggio con una Sinfonia iniziale pesantissima e roboante. Per fortuna durante la recita il direttore si è calmato e la musica di Mozart non è stata sfregiata da una lettura clangorosa, ma anzi l’accompagnamento ai cantanti e i concertati avevano sempre quella leggerezza, quell’impalpabilità eterea ma eloquente che  è il tratto disitintivo della musica di Mozart. Stranamente nel finale è mancato un po’ di quel vigore indispensabile alla rappresentazione dell’abisso e della perdizione.
Erwin Schrott è stato un Don Giovanni quasi ideale dal punto di vista vocale e perfetto nel contesto di questo allestimento. Dal lato vocale gli rimprovero solo una tendenza un po’ eccessiva al parlato nei recitativi, ma per il resto è risultato magnifico. La voce è molto bella e sonora, di timbro chiaro ma ricchissima di armonici e calda, mai forzata. La dizione e la pronuncia ammirevoli, gli acuti sicuri.zdg8
Insomma una prova maiuscola e mi sbilancio anch’io, per una volta: è il miglior Don Giovanni possibile oggi e non teme neanche troppo gli inevitabili confronti con i grandi del passato, perché al di là del personaggio contingente, Schrott sa cantare e ha un’ottima tecnica. Ne sono testimonianza inequivocabile il legato e la gestione perfetta del fiato, che gli consentono un fraseggio preciso e mai noioso e mezzevoci bellissime, di cui ha fatto sfoggio tutt’altro che autocompiaciuto in più occasioni.
Il suo modello è per me (anche se  Schrott non l’ha nominato, quando l’ho intervistato) Eberhard Waechter,  io ci trovo molto della leggerezza e dell’umorismo di questo cantante,  nell’interpretazione del "suo" Don Giovanni.
Inoltre, in un ruolo che si presta facilmente a cadute di gusto (visto anche il costume eh?) la sua prestazione brilla, cosa rara (ah, ah, ah), per buon gusto e pertinenza stilistica.
Amen.
Alex Esposito ha caratterizzato un vivace Leporello, e se c’è stata qualche gigionata è sicuramente imputabile a una scelta registica, perché l’artista è misurato e posso dirlo per averlo sentito più volte a teatro. Tanto è sicuro del suo percorso Don Giovanni tanto è pieno di dubbi il suo servitore (non v’annoio con il pistolotto sull’alter ego, non preoccupatevi) e Esposito rende benissimo questa caratteristica con un fraseggio ansioso ma sorvegliato e una vocalità che riesce ad essere controllata anche nell’esprimere la ruspante vitalità frustrata di chi si deve accontentare degli avanzi del padrone, siano donne o pezzi di fagiano. Eccellente poi la disinvoltura scenica, in un allestimento che richiede anche, nella fattispecie, un considerevole impegno fisico.
Juan Francisco Gatell era nei panni dell’inane Don Ottavio e non mi ha convinto. Il tenore ha un timbro sbiancato, freddo e querulo e se è vero che il suo personaggio non brilla certo per determinazione, queste caratteristiche, unite a una generale monotonia interpretativa, hanno contribuito a una prestazione molto evanescente. Inoltre il volume della voce è ridotto e qualche volta (nei concertati) non si sentiva. Le due bellissime arie, ad onor del vero di difficoltà straordinaria, sono scivolate via senza alcuna emozione.
Anche Gatell, va detto, è un cantante di ottimo gusto e solo per questo non considero la sua prova del tutto negativa.
Buono Mirco Palazzi quale Masetto, anche se la voce in alcuni momenti m’è sembrata un po’ flebile, mentre merita ogni elogio dal punto di vista scenico, perché si è mosso bene sul palco senza fare la caricatura grottesca del marito geloso.
Avrei preferito un Commendatore più corposo dal punto di vista vocale, ma non posso certo affermare che Georg Zeppenfeld abbia demeritato.
Carmela Remigio ha interpretato Donna Anna, una parte costellata di difficoltà sia vocali sia interpretative, ed  è stata magnifica (ho un debole per questa ragazza, mi ricordo ancora una sua splendida Marguerite nel Faust a Trieste, qualche anno fa).zdg9
Intanto l’accento è sempre fiero e nobile, e non è scontato che sia così, e ne guadagnano in particolare i recitativi, la cui riuscita artistica è fondamentale in Mozart. E poi ha una voce gradevolissima, non certo debordante come tonnellaggio, ma di grande impatto perché proiettata benissimo.
Inoltre, e neanche questo è scontato, non si riscrive a proprio uso e consumo la parte spianandosi le agilità, i picchettati, gli acuti. Le due grandi arie sono state risolte in modo ineccepibile e accompagnate da quell’intensità emotiva che fa la differenza tra un’interpretazione onesta e una brillante. Or sai chi l’onore meritava un applauso a scena aperta che ahimé, non c’è stato. Ottima anche nel rondò Non mi dir, nel quale la cantante ha dimostrato con i fatti cosa significa avere una tecnica salda, in un’aria che ha visto soprano di gran nome naufragare in modo clamoroso.
Avevo sentito parlare male di Emma Bell, Donna Elvira, ma a me pare che le si possa imputare solo una dizione non chiarissima e una gestione dei fiati rivedibile. La voce è discretamente potente e forse non troppo sorvegliata, specialmente nel primo atto, in cui le è scappato qualche acuto un po’ gridato. Nella seconda parte invece la prestazione è cresciuta e ha cantato bene Mi tradì quell’alma ingrata.
Forse è troppo agitata in scena, ma non è che interpreti un personaggio calmo e tranquillo eh? Voglio dire, questa donna non fa che correre dietro a Don Giovanni per tutta l’opera e spera che sia Mr.Right contro ogni evidenza, e Mozart descrive quest’ansia implacabile con una musica nervosa, agitata.
Veronica Cangemi ha evitato, e la ringrazio, di interpretare una Zerlina leziosa e manierata. La sposina ha pepe, tanto, e l’attrazione per il nobile cavaliere è stata resa senza eccessi. Forse solo nel la “Canzone dello speziale” mancava un po’ di sensualità e malizia, ma il soprano è stata convincente nel duetto del primo atto e anche lei ha dimostrato una grande attenzione al fraseggio. La voce non è particolarmente attraente, un po’ stridula, manca di rotondità, ma la linea di canto è pulita e il personaggio è stato ben delineato.
Nel complesso io e ex Ripley abbiamo trovato trovato questo Don Giovanni scaligero molto buono, decisamente sopra la media degli spettacoli che si sentono normalmente. Tra l’altro Ex Ripley ha apprezzato le "tartarughe" di Schrott e Esposito, così tanto per umiliarmi (strasmileamaro).
Abbiamo sentito voci "belle" e visto uno spettacolo forse non straordinario ma di rilievo, interessante e stimolante.
Il pubblico milanese invece non ha manifestato grandi entusiasmi durante l’opera (sicuramente io sono un provincialotto eh?) e ha preferito accogliere tutta la compagnia di canto con grandi applausi alla fine.
Trionfo per Erwin Schrott e giubilo più contenuto per Alex Esposito e Carmela Remigio, comunque apprezzatissimi. Tiepida l’accoglienza a Juan Francisco Gatell. Buon successo per tutto il resto del cast, direttore compreso. Segnalo per dovere di cronaca un singolo “buu” a Emma Bell.
Un saluto a Giuliano e Danilo.
 
 
 

Recensione semiseria di Manon Lescaut alla Fenice di Venezia: ovvero “La liceale nella classe dei ripetenti”.

L’orrida Venezia è sempre bella, solo la città lagunare può offrire scorci malinconici come questo qui sotto.

La malinconica Venezia
Sono bei momenti, perché i sensi si risvegliano in simili occasioni, ti pare quasi di percepire l’effluvio di centinaia di anni di pensiero, di Arte, di raccoglimento.
La magia di Venezia.  
Capisci in un attimo che il cerchio sta per chiudersi e che non può che arrivare Brunetta come sindaco (strasmile).
Ma veniamo all’esito della recita pomeridiana di domenica.
 

Viola Manon Lescaut

L’offesa più grave che può fare un regista a un compositore non è ideare un allestimento strampalato o incongruente col libretto, ma contraddire l’essenza della musica scritta, mortificare la creatività del musicista.
Sulla genesi della Manon Lescaut di Puccini si sono scritti fiumi di parole e io non starò certo qui a far tracimare gli argini di questi corsi di liquido ingegno (scusate, non so che m’abbia preso oggi).
Non credo sia un caso peraltro che tutti gli studiosi seri, chi più chi meno, considerino la terza opera del lucchese come affine al Wagner del Tristan e alla musica di Richard in generale.
I leitmotiv, il tentativo di superare la gabbia dorata del pezzo chiuso, la fluidità sinfonica dell’ispirazione musicale ne sono testimonianza. Insomma, continuità nell’azione drammaturgica.
E quindi, per default, mi verrebbe da scrivere, una concezione registica che preveda cambi scena di dieci minuti e un intervallo di tre quarti d’ora (e mi dicono che è un risultato ottenuto grazie alla bravura delle maestranze della Fenice, perché alla prima la sosta era di oltre 50 minuti) è già sbagliata dal punto di vista intellettuale.
Se poi il regista, Graham Vick, Manon1moddi cui ho spesso apprezzato il lavoro, dà i numeri, allora siamo alla baracconata di regime, all’ostentazione del nulla, alla masturbazione intellettuale. Insomma, la citazione della cagata pazzesca di fantozziana memoria è inevitabile, soprattutto per chi come me ha una cultura limitata e una mentalità gretta, meschina, codina e reazionaria.
Non mi pare che il teatro lirico oggi abbia bisogno di queste alzate d’ingegno che, tra l’altro, sono pure costosissime. Non sono questi i momenti per scialare i soldini delle fondazioni liriche (che poi sono i nostri eh?).
C’è di buono che le scenografie e i costumi, firmate rispettivamente da Andrew Hays e Kimm Kovac, fanno scompisciare dalle risate, specialmente nel primo e nel terzo atto.
L’inizio assomigliava a un film soft porno, non per nudità esibite, ma per ambientazione.
Gli studenti scemi (in calzoni corti i maschietti e gonnellina, calzettoni e ciuccetti le femminucce) scrivono “amore” sulla lavagna; poi entra lo studente ripetente (il cavaliere Des Grieux) e subito dopo la bellona (Manon Lescaut). Il fratello ruffiano (Lescaut) e il vecchio porco (Geronte) ci sono già anche nel libretto originale.
“La liceale nella classe dei ripetenti”, appunto. C’è pure una citazione di Cicciolina, con l’orsacchiotto di pelouche rosa (insomma, si fa per dire, sarà stato alto tre metri) e l’omaggio alla cultura psichedelica fine anni 60 (volano cigni di dimensioni spropositate, che per fortuna non sono diarroici o incontinenti, è già una cosa).
Vabbè.
Nel secondo atto la nostra Manon vive nel lusso e, ideona che forse vorrebbe evidenziare la modernità dell’opera, si fa i tatuaggi e il suo tatuatore sniffa cocaina. Minchia, averci pensato io.
Nella scena del minuetto il maestro di ballo è trasformato in fotografo di moda: banale e scontato, per non parlare delle contraddizioni con il testo.
Manon4mod
Nel terzo atto le prostitute stanno appese ingabbiate come lampadari e man mano che sono nominate (sono undici, Manon compresa: Rosetta, Madelon, Ninetta, Caton, Regina, Claretta, Violetta, Nerina, Elisa, Ninon e Giorgetta) vengono calate sul ponte e alcuni loschi figuri con il giubbotto dell’Anas le disimpegnano dai lucchetti. Una non ci riesce, povera, e resta ingabbiata, speriamo che l’abbiano liberata in serata.
Il quarto atto, che si svolge nel deserto, è quasi normale. Bella forza, siamo nel deserto, che doveva inventarsi il regista?
Inoltre, senza che ci sia alcuna motivazione, ogni tanto qualcuno del Coro doveva lanciare stelle filanti sul palcoscenico. Forse perché siamo a Carnevale?
Cosa si scrive quando le luci sono infamia e senza lode? Che sono suggestive. Ecco. Le luci di Giuseppe Di Iorio erano suggestive.
La coreografia di Ron Howell? Boh, io non l’ho notata, ma magari c’era e ho rimosso.
In tutto questo c’era un direttore, Renato Palumbo, alla guida di un’ottima Orchestra della Fenice.
Direzione così così. Magniloquente e retorica, fredda e metallica, gelida nello splendido Intermezzo. Clangorosa, anche, in qualche occasione.
L’attrazione della serata era il soprano Martina Serafin, che ascoltavo dal vivo per la prima volta e della quale mi era stato detto un gran bene.
Beh, non le manca il volume, questo è certo, è una voce importante. Però ha cantato tutto forte o mezzoforte perciò non ho sentito né una ragazzina innamorata né una tentatrice capricciosa né tantomeno una donna disperata, ma solo una ragazzona ansiosa. Una lettura troppo superficiale, parzialmente riscattata da una buona esecuzione dell’aria dei gioielli.
Gli acuti inoltre non mi sono sembrati facilissimi e un paio erano pure calanti. La voce non ha particolari attrattive timbriche e spesso suona aspra e segaligna.
Insomma, non mi è parsa un portento ma, almeno ieri, solo un’onesta cantante con una buona propensione ai ruoli drammatici, più per tonnellaggio vocale che altro.
Dal punto di vista scenico non saprei che dire, anche perché conciata da ragazzina con i calzettoni, lei che è una signora bella grande, non credo si sentisse a proprio agio.
Voglio dire, una Manon Lescaut che non seduce né con la voce né con la recitazione, il fraseggio, non può considerarsi riuscita.
Walter Fraccaro era Des Grieux e si sa che da questo tenore non ci si possono aspettare troppe nuances interpretative, visto che punta sempre ad un approccio muscolare e monolitico al personaggio, sia che impersoni Radames sia che affronti un Cavaradossi.
Ieri però mi è sembrato in cattiva giornata, perché la voce, di per sé abbastanza voluminosa, usciva come ovattata e gli acuti parevano forzatissimi. Molta fatica si è percepita già nella prima aria, Tra voi belle, brune e bionde, in cui la gestione pessima dei fiati ha compromesso la buona riuscita della sortita. La parte ruota tutta sulla cosiddetta “zona di passaggio” ed è molto impegnativa, bisogna sottolinearlo, per cui anche un si bemolle pesa parecchio, un po’ come nell’Otello verdiano che sembra che il tenore canti qui al Verdi di Trieste tra un paio di mesi (non voglio fare la Cassandra, ma insomma…speriamo bene).
È mancato l’approccio amoroso, il turbamento dei sensi e della mente che porta alla perdizione e alla fine alla rovina.
Il baritono Dimitris Tiliakos, in una parte sfuggente e di difficile lettura psicologica, si è limitato al compitino appalesando una voce esile, secca e poverissima di armonici. Gli riconosco una buona presenza scenica e una generica correttezza vocale.
Alessandro Guerzoni era Geronte di Ravoir e non mi è dispiaciuto almeno perché era abbastanza sonoro e non ha accentuato il lato volgare di un personaggio già fastidioso di suo.
Il tenore Saverio Fiore, impegnato sia come Edmondo sia come Lampionaio non ha demeritato.
Bene il Coro, preparato da Claudio Marino Moretti e dignitosi tutti i comprimari: Gionata Marton (Oste), Anna Malavasi (Musico), Stefano Consolini (Maestro di ballo), Carlo Agostini (Sergente), Salvatore Giacalone (Comandante) e i quattro Musici (Nicoletta Andeliero, Emanuela Conti, Gabriella Pellos, Francesca Poropat).
Il pubblico ha accolto bene tutta la compagnia di canto, regalando ovazioni a Martina Serafin e Walter Fraccaro.
Compagnia di canto Manon Lescaut.  
Non ci sono state contestazioni al regista, com’è successo alla prima di venerdì scorso, ma comunque Graham Vick o non c’era o se c’era dormiva, come avrebbe fatto bene a fare anche quando gli proposero di allestire questa Manon Lescaut.
Cena leggera e un bel sonno ristoratore e sereno, così magari il riposo non è disturbato da incubi popolati da cigni rosa giganti e orsacchiotti grandi come Tirannosauri (stramile).
Buona settimana a tutti e un saluto a Adalberto e Ilaria.

De rerum canorae (mah…) ovvero il Werther di Jonas Kaufmann.

M’ero scordato il link da dove ancora oggi, mi pare per i prossimi cinque giorni, si può vedere lo spettacolo: eccolo qui. Magari a qualcuno interessa!

Giovedì scorso il canale televisivo Arte ha trasmesso il Werther di Jules Massenet e, una volta di più, i siti web che si occupano di lirica si sono divisi in due fazioni nel valutare la prova del protagonista dell’opera, il tenore Jonas Kaufmann.

Ovviamente, non ci sarebbe bisogno neanche di sottolinearlo, i toni da talebani non sono mancati, come sempre succede quando si pretende di avere ragione per forza e si cerca non la valutazione contingente, bensì la conferma ai propri pregiudizi, negativi o positivi che siano.
Io, nel mio piccolo, ho un atteggiamento molto più rilassato nei confronti del mio hobby e lascio i toni esacerbati e le guerre di religione ad argomenti più forti.
Non è un merito, è una prospettiva di vita.
Quindi, a proposito di questo Werther la mia sensazione è che, come spesso succede, in medio stat virtus.
La prestazione di Kaufmann, nel complesso, mi ha convinto ma non mi ha certo fatto gridare al miracolo.
Dal punto di vista vocale il tenore tedesco non può rifarsi ai Vanzo o ai Kraus, evidentemente, perché lo strumento vocale è del tutto diverso. Il suo “modello” è o dovrebbe essere Georges Thill, che appartiene alla schiera dei tenori dalla voce più marcatamente drammatica (questa teoria, sostenuta anche dal Corriere della Grisi, mi pare assolutamente inattaccabile).
Cosa fa la differenza tra un Werther di medio-alta routine, così lo definisco io questo Werther di Kaufmann, e uno storico (come sostiene invece Operadisc)?
Il fraseggio, la cura del particolare e, insisto su questo punto perché oggi è fondamentale, la recitazione sul palco, il modo in cui l’artista rende credibile il personaggio anche attraverso la fisicità.
Ora, non credo che si possa negare a Kaufmann una cura del fraseggio veramente fuori dal comune, né che abbia un timbro vocale, caldo e sensuale, adattissimo a questo personaggio così tormentato, lacerato.
La ricerca sin troppo scoperta di alleggerire la voce, che sfiora il manierismo, mi convince molto di meno, invece.
Così come mi convince pochissimo la recitazione del tenore, che ha costantemente stampato in faccia uno stupito stupore, mi si passi la definizione, che lo rende più simile a un pretty loser che a un grande personaggio tragico.
Inoltre, il suo Werther è pericolosamente sovrapponibile al suo Don José e non dovrebbe essere così perché i personaggi sono agli antipodi, dal punto di vista drammaturgico.
Se è vero che i grandi artisti tendono a rifare se stessi, è anche vero che l’autoreferenzialità è specchio d’ immobilità intellettuale e non di cambiamento o rivoluzione culturale.
Però, sempre a mio parere, come sono fuori luogo i trionfalismi lo sono anche, e forse di più, i tentativi di far passare Kaufmann in questa e altre occasioni come un prodotto di agenzia o casa discografica, come un fenomeno mediatico che ha successo perché (mi dicono, vi prego di non chiedere chiarimenti su questo punto) bello e affascinante.
E questo atteggiamento Il Corriere della Grisi ce l’ha con il 99% degli artisti in carriera, il che è statisticamente sospetto, sa di pregiudizio intellettuale.
Jonas Kaufmann è un signor tenore, al giorno d’oggi.
Se è un tenore storico lo sapranno i nostri nipoti, ma negargli una dignità artistica rilevante è capzioso e anche un po’ stucchevole.
Buon fine settimana a tutti.
 

Recensione semiseria di Maria Stuarda al Teatro Verdi di Trieste: cast alternativo.

Allora, vi dovevo una recensione ed eccomi qui a riferire dell’esito della recita di Maria Stuarda di martedì 26, in cui era impegnato il cast alternativo.
Ricordo che si dice “cast alternativo” quello che una volta era il secondo cast, prima che il politicamente corretto facesse sentire i suoi danni anche tra i critici musicali, come se ci fosse bisogno di rendere ancora più oscura la prosa di chi scrive di musica (smile).
In realtà spesso gli appassionati considerano i componenti il cast alternativo come diversamente cantanti, mentre succede che qualche volta ci siano sorprese positive.
E così è stato almeno per la protagonista, Maria Costanza Nocentini, che interpretava Maria Stuarda.
Oddio, nulla di miracoloso, ma tra lei e Hasmik Papian (la Regina di Scozia del primo cast) per me è stata più convincente la Nocentini, almeno per pertinenza stilistica e attitudine al Belcanto.
Il soprano, per esempio, non si è riscritta la parte a suo uso e consumo, eliminando o spianando acuti e sovracuti. Visti o sentiti i risultati, ha fatto molto bene.
Sicuramente la voce non è bellissima e neanche troppo grande e sonora, però con l’unica eccezione di una prima ottava abbastanza evanescente, il personaggio della sfortunata (mah…io direi perdente, perché ha combattutto e perso) Regina di Scozia è uscito bene, specialmente nei momenti più elegiaci e malinconici dell’opera. Qualche problema con la dizione, ho rilevato, ma nulla di irreparabile o particolarmente fastidioso.
Arcigna e determinata l’Elisabetta di Elena Belfiore, la cui prova è stata sovrapponibile, dal punto di vista artistico, a quella di Tiziana Carraro.
Anche il mezzosoprano ha una voce non proprio accattivante, però i gravi non paiono artefatti e gli acuti, seppure un po’ metallici, sono sembrati sicuri. Molto brava anche dal punto di vista scenico e intelligente il fraseggio, che le ha consentito un’ottima caratterizzazione del personaggio: davvero notevole il suo tono insinuante e provocatorio nelle frasi che fanno sclerare (smile) la Stuarda e la portano all’invettiva.
Debole invece il tenore, Dario Schmunck,

nei panni dell’inutile Leicester, che tale è rimasto proprio perché l’artista mi è sembrato accontentarsi di un’interpretazione generica, tipo sbrighiamo il compitino che poi vado a casa a bermi una cioccolata calda.
Ancora bene si è comportato Gezim Myshketa quale Cecil e di nuovo brava anche Alessandra Palomba come Anna.
Censurabile invece la prestazione del basso Gianluca Buratto, che sembrava l’orco cattivo di tante fiabe, solo che qui si trattava di cantare, seppure in una piccola parte, Donizetti. Il suo Talbot, che è vestito da prete, avrebbe potuto benissimo figurare in qualche B movie che tratta di preti posseduti dal maligno (strasmile). Insomma mi tocca usare il tag "nuovi mostri".
Disastrosa, e non ne capisco i motivi, la direzione di Fabrizio Maria Carminati che aveva figurato decentemente alla prima.
Un mio amico colto ha giustamente paragonato orchestra e cantanti, in questa recita, a due rette parallele destinate a non incontrarsi mai. Poi dice che studiare geometria non serve.
Di questa scollatura, evidentissima, tra buca e palcoscenico hanno risentito anche il Coro e l’Orchestra del Verdi.
Peccato.
Il pubblico avrebbe potuto manifestare più calorosamente il suo apprezzamento, ma probabilmente il clima, fuori tirava la bora a 130km/h e c’erano tre gradi sottozero, e la scarsa popolarità dell’opera, lo hanno raffreddato.
Non tutto il freddo viene per nuocere, comunque, perché così almeno alcuni spettatori (uomini e donne, ed altri dalla sessualità incerta) non hanno subito danni irreparabili al lifting (strasmile).
Domani, forse, vi parlerò del recente Werther a Parigi e della prossima Manon Lescaut alla Fenice  (qui si vede anche un’immagine, agghiacciante, dello spettacolo) che stasera radio3 trasmette in diretta, mentre io tornerò nell’orrida Venezia per la pomeridiana di domenica.
Un saluto a tutti.

Mini recensione semiseria di Salome di Richard Strauss al Teatro Comunale di Bologna.

Su questo allestimento della Salome di Richard Strauss al Teatro Comunale di Bologna avevo letto e sentito pareri contrastanti, che nella migliore tradizione dei relata refero gossipari andavano da spettacolo sublime a porcheria immonda.

Salome partitura  
Inoltre, quasi tutte le opinioni venivano da fonti attendibili. Quasi.
Perciò ho deciso di andare a controllare di persona, perché almeno di me stesso mi fido quasi sempre anche se a voi, me ne rendo conto, può sembrare una folle enormità (ma anche una follia enorme eh?).
Quindi insieme a ex Ripley ho assistito allo spettacolo pomeridiano di domenica scorsa.
Tralascio di descrivere in quali condizioni ho trovato Bologna, un po’ com’era successo l’ultima volta che ci sono stato, per la Norma di Daniela Dessì. Mi limito a dire che non ho memoria di una città che si è tanto degradata in un così breve lasso di tempo e la smetto qui.
Allora.
Contrariamente alla Stuarda triestina, qui la regia non era schifosa, ed è già un bel cominciare.
Gabriele Lavia traspone la vicenda all’inizio del Novecento e per me l’operazione è senza infamia e senza lode, però almeno l’allestimento non mette in difficoltà i cantanti costringendoli ad acrobazie inutili sul palcoscenico. E mi pare di poter affermare che non ci siano incongruenze tremende col libretto.
Però non voglio soffermarmi troppo sulla regia, preferisco parlare del lato prettamente musicale.
Aggiungo solo che nel complesso, anche grazie al magnifico impianto luci di Daniele Landi e alla scenografia di Alessandro Camera, lo spettacolo è godibilissimo ed emozionante. Trattandosi di una coproduzione tra le fondazioni di Trieste e Bologna, lo vedrò anche qui al Verdi, non so quando.
Ho trovato magnifica la direzione di Nicola Luisotti, che ha guidato l’Orchestra del Comunale di Bologna sorprendente per disciplina e colore bellissimo, in una partitura scabrosa.
In particolare ho apprezzato che Luisotti sia riuscito a evitare i clangori che spesso riducono questo capolavoro di Strauss (ma anche Elektra) a una specie di uragano di suoni indistinti.
Ho messo questa foto di Strauss perché ricorda me qualche anno fa, quand’ero più giovane.
Anche in questa Salome c’è stata una sostituzione dell’ultim’ora, e cioè quella della prevista Nadja Michael con la sconosciuta (a me, perlomeno) Erika Sunnegårdh, soprano svedese naturalizzata americana.
Proprio sulla prova di quest’artista avevo raccolto le maggiori perplessità e la sua prestazione m’offre l’occasione per chiarire come la penso io sull’opera come “spettacolo”.
Io l’ho trovata una Salome eccellente e un’artista completa ed intelligente.
Intanto, nonostante non abbia vent’anni, il personaggio esce per quello che dev’essere e cioè giovane, priva di effetti caricaturali grossolani, quegli stessi che identificano nell’immaginario collettivo la figlia di Herodias come una mangiauomini scollacciata tipo B movie soft porno o peggio.
L’erotismo estremo, la passione perversa che caratterizzano Salome sono resi in modo elegante, raffinato, sostenuti da una recitazione mai sopra le righe e di ottimo gusto e esaltati da una padronanza scenica assoluta. Bravissima nelle coreografie, per esempio, una bravura che non si esplica solo nella danza dei sette veli ma anche in una costante leggerezza nei movimenti, una grazia che seduce sin dall’entrata in scena (questa signora qui sotto, qualcuno la ricorda?).
Dal punto di vista vocale ha un merito fondamentale e cioè quello di non forzare mai la voce nel tentativo di bucare l’orchestra e trovare una voce imponente che non le appartiene, specialmente nella prima ottava.
Quando sale agli acuti la voce si espande e diventa bella sonora, anche se il colore non è particolarmente attraente.
Detto questo è vero che io, che ero nella penultima fila di platea in alcuni momenti, quando sotto l’orchestra era furibonda (per esigenze di partitura) mi sono perso qualche frase, ok. E allora?
Perché sia chiaro, Erika Sunnegårdh sa cantare e pure bene. Non sarò certo io a sottovalutare le esigenze di un canto corretto, accidenti!
Però signori trattasi di teatro lirico, teatro, ripeto, la prestazione di un artista va valutata nel suo complesso.
Per me la cura nella recitazione, l’eleganza del fraseggio, il buon gusto compensano ampiamente un minimo di deficit di volume vocale, soprattutto in un’opera dall’orchestrazione ipertrofica. Non so che farmene di una voce che passa l’orchestra urlando o di un’altra perfetta per la parte ma inespressiva e algida.
Il soprano in questione ha una voce leggermente sottodimensionata alla parte, tutto qui, non mi pare un dramma, un avvenimento tale da strapparmi i capelli e piangere per tutto il web.
Passiamo, brevemente, agli altri protagonisti.
Mark S.Doss ha impersonato Jochanaan e mi è parso di un livello artistico inferiore alla collega, ma comunque il personaggio è stato delineato nella sua grandezza e maestosità.
Io, al contrario di Daland (e qui vedete come i gusti personali possano incidere nella valutazione di uno spettacolo) avrei preferito una voce di colore più scuro, che ritengo più adatta alla parte del profeta.
Bravissimo il tenore Robert Brubaker che era nei panni scomodissimi di Herodes, a suo agio anche dal lato attoriale. La voce non è bellissima ma voluminosa e la sua caratterizzazione di un Tetrarca volitivo seppur travolto dalla passione mi ha convinto.
Un po’ urlacchiante Dalia Schaechter, che si è rivelata una Herodias piuttosto spenta e incolore.
Lo sfigatissimo Narraboth (non c’è niente da fare, se c’è un personaggio demenziale è roba da tenore) è stato interpretato da Mark Milhofer, che non si deve essere dannato molto per approfondire almeno un po’ la psicologia del Capitano delle Guardie di Herodes.
Lo definirei querulo, gracchiante, ecco. Non che Narraboth sia una parte per tenori dalla voce stentorea, però a me piacerebbe un timbro più corposo.
Compagnia artistica Salome Bologna.  
Tutti gli altri cantanti, e sono tantissimi nei ruoli comprimari, si sono rivelati all’altezza di uno spettacolo che a me è piaciuto molto e ancora di più ha incontrato il favore del pubblico bolognese.
Meritano almeno la citazione: Nora Sourouzian (Paggio), Gabriele Mangione, Paolo Cauteruccio, Dario Di Vetri, Ramtin Ghazavi, Masashi Mori (I cinque giudei), Rainer Zaun e Paulo Paolillo (Due Nazareni), Cesare Lana e Rainer Zaun (Due soldati), Edoardo Miletti (uno schiavo).
 
Un saluto a tutti.
 

Recensione semiseria di Maria Stuarda di Donizetti al Teatro Verdi di Trieste. È morta ogni pietà.

La Maria Stuarda mancava dal Verdi di Trieste dal 1982, e quella di venerdì sera era solo la seconda volta che l’opera veniva rappresentata sul palco triestino.
Premetto che mentre voi leggerete questa mia recensione semiseria io sarò in auto di ritorno da Bologna, perché mi ha incuriosito la disparità di pareri sulla Salome di Strauss, e voglio vedere di persona.
Miracoli di Splinder, che permette di scegliere l’ora della pubblicazione dei post.
Miracoli che non riusciamo a fare io e nemmeno ex Ripley per le foto, perché le bellissime e gentili maschere del Verdi sono inflessibili (smile).
Violino II Maria Stuarda.
 
Bene, bisogna dire subito che questo allestimento del regista Denis Krief (che in un attacco di grafomania firma tutto, scenografia, costumi, luci e probabilmente anche la condanna a morte di Maria Stuarda. Certo non autografi, cazzo.) mortifica la bellissima opera di Donizetti perché è di una bruttezza rara in primis (ma brutto brutto eh?) e poi perché contribuisce a rendere ancora più difficile il lavoro, già improbo, dei cantanti.
Mi complimento, caro Denis!
Allora, secondo il regista la chiave di lettura della vicenda è l’incomunicabilità tra i protagonisti e, tanto per esprimersi con sottili metafore, già questo a me pare una stronzata terribile.
Le vicende sfortunate della Regina di Scozia non dipendono da mancanza di comunicazione ma, all’opposto, da una precisa volontà politica che si manifesta in maniera estremamente lineare: bisogna salvare lo status quo perché ciò impone la ragion di Stato. Per questo Maria Stuarda, che complotta contro codesto Stato e professa pure un altro culto religioso è prima osteggiata, poi imprigionata e infine giustiziata.
Non mi pare ci siano messaggi polisemici da decrittare.
Ma come esprime Krief questa presunta incomunicabilità?
Vestendo con costumi orrendi e ridicoli i cantanti e costringendoli a muoversi su e giù in un labirinto come criceti in una gabbia. Così (io lo so che è difficile da credere, ma fidatevi) i solisti sembrano tanti SuperMarioBros che camminano instancabili ad cazzum per i corridoi di questo labirinto e quando trovano un ostacolo tornano indietro, mentre nel frattempo il Coro, schierato immobile, guarda da un’altra parte.
Ogni tanto qualche cantante scompare da un lato del videogio…scusate del labirinto e ricompare dall’altra parte, a meno che non sia risucchiato da qualche buco nero sul palcoscenico.
Salverei le luci, di questo spettacolo, ma solo perché mi hanno consentito di vedere bene l’orribile costume che indossa la Stuarda per andare al patibolo:

una via di mezzo tra un camice da manicomio, un vestito di Mary Poppins e un accappatoio bianco di quelli che si trovano nei sordidi motel di infima categoria che vogliono apparire diversi dai lupanari che sono in realtà (nella foto non si capisce bene, credetemi!).
Ecco.
Che dire di Hasmik Papian, che ha impersonato Maria Stuarda?
Beh, intanto che ha avuto poco tempo per imparare la parte, perché chiamata alla fine di dicembre in sostituzione di Annick Massis, che ieri ha cantato, non so con quali risultati, l’Idomeneo al Regio di Torino. Ancora, che non dovrebbe abusare delle possibilità di ritocco che offre Photoshop (smile).
E poi che ha urlacchiato parecchio, che si è incasinata col testo, ma che nonostante questo ha avuto qualche sprazzo di buon canto: la famosa invettiva, ad esempio, ma anche la preghiera finale.
Il soprano, insomma, ha limitato i danni di una preparazione affrettata, anche se gli acuti resteranno forzati comunque e nella prima ottava continuerà a sfiorare il parlato.
Tiziana Carraro, Elisabetta, ha cantato discretamente e ha superato gli scogli della parte, che non sono pochi: già nei post precedenti ho sottolineato come la scrittura vocale sia nervosa, piena di sbalzi che caratterizzano una donna preoccupata sia di perdere l’amante sia della minaccia al trono.
La voce è piuttosto anonima e non ha attrattive particolari, ma l’artista non ha demeritato, anche perché la recitazione, seppur ridotta al minimo per i motivi registici di cui sopra, è stata controllata, senza quegli eccessi uterini che sono tanto amati da qualche sopranaccio da sbarco.
Celso Albelo è stato bravo a dare un senso all’inutile Conte di Leicester, un uomo deficiente come pochi, che combina casini e peggiora la situazione sua e degli altri non appena apre bocca.
Il tenore deve fare i conti con una tessitura scomoda, ma gli acuti e l’attenzione al fraseggio sono i punti di forza dell’artista che alla fine è risultato il migliore della compagnia.
Per una volta, e me ne compiaccio molto, sono rimasto contento della prova di Gezim Myshketa nei panni di Cecil. Il personaggio non si presta a particolari sfaccettature, ma il baritono ha offerto una prova solida e vigorosa che mi ha convinto.
Un po’ casinista, con termine molto tecnico, definirei Carlo Cigni, il basso che ha impersonato Talbot: voglio dire, forse il canto non è raffinatissimo, però la sua interpretazione è stata efficace.
Brava il mezzosoprano Alessandra Palomba, nella piccola parte di Anna, confidente, ancella, nutrice, insomma quello che volete voi, di Maria Stuarda.
Alla testa di un’Orchestra del Verdi in buona serata, il direttore Fabrizio Maria Carminati ha dato una lettura abbastanza superficiale della partitura donizettiana e, se ha evitato fastidiosi clangori, non ha certo illuminato con la sua concertazione gli sprazzi più elegiaci dell’opera. Mancava un po’d’emozione, ecco.
Certo che dirigere l’orchestra con un labirinto insensato davanti non credo aiuti.
Bene il Coro.
Pubblico contento, non numerosissimo a parer mio, ma generoso di applausi anche a scena aperta per tutta la compagnia di canto.
Qualche piccola contestazione alla regia, qui ripresa da Giulio Ciabatti che ci ha messo la faccia ma è assolutamente incolpevole.
Se non sogno di finire in un labirinto con Jack Nicholson che m’insegue, vado a vedere anche il secondo cast.
Saluti labirintici a tutti.
 

Maria Stuarda al Teatro Verdi di Trieste, altre considerazioni a latere.

Prima di proseguire con qualche ulteriore curiosità sulla Maria Stuarda di Donizetti, segnalo un’interessante iniziativa del Teatro Verdi di Trieste.
Domani alle 18, nel Ridotto del teatro triestino, l’attrice Sara Alzetta reciterà un monologo intitolato Non spero altro regno, che Gianni Gori (autore di questo libro che non finirò mai di consigliare a tutti) ha ricavato dalla biografia di Stuarda di Stefan Zweig.
L’occasione è stimolante, perché forse si può comprendere meglio la vicenda e la figura di Maria Stuarda,

che dall’opera di Donizetti esce un po’ troppo angelicata, contraddicendo le testimonianze storiche che non la dipingono proprio come un agnellino.
E a proposito di forzature mi sono dimenticato di scrivere nel post precedente che l’incontro tra Elisabetta e Stuarda non è mai avvenuto, si tratta di un’invenzione drammaturgica di Schiller. È vero invece che la Regina di Scozia chiese più volte, invano, d’incontrare la Regina d’Inghilterra.
Donizetti differenzia in modo netto le due rivali, proprio dal punto di vista melodico e musicale in generale.
Elisabetta è sempre tesa, nervosa, sprezzante e la musica che l’accompagna caratterizza anche la sua imperiosa regalità. Si potrebbe affermare che sia un personaggio monolitico, come il Potere che rappresenta.
Nell’originale di Schiller ecco con che veemenza e con che tono parla della cugina rivale (l’interlocutore è sempre l’inutile Conte di Leicester):
 
E sono queste, Lord Leicester, le attrattive che nessun uomo può guardare impunemente, che nessuna donna può azzardarsi a uguagliare! In verità, è una fama conseguita a buon mercato.
Per essere la bellezza riconosciuta da tutti non occorre altro che essere appartenuta a tutti.

Credo che la condanna, tutto sommato, fu firmata volentieri.

Viceversa Maria Stuarda è una donna in divenire (La donna è mobile? Smile) e questa trasformazione si nota benissimo nella vocalità che è tipica del Belcanto, aulica e fiorita.

Con ciò non voglio dire che Elisabetta debba essere una specie di Santuzza della Cavalleria eh (smile)? Né avallare interpretazioni sbracate. Sostengo però che ci vuole temperamento, che il personaggio non può essere risolto solo snocciolando le note.
Io (non solo io, si fa per dire) ci sento tanto Rossini e tanto Bellini, in questa Maria Stuarda.
 
Insomma, Donizetti ci tiene a “distanziare” bene i due caratteri o personaggi, che sono rivali non solo per il trono ma anche per lo stesso uomo, il stupidissimo Conte di Leicester. Insomma, c’è anche una forte connotazione sessuale, erotica, come si nota dalla frase riportata sopra.
Le due Regine riposano ora una accanto all’altra, nell’Abbazia di Westminster,

proprio dove Maria Malibran, in un impeto di furore stanislavskiano ante litteram (smile) si recò prima di decidere di cantare la famosa invettiva di cui ho parlato nel post precedente.
Il libretto porta la firma di Giuseppe Bardari, che ci regala perle tipo questa:
 
Su’ prati appare, odorosetta e bella, la famiglia de’fiori.
 
Mah. Voglio dire, abbiamo letto di peggio, ma certo non lo premierei col Nobel per la poesia, questo Bardari (smile).
In realtà si sa che Bardari, di cui (per fortuna, direi, strasmile) non avremo più notizie si limitò a un lavoro di cesello, perché Donizetti stesso fu molto attivo nella stesura del libretto.
Un’ultima notazione mi pare opportuna.
Donizetti si conferma, al pari degli altri compositori coevi, uno sperimentatore anche piuttosto spregiudicato per i tempi.
Ci vuole una bella libertà intellettuale per mettere in scena il lato oscuro dei potenti, oggi come allora.
I nostri geni (lo so, è una generalizzazione forse ingenerosa) si limitano ad importare format di collaudato successo e rischiano pochino.

Da qui potete scaricare un’altra versione del famoso duetto dell’invettiva:

 
MARIA STUARDA INVETTIVA (Montserrat Caballè, Shirley Verrett New York 1967, Carlo Felice Cilario sul podio)
 
Un saluto a tutti.

Maria Stuarda al Teatro Verdi di Trieste: un primo sguardo semiserio.

Riprende venerdì prossimo, dopo la pausa di fine anno, la stagione operistica al Teatro Verdi di Trieste.
Nel frattempo alla Sala de Banfield domenica 3 gennaio c’è stata la prima rappresentazione in tempi moderni dell’opera “Marinella”, del compositore triestino Giuseppe Sinico.
L’argomento opere liriche tratte dal medesimo testo teatrale (in questo caso si tratta di Le Roi s’amuse di Victor Hugo, che fu d’ispirazione a Verdi per il Rigoletto) è molto interessante e mi ripropongo d’affrontarlo tra qualche tempo.
Dicevo che si ricomincia a Trieste e il prossimo titolo è veramente impegnativo: la Maria Stuarda di Gaetano Donizetti.
L’opera è tratta dal testo di Friedrich Schiller,

un autore che è stato spesso “saccheggiato” dai nostri librettisti e compositori. Si pensi almeno ai Masnadieri, al Don Carlos e alla Luisa Miller di Verdi o al Guillaume Tell di Rossini.
Ci sono molti aspetti di questo lavoro che andrebbero indagati con attenzione, ma intanto credo sia importante sottolineare che Donizetti attenuò di molto i risvolti politici dell’originale di Schiller.
Questo “dimagrimento” è dovuto ad esigenze drammaturgiche, quasi Donizetti anticipasse il famoso detto “brevità e fuoco” di Giuseppe Verdi, e ovviamente anche alle solite preoccupazioni per la censura.
Nonostante le precauzioni, il previsto debutto al San Carlo di Napoli fu bloccato, nel 1834, dai censori borbonici. Come se non bastasse alla prima rappresentazione, che avvenne alla Scala di Milano nel 1835, la protagonista Maria Malibran

decise di fare di testa sua e cantò versi (sui quali tornerò più avanti, perché sono davvero roba forte, strasmile!) che le erano stati amichevolmente sconsigliati. Il risultato fu che dopo qualche recita l’opera fu sospesa e mai più ripresa sino al 1865.
Insomma, le solite manfrine che abbiamo visto tante volte e che sono attualissime, tra l’altro.
Non posso fare a meno di notare, divagando un po’in modo semiserio, che nella Maria Stuarda troviamo uno degli esempi più clamorosi di stupidità del tenore (smile).
Di solito i personaggi tenorili sono dei bellimbusti spavaldi, arroganti, sempre pronti a menare le mani e a combinare casini, che corrono dietro ai soprano, ma qui siamo proprio all’imbecillità pura!
Il nostro eroe, che si chiama Roberto Conte di Leicester, ha una relazione (la faccio breve…) con entrambe le donne, Elisabetta Regina d’Inghilterra e Maria Stuarda Regina di Scozia. Due soprano al prezzo di uno, insomma.
Il fatto è che la prima è inferocita come una biscia e sospetta fortemente che tra la rivale politica e di talamo (che non vede da molto tempo, perché l’ha fatta imprigionare) e il bel Roberto ci sia una tresca, per cui a un certo punto chiede con noncuranza al Conte: Com’è, è ancora carina (è leggiadra, dice il testo originale)?
E l’impiastro, tanto per dissipare ogni sospetto, risponde con le parole fredde e distaccate tipiche di chi è un astuto calcolatore, aduso a non farsi scoprire nelle sue marachelle:
 
Ah sì!
Era d’amore l’immagine,
degli anni sull’aurora:
sembianza avea d’un angelo
che appare, e innamora;
era celeste l’anima,
soave il suo respir.
Bella ne’dì del giubilo, bella nel suo martir.
 
Un vero deficiente, diciamolo (strasmile).
 
Dicevo sopra dei versi proibiti che la Malibran cantò nonostante fosse stata caldamente sconsigliata.
Pensate che già alle inutili prove napoletane, le due primedonne prescelte per la recita poi sospesa, Giuseppina Ronzi de Beignis (che si sa che era matta come un cavallo…)

e Anna del Sere si picchiarono selvaggiamente rinfacciandosi presunte “relazioni pericolose” col Compositore.
Sembra che Donizetti per sbollire gli animi intervenne con una frase destinata a rappacificare gli animi:
 
Io non proteggo nessuna delle due, ma due puttane erano quelle e due puttane siete voi due!
 
Non ho parole ma solo parolacce, mi verrebbe da dire (smile).
 
Questo il passo incriminato.
Maria Stuarda sopporta per un po’ gli insulti di Elisabetta, ma poi sbotta così:
 
Figlia impura di Bolena,
Parli tu di disonore?
Meretrice indegna e oscena,
In te cada il mio rossore.
Profanato è il soglio inglese,
Vil bastarda, dal tuo piè!
 
Ecco, capite che non ci sarebbe bisogno del mio prossimo post per capire che per la Stuarda non finirà benissimo.
Vi allego un ascolto in formato mp3 della scena completa, protagoniste Leyla Gencer (Stuarda) e Shirley Verrett (Elisabetta), nell’allestimento storico del 1967 a Firenze, sul podio Francesco Molinari Pradelli.

DUETTO MARIA STUARDA

Nei prossimi giorni ci saranno, da questi pulpiti, altre curiosità su quest’opera magnifica.
Buona settimana a tutti.
 
 
 
 
 
 
 
 

Un altro disco storico: i Pagliacci di Ruggero Leoncavallo.

Questa incisione dei Pagliacci è del 1954, quindi solo di un anno successiva alla Cavalleria della quale ho parlato nel post precedente. Eppure, in un certo senso, sembra che di anni ne siano passati molti di più.
Dov’è il problema, vi chiederete (me le faccio e me le dico, mi rendo conto)?
In questa registrazione il problema ha un nome e un cognome: Giuseppe Di Stefano.
Il tenore firma una delle sue peggiori incisioni (purtroppo ce ne sono altre ancora più fastidiose), e qui non posso che concordare con Celletti e Giudici.
Di Stefano sostanzialmente urla dall’inizio alla fine, e canta mai o quasi mai, preso da un furore incontenibile che può soddisfare, oggi come allora, solo chi concepisce la lirica come un esercizio muscolare fine se stesso.
Gli acuti sono veementi ma forzatissimi e vetrosi, e in molte occasioni anche la dizione, da sempre una qualità indiscutibile del tenore, diventa un optional: le consonanti si trasformano nella rampa di lancio dalla quale sparare gli acuti, per cui anche le esigenze del fraseggio e della musicalità ne rimangono intaccate.
Resta solo la pertinenza di un accento genericamente vigoroso che comunica solo rabbia anche nei momenti in cui non è necessario.
Un Canio da dimenticare, assolutamente, soprattutto perché lo stesso Di Stefano, in altre occasioni, fu molto più convincente o addirittura magistrale.
Maria Callas, invece, scolpisce un personaggio memorabile, a mio parere. E tenete presente che questa parte (Nedda) non fu mai affrontata a teatro.
Il momento più esaltante è proprio la Ballata, perché il soprano riesce a farci sentire quella fanciulla ancora piena di speranze che c’è dietro alla sfortunata compagna di un guitto ubriacone e violento.
Qui, in questo ruolo difficilissimo e sottovalutato (come troppo spesso accade per il verismo, considerato una musica diversamente lirica) , la Callas ci lascia un’interpretazione che è una vera e propria pietra miliare del Belcanto.
Al top anche Rolando Panerai (Silvio), baritono, che canta con dolcezza mozartiana il suo ruolo d’innamorato sfortunatissimo.
C’è poi Tito Gobbi, un altro cantante mitico che non mi ha mai convinto troppo, ma che qui canta davvero bene, senza eccedere in gigionate come spesso gli succedeva, e facendo valere un accento e un fraseggio da fuoriclasse. Il suo Prologo è eccellente, anche se io non riesco a togliermi dalla mente le mirabilie

che in questo pezzo farà Giuseppe Taddei con Herbert von Karajan sul podio, una decina d’anni più tardi.
La concertazione di Tullio Serafin è sulla falsariga di quella della Cavalleria Rusticana: maestosa e teatralissima, attenta ai particolari. L’introduzione al Prologo, l’Intermezzo, l’accompagnamento alla celebre aria di Canio sono momenti magici.
Anche in questa registrazione, come nella precedente di Cavalleria, Serafin dirige l’Orchestra e il Coro della Scala: semplicemente straordinari per bellezza di suono e compattezza.
Comunque, al di là di tutto, questo è un altro disco che non può mancare nella collezione di un melomane, questo è poco ma sicuro.
Per chi ha voglia d’ascoltare, ecco qui Maria Callas nella Ballata di Nedda: sentite come con la voce illumina di gioia e speranza tutto il pezzo, come si percepisce il desiderio di una vita diversa.

 

 
NEDDA
(pensierosa)
Qual fiamma avea nel guardo!
Gli occhi abbassai per tema ch'ei leggesse
il mio pensier segreto!
Oh! s'ei mi sorprendesse…
bruttale come egli è!
Ma basti, orvia.
Son questi sogni paurosi e fole!
O che bel sole di mezz'agosto!
Io son piena di vita,
e, tutta illanguidita per arcano desìo,
non so che bramo!
 
guardando in cielo
Oh! che volo d'augelli,
e quante strida!
Che chiedon? dove van? chissà!
La mamma mia, che la buona ventura annunziava,
comprendeva il lor canto
e a me bambina così cantava:
Hui! Hui!
 
Stridono lassù, liberamente
lanciati a vol, a vol come frecce, gli augel.
Disfidano le nubi e'l sol cocente,
e vanno, e vanno per le vie del ciel.
Lasciateli vagar per l'atmosfera,
questi assetati d'azzurro e di splendor:
seguono anch'essi un sogno, una chimera,
e vanno, e vanno fra le nubi d'or!
Che incalzi il vento e latri la tempesta,
con l'ali aperte san tutto sfidar;
la pioggia i lampi, nulla mai li arresta,
e vanno, e vanno sugli abissi e i mar.
Vanno laggiù verso un paese strano
che sognan forse e che cercano in van.
Ma i boèmi del ciel, seguon l'arcano poter
che li sospinge… e van! e van! e van! e van!

 

Un saluto a tutti.